Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    EPILOGO.

    PARTE PRIMA.


    CAPITOLO 1.

    Passarono sette anni. Le acque sconvolte del mare della storia europea
    erano rientrate nelle loro sponde.  Sembrava si fossero calmate, ma le
    forze misteriose che muovono il genere  umano  (misteriose  perché  ci
    sono ignote le leggi che ne regolano il moto) continuavano ad agire.
    Quantunque  la  superficie  del  mare della storia apparisse immobile,
    l'umanità proseguiva il suo cammino, ininterrotto come lo scorrere del
    tempo.  Vari gruppi  di  concatenamenti  umani  si  componevano  e  si
    scomponevano;  si  preparavano  le  cause  della  formazione  e  della
    disgregazione degli stati e della migrazione dei popoli.
    Il mare della storia  non  era,  come  prima,  sconvolto  da  raffiche
    impetuose  da  una sponda all'altra;  pareva che esse turbinassero nel
    profondo. I personaggi storici non erano più trasportati come un tempo
    sulla cresta delle onde da una sponda all'altra,  ma  parevano  girare
    turbinosamente  su  se  stessi,   sempre  al  medesimo  posto.  Questi
    personaggi che prima,  alla testa degli eserciti,  avevano riflesso  i
    movimenti  delle  masse con i loro ordini di guerra,  di attacchi,  di
    battaglie,  riflettevano ora quei movimenti  burrascosi  con  le  loro
    considerazioni diplomatiche e politiche, con le leggi, con i trattati.
    A tale attività gli storici diedero il nome di "reazione".
    Descrivendo l'attività di questi personaggi che,  secondo loro,  fu la
    causa di ciò che definiscono reazione,  gli  scrittori  di  storia  li
    condannano severamente.  Tutti i personaggi del tempo,  da Aleksàndr e
    Napoleone, sino a madame de Staël,  Fozio (1),  Schelling (2),  Fichte
    (3),  Chateaubriand  (4),  eccetera,  sfilano  dinanzi  al loro severo
    tribunale  e  sono  assolti  o  condannati  a   seconda   della   loro
    partecipazione al progresso o alla reazione.
    Stando  a  quanto  scrivono  gli  storici,  anche in Russia si ebbe un
    periodo di reazione,  di cui  il  principale  colpevole  fu  Aleksàndr
    Primo,  quello  stesso  che,  secondo  i  loro  scritti,  era stato il
    principale artefice del movimento  liberale  del  suo  regno  e  della
    salvezza della Russia.
    Nella  letteratura russa contemporanea,  dallo studente liceale al più
    dotto storico,  non c'è chi non abbia lanciato il suo sassolino contro
    Aleksàndr per gli errori commessi durante quel periodo del suo regno.
    "Egli avrebbe dovuto agire così e così. In tal caso ha agito bene, nel
    tal  altro,  male.  Si è comportato ottimamente all'inizio del regno e
    durante il 1812,  ma ha fatto malissimo a concedere  una  costituzione
    alla  Polonia,  a  formare  la  Santa  Alleanza,  a  dare il potere ad
    Arakceev,  ad  incoraggiare  Golicyn  (5)  e  il  misticismo,  poi  ad
    incoraggiare  Sciskòv e Fozio.  Ha fatto male ad occuparsi della parte
    dell'esercito di linea; si è comportato male licenziando il reggimento
    Semënovskij", e così di seguito.
    Occorrerebbe coprire di fitta scrittura dieci fogli per elencare tutti
    i rimproveri che gli storici gli muovono,  basandosi su quelle nozioni
    riguardanti il bene dell'umanità, considerato dal loro punto di vista.
    Ma che significano questi rimproveri?
    Gli  stessi  atti  che  procurano  ad  Aleksàndr  l'approvazione degli
    storici,  quali le iniziative liberali del suo regno,  la lotta contro
    Napoleone, la fermezza di cui diede prova nel 1812, nelle Campagne del
    1813,  non  hanno  forse le stesse origini condizionali di sangue,  di
    educazione,  di vita che formarono la personalità  del  sovrano  quale
    essa  fu  e  dalla  quale  derivano  anche gli atti per cui gli stessi
    storici lo biasimano, quali la Santa Alleanza, la ricostituzione della
    Polonia, la reazione dell'anno 1820?  In che cosa consiste la sostanza
    di questi rimproveri?
    In  questo:  che  un  personaggio  storico  quale fu l'imperatore,  un
    personaggio posto sul più alto gradino  del  potere  umano,  come  nel
    punto  focale  della  luce  accecante  di  tutti  i raggi della storia
    concentrati  su  di  lui;  un  personaggio  soggetto  alle  più  forti
    influenze   del   mondo,   quelle   degli  intrighi,   degli  inganni,
    dell'adulazione,  dell'orgoglio,  tutte inseparabili  dal  potere;  un
    personaggio  che sentiva a ogni istante della vita gravare su di sé la
    responsabilità di  quanto  avveniva  in  Europa,  un  personaggio  non
    immaginario, ma in carne e ossa, che aveva, come qualsiasi altro uomo,
    le proprie abitudini, le proprie passioni tendenti al bello, al buono,
    al vero: che questo personaggio,  cinquant'anni addietro, senza essere
    alieno dalla virtù (di questo gli storici non lo accusano),  non  ebbe
    sul  bene  dell'umanità  gli  stessi  punti  di  vista  che avrebbe un
    professore di oggi il quale sin dalla giovinezza si  sia  occupato  di
    scienza,   ossia  di  leggere  libri,   di  seguire  conferenze  e  di
    trascrivere in un quaderno il riassunto di  quei  libri  e  di  quelle
    conferenze.
    Ma  se  si  ammette  che  cinquant'anni fa Aleksàndr aveva un concetto
    errato di ciò che è  il  bene  dei  popoli,  dobbiamo  necessariamente
    ammettere   che   anche   il   concetto  dello  storico  che  condanna
    l'imperatore apparirà,  trascorso un certo tempo,  ugualmente  lontano
    dal   giusto   a  proposito  di  ciò  che  costituisce  il  vero  bene
    dell'umanità. Questa supposizione è tanto più naturale e necessaria in
    quanto,  considerando lo svolgersi della storia,  noi vediamo che,  di
    anno  in  anno,  ogni  nuovo  scrittore di storia muta il suo punto di
    vista su ciò che costituisce il bene del genere  umano,  cosicché  ciò
    che appariva un bene dopo dieci anni ci viene presentato come un male,
    e  viceversa.  Ma  non  basta: noi troviamo contemporaneamente,  nella
    valutazione degli eventi storici, punti di vista assolutamente opposti
    su ciò che fu un bene e su ciò che fu  un  male;  alcuni  ascrivono  a
    merito  di  Aleksàndr la costituzione concessa alla Polonia e la Santa
    Alleanza, altri gliene fanno una colpa.
    Quanto all'opera di Aleksàndr e di Napoleone non si può  dire  se  sia
    stata  utile  o  dannosa,  giacché non siamo in grado di affermare per
    quali ragioni sia stata utile, per quali ragioni sia stata dannosa. Se
    quest'opera non soddisfa qualcuno è perché essa non  concorda  con  la
    sua  concezione  limitata di ciò che è il bene.  Se ritengo un bene la
    conservazione della casa di mio padre, a Mosca, nel 1812,  o la gloria
    dell'esercito russo,  o il fiorire dell'università di Pietroburgo o di
    altre città, o la libertà della Polonia, o la potenza della Russia,  o
    l'equilibrio  europeo,  o quel dato genere di cultura europea che è il
    progresso, devo riconoscere che l'opera di ciascun personaggio storico
    ha avuto, oltre al suo scopo particolare, altri scopi più generali e a
    me inaccessibili.
    Ma ammettiamo che  la  cosiddetta  scienza  abbia  la  possibilità  di
    conciliare  tutte  le contraddizioni e possegga per i personaggi e per
    gli avvenimenti storici una definizione fissa del  bene  e  del  male,
    ammettiamo  anche  che  Aleksàndr  potesse  agire sempre diversamente,
    ammettiamo che egli potesse,  per ordine di coloro che lo  accusano  e
    che  pretendono di conoscere la meta finale del moto del genere umano,
    agire  secondo  quel  programma  di  nazionalità,   di   libertà,   di
    uguaglianza  e  di  progresso (un programma più nuovo pare non esista)
    che gli accusatori attuali gli avrebbero  potuto  offrire;  ammettiamo
    possibile  questo  programma e ammettiamo che l'imperatore operasse in
    conformità;  che cosa sarebbe  stato  allora  dell'attività  di  tutti
    quegli  uomini  che si opponevano all'indirizzo del governo del tempo,
    quell'attività  che,   secondo  gli  storici,   fu  utile  e   giusta?
    Quest'attività non sarebbe esistita non ci sarebbe stata vita,  non ci
    sarebbe stato niente.
    Se si ammette che la vita umana si  possa  dirigere  per  mezzo  della
    ragione, si distrugge la possibilità della vita stessa.


    CAPITOLO 2.

    Se  si  ammette,  come fanno gli storici,  che i grandi uomini guidino
    l'umanità verso il raggiungimento di determinate mete  si tratti della
    grandezza della Russia o  della  Francia,  si  tratti  dell'equilibrio
    europeo  o  dell'espansione  delle idee rivoluzionarie,  si tratti del
    progresso in genere o di qualsiasi altra cosa   -    non  è  possibile
    spiegare  i  fenomeni della storia senza l'intervento del "caso" o del
    "genio".
    Se le guerre  europee  ebbero  come  meta,  al  principio  del  secolo
    attuale,  la grandezza della Russia, tale meta poteva essere raggiunta
    anche senza le guerre e senza l'invasione.  Se la meta fu la grandezza
    della Francia,  poteva anch'essa essere raggiunta senza la rivoluzione
    e senza l'impero. Se la meta fu la divulgazione delle idee,  la stampa
    poteva  raggiungerla  assai  meglio  dei  soldati.  Se  la  meta fu il
    progresso della civiltà,  è  molto  facile  pensare  che,  oltre  alla
    distruzione degli uomini e delle loro ricchezze,  esistono altri mezzi
    più idonei per diffonderla.
    Perché, dunque, le cose andarono in quel modo e non diversamente?
    Perché così accaddero. Il "caso" ha creato le circostanze,  il "genio"
    se ne è servito, dice lo storico.
    Ma che cos'è il "caso"? Che cos'è il "genio"?
    Le  parole  "caso" e "genio" non significano nulla di reale,  e perciò
    non è possibile definirle.  Queste parole si riferiscono soltanto a un
    certo  grado  della  comprensione  dei  fenomeni.  Io non so perché si
    produca il tale o tal altro fenomeno,  penso di  non  poterlo  sapere,
    perciò non lo voglio sapere e dico: è il "caso". Osservo una forza che
    produce  un'azione  incompatibile con le possibilità comuni dell'uomo;
    non capisco per quale ragione ciò avvenga, e dico: è il "genio".
    A un gregge di montoni,  il montone che ogni  sera  viene  spinto  dal
    pastore  in  un recinto particolare per essere nutrito,  e in tal modo
    diventa due volte più grosso degli altri, deve apparire un eroe.  E il
    fatto  che  ogni  sera  proprio  quello stesso montone non venga messo
    nell'ovile comune,  ma in  un  recinto  particolare  dove  gli  si  dà
    l'avena, e che proprio quello stesso montone coperto di grasso sia poi
    sgozzato  per  ricavarne  la  carne,  deve  apparire  una sorprendente
    concomitanza di genialità e un susseguirsi di casi straordinari,
    Ma basterà che i montoni cessino di pensare che  tutto  ciò  che  loro
    avviene  avviene  soltanto  perché  siano  raggiunti  i  loro  fini di
    montoni,  basterà che ammettano che gli avvenimenti che si  verificano
    nel  loro  gregge  possono  avere  scopi a loro incomprensibili perché
    subito vedano unicamente una coerenza logica  in  ciò  che  accade  al
    montone  nutrito  in modo particolare e ingrassato.  Se anche essi non
    sapranno per quale motivo quel montone viene nutrito a parte, sapranno
    almeno che tutto ciò che è accaduto a  quel  montone  non  è  accaduto
    accidentalmente,  e  allora non avranno più bisogno né del concetto di
    "caso" né del concetto di "genio".
    Soltanto  rinunziando   alla   conoscenza   dello   scopo   vicino   e
    comprensibile  e  soltanto  riconoscendo  che  lo  scopo  ultimo  ci è
    inaccessibile,  noi vedremo nella vita dei personaggi storici coerenza
    logica   e  conformità  allo  scopo;   ci  sarà  chiara  la  causa  di
    quell'azione  sproporzionata  alle  comuni  capacità  umane  che  essi
    svolgono e non avremo bisogno delle parole "caso" e "genio".
    Basterà  ammettere  che  lo scopo delle guerre dei popoli europei ci è
    ignoto e ci sono unicamente noti i fatti che consistono  in  uccisioni
    prima in Francia, poi in Italia, in Africa, in Prussia, in Austria, in
    Spagna,  in  Russia,  e  che  il movimento da occidente a oriente e da
    oriente a occidente costituisce la reale sostanza di tali avvenimenti,
    e non solo non avremo più  bisogno  di  vedere  l'eccezionalità  e  la
    genialità  nei  caratteri di Napoleone e di Aleksàndr,  ma non ci sarà
    possibile immaginare questi personaggi se non  come  uomini  simili  a
    tutti  gli  altri;  non  solo non si dovranno spiegare con il "caso" i
    piccoli avvenimenti che resero questi uomini  quali  essi  furono,  ma
    sarà chiaro che tutti quei piccoli avvenimenti furono necessari.
    Rinunziando  a  sapere  quale  sia  il fine ultimo,  noi comprenderemo
    chiaramente che,  come non sarebbe possibile inventare per una  pianta
    colori  e  semi  più  adatti di quelli che essa produce,  così sarebbe
    impossibile immaginare altri due uomini i quali,  con  tutto  il  loro
    passato,  corrispondano  con  uguale  esattezza,  persino  nei  minimi
    particolari, alle missioni che erano destinati a compiere.


    CAPITOLO 3.

    Il  fatto  fondamentale  ed  essenziale  degli   avvenimenti   europei
    dell'inizio  del nostro secolo è lo spostamento delle masse dei popoli
    europei dall'occidente all'oriente e poi  dall'oriente  all'occidente.
    La prima spinta venne dall'occidente. Affinché i popoli dell'occidente
    potessero   effettuare   quel   movimento  bellico  sino  a  Mosca  fu
    necessario: 1) che essi formassero un blocco militare tanto  forte  da
    essere in grado di sopportare l'urto del blocco militare dell'oriente;
    2) che rinunziassero a tutte le tradizioni e alle abitudini stabilite;
    3) che, attuando il loro movimento avessero come capo un uomo il quale
    potesse  giustificarsi e giustificarli per gli inganni,  i saccheggi e
    gli eccidi che dovevano accompagnare quel movimento.
    Ed ecco che,  cominciando dalla rivoluzione francese,  si distrugge il
    vecchio complesso non abbastanza forte,  cadono le vecchie abitudini e
    le tradizioni;  e a poco a poco si viene formando un gruppo  di  nuove
    dimensioni,  che  ha  nuove  abitudini,  nuove tradizioni;  si prepara
    l'uomo che dovrà essere a capo del movimento futuro e portare su di sé
    la responsabilità di quanto sarà compiuto.
    Un uomo senza convinzioni,  senza abitudini,  senza tradizioni,  senza
    nome, che non è neppure un francese, sembra, per la concomitanza delle
    più  strane circostanze,  farsi avanti tra tutti i partiti che turbano
    la Francia e,  senza legarsi ad alcuno di essi,  occupa  un  posto  di
    primo piano.
    L'ignoranza   dei  commilitoni,   la  debolezza  e  la  nullità  degli
    avversari, la sincerità nel mentire e la mediocrità brillante e sicura
    di sé  di  quell'uomo,  lo  conducono  alla  testa  dell'esercito.  Le
    brillanti truppe dell'armata d'Italia, il poco desiderio di combattere
    degli avversari,  l'audacia fanciullesca e la fiducia in se stesso gli
    conquistarono la gloria militare.  Un'innumerevole  quantità  di  casi
    fortuiti   lo  accompagnano  ovunque.   Cade  in  disgrazia  presso  i
    governanti francesi,  e questo gli  giova.  I  tentativi  che  fa  per
    modificare  il  cammino  che  gli  è  assegnato  dal destino,  non gli
    riescono;  la Russia non lo accoglie al suo servizio e non può  trovar
    posto in Turchia. Durante la guerra in Italia si trova parecchie volte
    sull'orlo della rovina,  e ogni volta si salva in modo imprevisto.  Le
    truppe russe,  quelle stesse che potrebbero annientare la sua  gloria,
    per  diverse  considerazioni diplomatiche non entrano in Europa finché
    egli vi si trova.
    Al suo ritorno dall'Italia,  trova a Parigi un governo in processo  di
    disgregazione  tale  che  gli  uomini  che  ne  fanno parte scompaiono
    inevitabilmente.  Ed ecco presentarglisi da sé  una  via  d'uscita  da
    quella  pericolosa situazione,  via d'uscita costituita dall'assurda e
    insensata spedizione in Egitto. Di nuovo i cosiddetti casi fortuiti lo
    accompagnano. L'inespugnabile Malta si arrende senza colpo ferire; gli
    ordini più sconsiderati sono coronati dal successo.  La flotta nemica,
    che in seguito non lascerà passare neppure una barca,  permette ora il
    passaggio a un'intera armata. Un susseguirsi di delitti viene compiuto
    in Africa contro popolazioni quasi inermi. E gli uomini che commettono
    tali delitti, e soprattutto il loro condottiero,  convincono se stessi
    che  tutto ciò che fanno è magnifico,  glorioso,  degno di Cesare e di
    Alessandro il Macedone.
    L'ideale di "gloria" e di "grandezza" che consiste non  solo  nel  non
    trovar nulla di male nei propri atti, ma addirittura nell'inorgoglirsi
    di  qualsiasi  delitto,  attribuendogli un incomprensibile significato
    soprannaturale,  questo ideale che dovrà poi guidare quest'uomo  e  le
    persone a lui legate,  si viene liberamente formando in Africa.  Tutto
    ciò che egli fa, gli riesce. La peste lo risparmia.  La crudele strage
    dei  prigionieri  non  gli  viene  imputata  come  una  colpa.  La sua
    partenza,  imprudente sino all'ingenuità,  ingiustificata e  ignobile,
    dall'Africa  dove abbandona i suoi compagni nella sventura,  gli viene
    ascritta a merito,  e la flotta nemica,  ancora per due volte,  se  lo
    lascia  sfuggire.  E  quando,  completamente  inebriato  dai fortunati
    delitti commessi,  giunge  a  Parigi  senza  scopo  alcuno,  pronto  a
    recitare la sua parte,  il dissolvimento del governo repubblicano, che
    un anno addietro lo avrebbe rovinato,  è giunto ora al culmine,  e  la
    presenza di lui, uomo estraneo ai partiti, non può che essergli utile.
    Egli  non  ha  alcun  progetto,  ha  timore di tutto,  ma i partiti si
    aggrappano a lui ed esigono la sua partecipazione.
    Egli solo,  con il suo ideale di gloria e di  grandezza  formatosi  in
    Italia  e  in  Egitto,  con l'adorazione di se stesso spinta sino alla
    pazzia,  con la sua audacia nel compiere delitti,  il suo cinismo  nel
    mentire,  egli  solo  può realizzare ciò che deve avvenire.  E' l'uomo
    necessario  per   quel   posto   che   lo   aspetta.   Perciò,   quasi
    indipendentemente  dalla  sua  volontà,  malgrado  la sua indecisione,
    malgrado la mancanza di un piano prestabilito  e  malgrado  tutti  gli
    errori che commette,  viene trascinato nella congiura che ha per scopo
    la conquista del potere, e la congiura è coronata dal successo.
    Lo spingono a forza nell'assemblea dei  governanti.  Spaventato,  vuol
    fuggire,  credendosi perduto;  finge di cadere in deliquio,  dice cose
    insensate che  avrebbero  dovuto  rovinarlo.  Ma  i  governanti  della
    Francia,  un tempo astuti e orgogliosi,  sentendo ormai di aver finito
    di recitare la loro parte,  ancora più confusi di lui,  non dicono  le
    parole  che  avrebbero dovuto dire per conservare il potere e rovinare
    l'avversario.
    Il "caso",  milioni di casi,  gli danno il potere e tutti  gli  uomini
    sembrano  essersi  intesi  per  consolidare  la sua fortuna.  I "casi"
    formano il carattere dei governanti della Francia  di  allora  che  si
    sottomettono  a  lui;  il "caso" forma il carattere di Paolo Primo che
    riconosce il suo potere;  il "caso" ordisce contro di lui una congiura
    che non soltanto non gli nuoce,  ma serve a consolidare il suo potere;
    il "caso" gli manda  il  duca  d'Enghien  e  lo  induce  a  ucciderlo,
    convincendo  la  folla con quel delitto meglio che con qualsiasi altro
    mezzo che il diritto è dalla sua parte perché dalla sua parte vi è  la
    forza.  Il "caso",  inoltre, fa sì che egli tenda tutte le sue energie
    per compiere una spedizione in Inghilterra,   -   spedizione  che  gli
    sarebbe  certamente  stata  nefasta    -    ma  che  non cerchi mai di
    realizzare tale progetto e piombi invece,  per caso,  su Mack e  sugli
    Austriaci   che  si  arrendono  senza  combattere.   Il  "caso"  e  la
    "genialità" gli danno la vittoria ad Austerlitz e per caso gli uomini,
    non solo i Francesi ma l'Europa intera,   -  esclusa l'Inghilterra che
    non  parteciperà  neppure agli avvenimenti che stanno per compiersi  -
    tutti gli uomini,  malgrado l'orrore e il disgusto per i suoi delitti,
    riconoscono  ora il suo potere,  il titolo che egli si è dato e il suo
    ideale di grandezza e  di  gloria  che  appare  a  tutti  splendido  e
    ragionevole.
    Come per prepararsi al movimento futuro, le forze dell'occidente negli
    anni 1805,  1806,  1807,  1809,  si spingono parecchie volte a oriente
    rafforzandosi e aumentando di numero. Nel 1811 il nucleo di uomini che
    si è formato in Francia si fonde in un'enorme massa con i  popoli  del
    centro  Europa.  Insieme con il crescere della massa degli uomini,  si
    sviluppa sempre più la forza della ragione d'essere  dell'uomo  che  è
    alla  testa  del movimento.  Durante il decennale periodo preparatorio
    che precede il grande spostamento, quest'uomo si incontra con tutte le
    teste coronate di Europa. I potenti detronizzati del mondo non possono
    opporre all'insensato ideale napoleonico  di  gloria  e  di  grandezza
    alcun ideale ragionevole.  Uno dopo l'altro si affrettano a dimostrare
    a quell'uomo la loro nullità.  Il re di  Prussia  manda  la  moglie  a
    ricercare i favori del grand'uomo; l'imperatore d'Austria considera un
    onore  che  egli accolga nel suo letto la figlia dei Cesari;  il papa,
    custode dei sacri riti dei popoli,  usa la religione per innalzare  il
    grand'uomo.  Non  è Napoleone stesso che si prepara a sostenere la sua
    parte,  ma sono tutti quelli che lo circondano  che  lo  preparano  ad
    assumersi  la  responsabilità  di  ciò  che  sta accadendo e che dovrà
    accadere. Non c'è azione, non c'è delitto, non c'è meschinità che egli
    commetta che non si trasformi immediatamente,  sulla bocca  di  coloro
    che lo circondano, in una grande impresa. La miglior festa che possano
    inventare  per  lui  i  Tedeschi  è  la  commemorazione  di  Jena e di
    Auerstadt. E non solo è grande lui, ma sono grandi i suoi antenati,  i
    suoi  fratelli,  i suoi figliastri,  i suoi cognati.  Tutto concorre a
    privarlo dell'ultimo barlume  di  ragione  e  a  prepararlo  alla  sua
    terribile  parte.  E  quando  è  pronto,  sono  pronte  anche le forze
    necessarie.
    L'invasione marcia verso oriente, raggiunge la meta finale: Mosca.  La
    capitale  è  presa,  l'esercito russo è annientato più di quanto siano
    mai stati annientati gli eserciti  nemici  nelle  guerre  passate,  da
    Austerlitz  a  Wagram.   Ma  improvvisamente,  invece  di  quei  "casi
    fortunati" e di quella "genialità" che,  con una serie ininterrotta di
    successi,  l'hanno  condotto alla meta predestinata,  ecco sorgere una
    quantità incalcolabile di "casi" avversi, dall'infreddatura a Borodinò
    sino ai geli invernali,  sino alla scintilla che ha incendiato  Mosca;
    ed   ecco  la  "genialità"  sostituita  da  una  stupidità  e  da  una
    vigliaccheria che non hanno paragoni.
    L'invasione si ritrae,  torna indietro,  fugge e tutti i casi fortuiti
    non sono più favorevoli a Napoleone, ma si volgono contro di lui.
    Avviene  un  movimento  in  senso  contrario,  da oriente a occidente,
    notevolmente simile a quello precedente,  da occidente a oriente.  Gli
    stessi tentativi di spostamento da oriente a occidente del 1805, 1807,
    1809  precedono  il  grande movimento;  vi è lo stesso ammassamento di
    enormi proporzioni; lo stesso riunirsi dei popoli dell'Europa centrale
    a quel moto,  le stesse esitazioni a mezza via e  la  stessa  rapidità
    all'avvicinarsi alla meta.
    Parigi,  la  meta  ultima,  è  raggiunta.  Il  governo e l'esercito di
    Napoleone sono annientati. Napoleone stesso non ha più senso;  tutti i
    suoi atti sono evidentemente bassi e meschini,  ma ancora una volta un
    caso inesplicabile si verifica:  gli  alleati  odiano  Napoleone,  nel
    quale  vedono la causa dei loro mali.  Privato ormai della forza e del
    potere,  convinto dei delitti e delle perfidie commesse,  egli avrebbe
    dovuto apparire loro quale lo vedevano dieci anni prima e lo avrebbero
    visto  un  anno  dopo:  un brigante fuorilegge.  Ma,  per chi sa quale
    strano caso,  nessuno lo considera tale.  La sua parte di attore non è
    ancora  compiutamente recitata.  L'uomo che dieci anni prima e un anno
    dopo era considerato un brigante fuorilegge, viene mandato in un'isola
    a due soli giorni di viaggio dalla Francia, un'isola sulla quale gli è
    concesso pieno dominio,  un'isola dove ha una guardia personale e dove
    gli si pagano, chissà mai per quale ragione, alcuni milioni.


    CAPITOLO 4.

    Il  movimento  dei  popoli  comincia  a rientrare nei suoi limiti.  Le
    grandi ondate si ritirano e sul mare placato si formano cerchi su  cui
    corrono  avanti  e  indietro  i diplomatici che immaginano di essere i
    fautori della bonaccia.
    Ma il mare, che appariva placato, ad un tratto si risolleva. Sembra ai
    diplomatici di essere,  con il loro disaccordo,  la  causa  di  questo
    nuovo  incalzare  di  forze;  si  aspettano  una  guerra  tra  i  loro
    imperatori;  la situazione appare  insolubile.  Ma  l'ondata,  di  cui
    avvertono   il  sollevarsi,   non  giunge  dalla  parte  da  cui  essi
    l'aspettano.  L'ondata si solleva nello stesso punto di  partenza  del
    movimento:  da Parigi.  Avviene l'ultimo contraccolpo che risolverà le
    difficoltà diplomatiche apparentemente insolubili e che porrà fine  al
    movimento bellico di quel periodo.
    L'uomo,  che ha devastato la Francia,  ritorna in Francia solo,  senza
    congiura, senza soldati. Qualsiasi guardiano potrebbe fermarlo ma, per
    un caso strano,  non solo nessuno lo ferma,  ma  tutti  accolgono  con
    entusiasmo  colui che il giorno avanti maledicevano e che dopo un mese
    avrebbero di nuovo maledetto.
    Quell'uomo  è  ancora  necessario  per  giustificare  l'ultima  azione
    comune.
    L'ultimo atto è recitato. L'azione è compiuta. Si ordina all'attore di
    svestirsi,  di  togliersi  il  trucco  e il belletto.  Non si avrà più
    bisogno di lui.
    E alcuni anni trascorrono così:  quell'uomo,  solo  nella  sua  isola,
    recita  davanti a se stesso una meschina commedia,  intriga,  mentisce
    per  giustificare  i  suoi  atti  quando  la  giustificazione  non   è
    necessaria  e  dimostra  a tutto il mondo che cosa fosse veramente ciò
    che gli uomini avevano scambiato per forza, quando una mano invisibile
    li guidava.
    - Guardate in chi avete creduto!  Eccolo!  Vedete adesso che fui io  a
    muovervi e non lui?
    Ma gli uomini, accecati dall'impeto del movimento, per molto tempo non
    capirono.
    Una  coerenza logica e una necessità ancora maggiori rivela la vita di
    Aleksàndr Primo,  il personaggio che fu a capo del movimento contrario
    da oriente verso occidente.
    Che  cosa  occorreva  all'uomo che,  ponendosi davanti agli altri,  si
    mette a capo di questo movimento?
    Gli occorrevano il senso della giustizia,  l'interesse per le  vicende
    dell'Europa,  ma  un interesse particolare,  non offuscato da meschini
    punti  di  vista;  gli  occorreva  una  superiorità  morale  sui  suoi
    colleghi,  gli imperatori di quel tempo; gli occorreva una personalità
    mite e simpatica;  gli occorreva del rancore  verso  Napoleone.  Tutte
    qualità,  queste,  che Aleksàndr Primo possiede,  tutte cose preparate
    dai cosiddetti "casi fortuiti" della sua  vita  trascorsa:  dalla  sua
    educazione,  dalle  sue  tendenze  liberali,  dai  consiglieri  che lo
    circondano, da Austerlitz, da Tilsit, da Erfurt.
    Durante la guerra nazionale, questo personaggio è inattivo, perché non
    necessario;  ma non appena appare l'inevitabilità di una guerra comune
    europea, egli prende il proprio posto e, riunendo i popoli europei, li
    guida verso la meta.
    La meta è raggiunta. Dopo l'ultima guerra del 1815, Aleksàndr Primo si
    trova all'apice del potere. Come lo userà?
    Aleksàndr  Primo,  il  pacificatore dell'Europa,  l'uomo che sin dalla
    gioventù aspira unicamente al bene dei suoi popoli,  il primo campione
    delle  riforme  liberali  nella  sua  patria,  adesso,  quando  sembra
    investito del supremo potere e quindi nella più favorevole  condizione
    di  fare  il  bene  dei  suoi  sudditi,  mentre Napoleone in esilio va
    facendo progetti puerili e bugiardi sulla felicità  che  avrebbe  dato
    agli  uomini  se  avesse  ancora  avuto  il  potere,  Aleksàndr Primo,
    compiuta la sua missione e sentendo su di sé la mano di Dio, riconosce
    a un tratto la nullità di quel potere immaginario, se ne sbarazza,  lo
    mette  nelle  mani  di  uomini  spregevoli  che  egli disprezza e dice
    soltanto:
    - "Non a noi, Signore, non a noi,  ma al tuo nome da' gloria" (6).  Io
    sono  un uomo come voi;  lasciate che io viva da uomo e che pensi alla
    mia anima e a Dio!
    Come il sole e ogni atomo dell'etere è una sfera perfetta in se stessa
    e  nello  stesso  tempo  non  è  che  una  particella  di  un   tutto,
    incomprensibile  all'uomo  per  la sua immensità,  così ogni individuo
    porta  in  sé  fini  determinati  per  servire   ai   fini   generali,
    incomprensibili alla mente umana.
    Un'ape,  posata  sopra  un fiore,  ha punto un bambino.  Il bambino ha
    paura dell'ape e crede che lo scopo delle api sia quello di pungere la
    gente. Il poeta ammira l'ape che penetra nel calice di un fiore e dice
    che il fine delle api consiste nel suggere il nettare  dei  fiori.  Un
    apicultore,  osservando  l'ape che raccoglie il polline dei fiori e lo
    porta nell'arnia,  afferma che l'ape ha  il  compito  di  produrre  il
    miele.  Un  altro  apicultore,  che  ha studiato più da vicino la vita
    delle api,  dichiara che l'insetto raccoglie il polline e  il  nettare
    per  nutrire  le  giovani  api e allevare l'ape regina,  il cui fine è
    quello della continuazione della  specie.  Il  botanico  osserva  che,
    volando con il polline di un fiore dioico sopra un pistillo,  l'ape lo
    feconda,  e in quest'atto il botanico vede  il  compito  dell'ape.  Un
    altro,  studiando  la  trasmigrazione delle piante,  vede che l'ape vi
    contribuisce e  può  affermare  che  in  questo  consiste  il  compito
    dell'ape. Ma il fine ultimo dell'ape non si esaurisce né con il primo,
    né  con  il  secondo,  né con il terzo compito che la mente umana è in
    grado di scoprire.  Quanto più la mente umana s'innalza nella  ricerca
    della  finalità delle cose,  tanto più le appare evidente il carattere
    inaccessibile di tale finalità.
    L'uomo può soltanto costatare la corrispondenza della vita  delle  api
    con  altri fenomeni dell'esistenza.  E la stessa cosa bisogna dire per
    le finalità dei personaggi storici e dei popoli.


    CAPITOLO 5.

    Il matrimonio di Natascia che sposò Bezuchov  nel  1813,  fu  l'ultimo
    avvenimento lieto nella vecchia famiglia Rostòv. In quello stesso anno
    morì il conte Iljà Andréevic' e, come sempre accade, alla sua morte la
    famiglia si smembrò.
    Gli  avvenimenti dell'anno antecedente,  l'incendio di Mosca e la fuga
    dalla città,  la morte di Andréj e la  disperazione  di  Natascia,  la
    morte  di  Pétja  e  il dolore della contessa,  erano piombati come un
    susseguirsi di botte sul capo dell'anziano conte.  Pareva che egli non
    comprendesse  o  non  avesse  in  sé  la forza di capire la gravità di
    quegli avvenimenti e pareva che,  chinando  moralmente  la  sua  testa
    canuta, aspettasse e chiedesse nuovi colpi sino a che giungesse quello
    di grazia. Ora si mostrava affranto e smarrito, ora vivace e attivo in
    modo del tutto innaturale.
    Il matrimonio di Natascia lo occupò per un certo tempo con i suoi lati
    esteriori.  Ordinava  i  pranzi  e  le  cene,  ed  era evidente il suo
    desiderio di apparire allegro; ma era un'allegria, la sua,  che non si
    comunicava più,  come per il passato,  agli altri; suscitava, anzi, in
    chi lo conosceva e gli voleva bene, un senso di compassione.
    Dopo la partenza di Pierre e di Natascia,  egli si  calmò  e  prese  a
    lamentarsi  della noia che si stava impadronendo di lui.  Dopo qualche
    giorno cadde malato e dovette rimanere  a  letto;  e  sin  dall'inizio
    della  malattia,  sebbene i medici cercassero di infondergli coraggio,
    egli sentì che non si sarebbe più alzato.  La contessa rimase per  due
    settimane  al  suo  capezzale,  seduta  su  di  una poltrona senza mai
    spogliarsi. Ogni volta che ella gli porgeva una medicina,  il conte si
    metteva  a  piangere  e,  in  silenzio,  le baciava la mano.  L'ultimo
    giorno, singhiozzando,  chiese perdono alla moglie e al figlio assente
    per  aver  dilapidato  i  beni  della famiglia,  unica grave colpa che
    sentiva gravargli sulla coscienza.  Dopo  essersi  comunicato  e  aver
    ricevuto  l'Estrema  Unzione,  spirò  serenamente.  Il giorno dopo una
    folla di amici e di conoscenti, venuti per rendere l'estremo saluto al
    defunto,  riempì l'appartamento dei Rostòv.  Tutte quelle persone  che
    tante  volte  avevano  pranzato e ballato in casa sua e tante volte si
    erano fatte beffe di lui,  ora,  con un intimo sentimento di rimorso e
    di commozione,  quasi per giustificarsi, dicevano: "Sì, comunque siano
    andate le cose,  era un  uomo  eccellente.  Non  se  ne  trovano  più,
    oggigiorno, uomini come lui... Chi non ha qualche debolezza?".
    Proprio  nel  periodo  in  cui  gli  affari  del  conte erano talmente
    ingarbugliati da non poter immaginare come le cose sarebbero andate  a
    finire   se   si   fossero   protratte   ancora   di  un  anno,   egli
    inaspettatamente era morto.
    Nikolàj si trovava a Parigi con le truppe russe  quando  ricevette  la
    notizia  della  morte del padre.  Diede subito le dimissioni e,  senza
    neppure attendere che fossero accettate,  chiese e ottenne una licenza
    e partì per Mosca.
    Un  mese  dopo  la  morte del conte,  la situazione finanziaria si era
    chiarita, e tutti si stupivano dell'enorme somma che rappresentavano i
    debiti  minuti,  di  cui  nessuno  sospettava  l'esistenza.  I  debiti
    superavano del doppio il patrimonio rimasto.
    I parenti e gli amici consigliavano Nikolàj di rinunziare all'eredità.
    Ma  Nikolàj,  che vedeva in quella rinunzia un rimprovero alla memoria
    del padre,  per lui sacra,  non ne  volle  sentir  parlare  e  accettò
    l'eredità con l'obbligo di pagare i debiti.
    I  creditori,  che  avevano  taciuto  mentre  il  conte  era  in vita,
    trattenuti da quell'indefinibile ma potente influenza  che  esercitava
    su  di essi la sua sregolata bontà,  ricorsero subito alle vie legali.
    Come sempre avviene,  sorse una sorta di  rivalità  nel  voler  essere
    pagati  per  primi  e  proprio  le persone che,  come Mìtenka e altri,
    possedevano cambiali  avute  in  dono,  diventarono  i  creditori  più
    esigenti.  Non  davano né tempo né respiro a Nikolàj,  e quelli stessi
    che pareva compatissero il conte che era stato  la  causa  delle  loro
    perdite  (se pur perdite vi erano state) si accanivano ora senza pietà
    contro il giovane erede,  evidentemente senza  colpa,  e  che  si  era
    assunto  volontariamente  l'obbligo  di  pagare.   Neppure  uno  degli
    accomodamenti proposti  da  Nikolàj  venne  accettato;  la  tenuta  fu
    venduta  all'asta  per metà del suo valore ma,  nonostante questo,  la
    metà dei debiti rimase ancora da pagare.  Nikolàj  accettò  trentamila
    rubli  offertigli  dal cognato Bezuchov per pagarne una parte,  quella
    che egli considerava reali debiti dl denaro.  E,  per non essere messo
    in  prigione  per  i  debiti  che  rimanevano  (secondo le minacce dei
    creditori), decise di riprendere servizio.
    Rientrare nell'esercito dove  sarebbe  stato  promosso  comandante  di
    reggimento  non  appena  si  fosse  reso  vacante un posto non poteva,
    perché ora sua madre si era aggrappata a lui come all'ultimo  sostegno
    rimastole nella vita;  e perciò, nonostante non avesse alcun desiderio
    di restare a Mosca,  tra la gente che lo aveva conosciuto in passato e
    nonostante la sua ripugnanza per gli impieghi civili, accettò un posto
    a Mosca nell'amministrazione dello stato. E, deposta l'amata uniforme,
    si  stabilì  con  la  madre  e  con Sònja in un piccolo appartamento a
    Sivstev-Vragëk.
    Natascia e Pierre,  che vivevano in quel periodo  a  Pietroburgo,  non
    avevano un'idea chiara delle condizioni di Nikolàj.  Questi, accettato
    il prestito dal cognato, cercava di nascondergli la sua situazione che
    era particolarmente penosa perché,  con i suoi milleduecento rubli  di
    stipendio  non soltanto doveva provvedere a sé,  alla madre e a Sònja,
    ma doveva anche mantenere la madre in modo tale da non permetterle  di
    rendersi conto della loro povertà. La contessa non poteva concepire la
    vita  senza  il  lusso al quale era stata avvezza sin dall'infanzia e,
    senza comprendere quanto ciò fosse penoso per il figlio,  esigeva  ora
    la carrozza che non avevano più per mandare a prendere una conoscente,
    ora  cibi costosi per sé e vini per il figlio,  ora denaro per fare un
    regalo sorpresa a Natascia, a Sònja, a Nikolàj stesso.
    Sònja si occupava della casa,  si prendeva cura della zia,  le  faceva
    lettura  ad  alta voce,  sopportava i suoi capricci e la sua malcelata
    ostilità e aiutava Nikolàj  a  nascondere  alla  vecchia  contessa  la
    miseria nella quale si trovavano. Nikolàj sentiva di avere verso Sònja
    un  debito di riconoscenza per tutto quanto essa faceva per sua madre,
    ammirava la pazienza e la devozione della  fanciulla,  ma  cercava  di
    tenersi lontano da lei.
    In cuor suo,  quasi le rimproverava di essere troppo perfetta e di non
    dargli alcun motivo per biasimarla.  Ella aveva tutte le  qualità  che
    fanno apprezzare una persona, ma ne aveva poche di quelle che la fanno
    amare.  Ed  egli  sentiva  che,  quanto  più l'apprezzava,  tanto meno
    l'amava.  Aveva preso alla lettera lo scritto con il  quale  ella  gli
    aveva  reso  la  sua  libertà e ora si comportava verso di lei come se
    tutto ciò che vi era stato fosse dimenticato da un pezzo e non potesse
    in alcun modo rinascere.
    La situazione di Nikolàj si aggravava sempre di più. L'idea di far dei
    risparmi sullo stipendio si era rivelata un sogno.  Non solo egli  non
    riusciva a risparmiare ma, per soddisfare le esigenze della madre, era
    costretto  a  contrarre  piccoli  debiti.   Non  scorgeva  alcuna  via
    d'uscita.  Il pensiero di  sposare  una  ricca  ereditiera,  come  gli
    suggerivano  i  parenti,  gli  ripugnava.  L'altra  via  d'uscita  per
    liberarsi da quella situazione  -  la morte della madre  -    non  gli
    sfiorava  mai  il  pensiero.  Non desiderava nulla e nulla sperava;  e
    nella profondità del suo io provava un  cupo,  austero  piacere  nella
    sopportazione passiva della sua sorte. Cercava di evitare i conoscenti
    di  un tempo,  la loro compassione e le loro offerte di aiuto,  che lo
    umiliavano;  evitava ogni svago e ogni divertimento e anche a casa non
    si occupava di nulla, limitandosi a disporre le carte per un solitario
    con la madre,  a camminare in silenzio avanti e indietro per la camera
    o a fumare una pipa dopo l'altra.  Pareva  compiacersi  di  quell'umor
    nero  che  era il solo con il quale si sentiva capace di sopportare la
    sua situazione.


    CAPITOLO 6.

    All'inizio dell'inverno la principessina Màrija giunse a Mosca.  Dalle
    voci  che  correvano fu informata delle condizioni dei Rostòv e seppe,
    come si diceva, che "il figlio si sacrificava per la madre".
    "Non mi aspettavo  nient'altro  da  lui",  pensava  la  principessina,
    sentendo  con  gioia  la  conferma  del  suo  amore  per  il  giovane.
    Ricordando i suoi rapporti amichevoli,  quasi  confidenziali,  con  la
    famiglia,  ritenne suo dovere far loro una visita, ma ricordando anche
    in quali rapporti era stata  con  Nikolàj  a  Voronèz,  temeva  quella
    visita.  Tuttavia,  facendo  un  grande  sforzo  su se stessa,  alcune
    settimane dopo il suo arrivo si recò dai Rostòv.
    Per primo le venne incontro Nikolàj,  giacché bisognava passare  dalla
    sua camera per entrare in quella della contessa.  Al primo sguardo che
    le rivolse, il viso di Nikolàj, invece di dimostrare la gioia che ella
    si attendeva  di  vedere,  assunse  un'espressione  di  freddezza,  di
    durezza  e  di orgoglio.  Nikolàj si informò della sua salute e,  dopo
    essersi trattenuto cinque minuti, uscì.
    Quando la principessina  lasciò  la  stanza  della  contessa,  Nikolàj
    l'incontrò  di  nuovo e l'accompagnò sino all'anticamera,  con un'aria
    particolarmente  solenne  e  fredda.   Non  rispose  una  parola  alle
    osservazioni di lei sulla salute della contessa. "Che interessa a voi?
    Lasciatemi in pace!", diceva il suo sguardo.
    - Perché viene qui costei? Che cosa vuole? Non posso sopportare queste
    smorfiose  e  tutte  le  loro  cortesie!    -  disse ad alta voce,  in
    presenza  di  Sònja,  incapace  evidentemente  di  trattenere  la  sua
    irritazione   non   appena  la  carrozza  della  principessina  si  fu
    allontanata.
    - Ma come si può parlar così, Nicolas!  -  esclamò Sònja,  nascondendo
    a  malapena  la  sua  gioia.   -  Essa è così buona e "maman" le vuole
    tanto bene!
    Nikolàj  non  rispose  e  non  avrebbe  più   voluto   parlare   della
    principessina.  Ma  dopo  quella  visita  la  vecchia contessa prese a
    parlarne parecchie volte al giorno.  Essa la lodava,  insisteva perché
    il figlio ricambiasse la visita, esprimeva il desiderio di vederla più
    spesso,  ma  nello  stesso  tempo il suo umore si faceva più cupo ogni
    volta che toccava quell'argomento.
    Nikolàj  cercava  di   tacere,   quando   la   madre   parlava   della
    principessina, ma il suo silenzio irritava la contessa.
    -  E'  una degnissima,  ottima ragazza  -  diceva;   -  bisogna che tu
    vada a farle visita.  Almeno vedrai qualcuno;  penso che con noi tu ti
    debba annoiare.
    - Ma io non ne ho affatto voglia, mamma!
    - Una volta la volevi vedere e ora non lo desideri più.  Davvero,  mio
    caro, non ti capisco. Ora dici che ti annoi,  ora,  tutto a un tratto,
    non vuoi più vedere nessuno.
    - Non ho mai detto di annoiarmi...
    -  Ma come,  se hai dichiarato tu stesso che non desideri vederla.  E'
    una ragazza che ti è sempre piaciuta, ed ecco che ad un tratto, chissà
    per quale motivo... Eh sì, a me si nasconde tutto...
    - Ma niente affatto, mamma!
    - Se io ti pregassi di fare qualcosa  di  sgradevole...  ma  ti  prego
    soltanto di andare a restituire una visita. Mi pare che la cortesia lo
    esiga...  Ti ho pregato di farlo ma, visto che hai dei segreti per tua
    madre, non voglio più immischiarmene...
    - Se proprio lo volete, mamma, ci andrò.
    - A me è indifferente: è per te che lo desidero.
    Nikolàj sospirava  mordicchiandosi  i  baffi  e  disponeva  le  carte,
    cercando  di  attirare  verso  un  altro  argomento l'attenzione della
    madre.
    Ma il giorno successivo,  il terzo e il quarto  si  ripeté  lo  stesso
    discorso.   Dopo  la  sua  visita  ai  Rostòv  e  l'inattesa,   gelida
    accoglienza fattale da Nikolàj,  la principessina Màrija riconobbe  di
    aver avuto ragione nel non desiderare di recarsi per prima dai Rostòv.
    "Non mi aspettavo altro", diceva a se stessa, chiamando in aiuto tutto
    il suo orgoglio.  "Non ho niente a che fare con lui... Volevo soltanto
    vedere la vecchia contessa che è sempre stata  buona  con  me  e  alla
    quale sono molto obbligata".
    Ma  questi  ragionamenti  non  bastavano  a calmarla;  una sensazione,
    simile a un rimorso,  la tormentava quando pensava  a  quella  visita.
    Sebbene  fosse  fermamente  decisa  di  non  andar  più  dai  Rostòv e
    dimenticare tutto quanto era accaduto,  si  sentiva  tuttavia  in  una
    situazione  poco chiara e quando si domandava che cosa la tormentasse,
    era costretta a confessare a  se  stessa  che  si  trattava  dei  suoi
    rapporti con Nikolàj. Il tono freddo e cortese di lui non derivava dal
    suo sentimento per lei (questo lo sapeva), ma nascondeva qualche cosa.
    E  questo  "qualche  cosa"  doveva essere chiarito.  Senza di che ella
    sentiva di non poter essere tranquilla.
    Un giorno,  verso la metà dell'inverno,  seduta  nello  studio,  stava
    occupandosi  delle  lezioni  del nipotino,  quando le fu annunziata la
    visita di Rostòv.  Fermamente decisa a non tradirsi e  a  non  lasciar
    scorgere il suo turbamento,  chiamò "mademoiselle" Bourienne e insieme
    con lei entrò in salotto.
    Alla prima occhiata capì che Nikolàj era venuto soltanto per assolvere
    un debito di cortesia e decise di mantenersi verso di lui sullo stesso
    tono.
    Presero a  parlare  della  salute  della  contessa,  delle  conoscenze
    comuni,  delle  ultime notizie della guerra e,  trascorsi dieci minuti
    richiesti dalle convenienze perché l'ospite prenda  commiato,  Nikolàj
    si alzò per salutare.
    La  principessina,  con  l'aiuto  di  "mademoiselle" Bourienne,  aveva
    sostenuto molto bene la conversazione;  ma proprio all'ultimo momento,
    mentre  egli si alzava,  si sentì così stanca per aver parlato di cose
    che non la interessavano,  e il pensiero doloroso del perché la vita a
    lei sola offrisse così poche gioie l'assorbì totalmente che,  in preda
    a un accesso di distrazione,  tenendo fissi dinanzi  a  sé  gli  occhi
    luminosi, rimase seduta e immobile, senza accorgersi che il visitatore
    era già in piedi.
    Nikolàj la guardò e, per non mostrare di aver notato la distrazione di
    lei, disse qualcosa a "mademoiselle" Bourienne. Poi guardò di nuovo la
    principessina.  Ella  sedeva  sempre  immobile,  e  il  suo dolce viso
    esprimeva una profonda sofferenza. Provò per lei un'improvvisa pietà e
    intuì vagamente di essere la causa di quel dolore  che  si  rifletteva
    sul viso della fanciulla. Fu preso dal desiderio di aiutarla, di dirle
    qualcosa  di gentile,  ma non riuscì trovar nulla e si limitò a queste
    parole:
    - Addio, principessina!
    Ella si scosse, arrossì e sospirò profondamente.
    - Ah, scusate!  -  esclamò lei, come svegliandosi...   -  Ve ne andate
    già, conte? Arrivederci, dunque. E il cuscino per la contessa?
    -  Aspettate,  vado  subito  a  prenderlo    -    disse "mademoiselle"
    Bourienne, e uscì dalla stanza.
    Tutt'e due tacevano, limitandosi a guardarsi di tanto in tanto.
    - Davvero,  principessina,   -  disse finalmente Nikolàj con un triste
    sorriso    -    pare  sia stato ieri,  eppure quant'acqua è passata da
    quando ci siamo veduti per la prima volta  a  Boguciàrovo!  Allora  ci
    credevamo  tutti  molto  infelici,  eppure  darei  chissà che cosa per
    ritornare a quel tempo... Ma purtroppo è impossibile!
    La principessina teneva fisso su  di  lui  il  suo  sguardo  luminoso,
    mentre  egli  parlava,  come  se  cercasse  di  capire  il significato
    misterioso di quelle parole,  quel significato che le avrebbe rivelato
    quali sentimenti egli nutrisse per lei.
    -  Sì,  sì...    -   disse;   -  ma non dovete rimpiangere il passato,
    conte.  Per quello che io comprendo  della  vostra  vita  attuale,  la
    ricorderete  sempre  con  piacere  perché l'abnegazione che dimostrate
    ora...
    - Non accetto i vostri elogi    -    disse  egli,  interrompendola  in
    fretta.      -     Anzi  mi  rivolgo  continuamente  una  quantità  di
    rimproveri...  Ma questo è un discorso poco interessante e  per  nulla
    allegro...
    E il suo sguardo assunse di nuovo un'espressione fredda, quasi ostile.
    Ma  la principessina aveva già ritrovato in lui l'uomo che conosceva e
    amava, e ora parlava soltanto con quell'uomo.
    - Credevo che mi  avreste  permesso  di  parlarvi  di  queste  cose...
    Eravamo così amici con voi...  e con la vostra famiglia che ho creduto
    che non  avreste  giudicato  inopportuno  il  mio  interessamento.  Ma
    evidentemente mi sono sbagliata  -  disse. La sua voce ebbe un tremito
    improvviso.   -  Non so perché,  -  continuò, riprendendosi  -  ma una
    volta eravate diverso e...
    - Vi sono mille "perché"  -  (e accentuò in modo particolare la parola
    "perché").  -  Vi ringrazio, principessina,   -  aggiunse a bassa voce
    -  ma qualche volta è penoso...
    "Ecco  dunque  perché!   Ecco  perché!",  diceva  una  voce  interiore
    nell'animo della principessina Màrija.  "No,  io non ho amato  in  lui
    soltanto  questo sguardo buono,  aperto,  non soltanto il bell'aspetto
    esteriore; io ho indovinato la sua anima nobile, coraggiosa, capace di
    ogni sacrificio. Sì, egli adesso è povero e io sono ricca...  Ecco,  è
    soltanto  questo...  Ma  se  non  fosse  questo?".  E,  ricordando  la
    tenerezza che egli le aveva dimostrato in passato e guardando ora quel
    viso buono e triste,  comprese  improvvisamente  la  causa  di  quella
    tristezza.
    - Perché, conte, perché?  -  esclamò, quasi gridando e avvicinandosi a
    lui.  -  Perché, ditemi... dovete dirmelo!  -  Egli taceva.  -  Io non
    so,  conte,  quali  siano  i  vostri  "perché",  -  proseguì  -  ma mi
    addolora, mi... ve lo confesso.  Voi volete,  per non so quale motivo,
    privarmi  della  vostra  amicizia  di  un  tempo,  e questo mi è assai
    penoso.   -  Ella aveva le lacrime negli occhi e nella voce.   -    Ho
    avuto  così poca felicità nella vita che ogni perdita mi è dolorosa...
    Scusatemi...  Addio!   -  Tutt'a un tratto scoppiò a piangere  e  uscì
    dalla stanza.
    -  Principessina!  Aspettate,  per  amor  di  Dio    -  gridò Nikolàj,
    cercando di trattenerla.  -  Principessina!
    Essa si voltò. Per alcuni secondi si guardarono negli occhi,  muti,  e
    ciò  che pareva lontano,  impossibile,  divenne all'improvviso vicino,
    possibile inevitabile...


    CAPITOLO 7.

    Nell'autunno del 1814 Nikolàj sposò la principessina Màrija e  con  la
    moglie, la madre e Sònja andò a vivere a Lissia-Gori.
    In tre anni, senza alienare le proprietà della moglie, egli pagò tutti
    i suoi debiti e, avendo ricevuto una piccola eredità alla morte di una
    cugina, pagò anche ciò che doveva a Pierre.
    Dopo  altri tre anni,  verso il 1820,  Nikolàj aveva sistemato in modo
    tale i suoi affari da poter acquistare una piccola proprietà accanto a
    Lissia-Gori e iniziare  trattative  per  ricomperare  il  possedimento
    paterno di Otràdnoe, cosa che costituiva il suo sogno più caro.
    Avendo incominciato,  per necessità,  a occuparsi dell'amministrazione
    delle terre,  ci si era ben presto appassionato tanto da farne la  sua
    prediletta e quasi unica occupazione.
    Nikolàj  era  un  proprietario  semplice,  non  amante di innovazioni,
    soprattutto di quelle di importazione inglese che erano allora  venute
    di  moda;  rideva  dei  trattati tecnici di agricoltura,  non amava le
    fabbriche, le produzioni costose, le sementi rare e, in genere, non si
    interessava in modo particolare di  nessun  ramo  dell'azienda.  Aveva
    sempre  davanti  agli  occhi  soltanto  l'intera  proprietà  e non mai
    qualche parte separata di essa. Nella proprietà,  poi,  ciò che più lo
    interessava  non  erano  l'azoto  e  l'ossigeno  che  si trovavano nel
    terreno e nell'aria,  non erano un aratro o un  concime  speciale,  ma
    quello  strumento più importante per mezzo del quale agiscono l'azoto,
    l'ossigeno, il concime, l'aratro: il lavoratore, il contadino.  Quando
    Nikolàj  aveva cominciato ad occuparsi di agricoltura e a studiarne le
    diverse parti, il contadino attirò in modo speciale la sua attenzione;
    esso gli si presentava non solo come uno strumento di lavoro,  ma come
    uno  scopo,  come  un giudice.  Cominciò con l'osservare il contadino,
    cercando di comprendere le sue necessità,  che  cosa  egli  giudicasse
    buono  e  che  cosa  cattivo,  fingendo  soltanto  di  dare  ordini  e
    disposizioni mentre,  in realtà,  imparava i metodi dei contadini,  il
    loro  modo di esprimersi e il loro giudizio su ciò che va e su ciò che
    non va.  Solamente quando ebbe compreso i gusti e le  aspirazioni  dei
    contadini,  quando  ebbe  imparato  a  parlare  il loro linguaggio e a
    capire il senso misterioso dei loro discorsi, quando si sentì vicino a
    loro,  soltanto allora cominciò a  dirigerli  con  sicurezza,  cioè  a
    compiere verso i contadini precisamente la funzione che essi esigevano
    da lui. E l'amministrazione di Nikolàj diede eccellenti risultati.
    Assumendo  la  direzione  dell'azienda,  Nikolàj,  di  colpo,  per  un
    naturale dono  di  chiaroveggenza,  nominò  intendente,  "stàrosta"  e
    sindaco, proprio quegli uomini che i contadini stessi avrebbero scelti
    se  la  scelta  fosse  spettata  loro,  e  i  capi da lui nominati non
    venivano mai cambiati.  Prima di studiare le  proprietà  chimiche  dei
    concimi, prima di preoccuparsi dei "debiti" e dei "crediti" (come egli
    amava  dire  scherzosamente),  si informava della quantità di bestiame
    che i contadini avevano e ne aumentava il numero  con  tutti  i  mezzi
    possibili.  Sosteneva  le loro famiglie con larghezza e non permetteva
    loro di dividersi. Perseguitava allo stesso modo i pigri,  i viziosi e
    i deboli, e cercava di cacciarli dalla comunità.
    Durante le seminagioni,  il taglio del fieno e la mietitura del grano,
    egli vigilava ugualmente i campi suoi e quelli dei  contadini.  E  ben
    pochi  erano  i  proprietari  in grado di seminare e di mietere i loro
    campi così presto e così bene e  di  trarne  così  alti  redditi  come
    Nikolàj.
    Con  i  contadini  servi  di  casa non amava aver nulla a che fare: li
    definiva parassiti e,  a detta di tutti,  li  viziava  e  li  lasciava
    troppo  liberi.  Quando  occorreva  dare  una  disposizione  qualsiasi
    relativa a uno di costoro e in special modo quando  bisognava  punire,
    era  sempre  indeciso  e  si  consigliava  con tutta la gente di casa;
    soltanto quando era possibile mandare soldato  un  servo  di  casa  in
    sostituzione di un contadino, lo faceva senza la minima esitazione. In
    tutte le disposizioni che riguardavano i contadini. non provava mai il
    più  piccolo  dubbio:  ogni  suo ordine  -  egli lo sapeva  -  avrebbe
    avuto l'approvazione di tutti, salvo una o due eccezioni.
    Ugualmente non si permetteva mai di caricare di lavoro o di punire una
    donna soltanto per il piacere di farlo, come pure non si permetteva di
    alleggerire il lavoro di un altro o di  punirlo  soltanto  perché  ciò
    costituiva un suo personale desiderio.  Non avrebbe saputo dire in che
    cosa consistesse la norma di ciò che si deve e di ciò che non si  deve
    fare:  ma  tale  norma  era  radicata  nella sua anima in modo fermo e
    incrollabile.
    Spesso,  parlando con stizza di  un  insuccesso  o  di  una  qualsiasi
    contrarietà,  diceva con dispetto: "Con il nostro popolo russo!...", e
    immaginava di non poter sopportare i contadini.
    Ma intanto amava con tutta l'anima quel "nostro popolo russo" e il suo
    modo di vivere;  e soltanto per questo amore aveva appreso  a  seguire
    l'unica  via,  nella  conduzione  della sua azienda,  che potesse dare
    buoni risultati.
    La contessa Màrija era gelosa di  quell'amore  di  suo  marito,  e  le
    doleva  di  non poterlo condividere;  ma essa non riusciva a capire il
    piacere e le amarezze che gli procurava quel mondo a sé, al quale ella
    era totalmente estranea.  Non riusciva a capire perché  mai,  alzatosi
    all'alba  e dopo aver passato tutta la mattinata nei campi o sull'aia,
    egli tornando a  lei  all'ora  del  tè  da  una  seminagione,  da  una
    falciatura  o  dalla raccolta del grano,  fosse così animato e felice.
    Non capiva l'entusiasmo che egli manifestava quando parlava del  ricco
    fattore  Matvéj  Ermiscin  il quale con la sua famiglia aveva lavorato
    tutta una notte a trasportare i covoni e, mentre gli altri non avevano
    ancora fatto il raccolto,  aveva  già  ammucchiato  le  biche  per  la
    trebbiatura.  Non  capiva perché,  passando dalla finestra al balcone,
    egli fosse così contento, sorridesse sotto i baffi e ammiccasse quando
    sulla giovane  avena  disseccata  cadeva  una  pioggerella  tiepida  o
    perché,  al tempo della falciatura o della mietitura,  quando il vento
    spazzava via i nuvoloni minacciosi egli,  rosso,  abbronzato,  sudato,
    con i capelli impregnati dall'odore dell'assenzio, tornando dall'aia e
    fregandosi allegramente le mani,  dicesse: "Be', ancora una giornata e
    tutto il mio raccolto e quello dei contadini sarà riposto sano e salvo
    sull'aia!".
    Ancor meno poteva capire perché mai  Nikolàj,  di  cuore  così  buono,
    sempre  così  premuroso  nel  prevenire  i  suoi  desideri,  quasi  si
    disperasse quando ella gli riferiva le suppliche di qualche donna o di
    qualche contadino che si rivolgeva a  lei  per  essere  esonerato  dai
    lavori;  perché mai lui così buono,  rifiutasse sempre, ostinatamente,
    pregandola con una certa irritazione,  di non immischiarsi  in  affari
    che  non  la  riguardavano.  Sentiva che egli aveva un mondo suo,  che
    amava appassionatamente,  un mondo governato da leggi speciali,  a lei
    incomprensibili.
    Quando, a volte, cercando di capirlo, gli parlava dei meriti di lui, i
    quali  consistevano  nel  fare  del  bene ai suoi dipendenti,  egli si
    irritava e rispondeva: "Niente  affatto!  Non  mi  passa  nemmeno  per
    l'anticamera del cervello,  e per il loro bene non faccio nulla. Che è
    questo far del bene al prossimo?  Poesia  e  ciarle  di  donne.  A  me
    importa  che  i  nostri figli non vadano a chiedere l'elemosina,  a me
    importa consolidare la nostra ricchezza mentre  sono  al  mondo:  ecco
    tutto!  E,  per  far  questo,  si capisce,  ci vuole ordine,  ci vuole
    severità", aggiungeva, serrando il pugno possente.  "E,  naturalmente,
    ci  vuole anche giustizia",  aggiungeva,  "perché,  se il contadino ha
    fame,  non ha di che vestirsi ed ha un solo cavallo,  non può lavorare
    né per me, né per sé".
    E,  forse  proprio  perché  Nikolàj  non  si permetteva di pensare che
    faceva qualche cosa per gli altri in omaggio alla virtù, tutto ciò che
    faceva  era  proficuo:  la  sua  ricchezza  aumentava  rapidamente;  i
    contadini  delle  proprietà vicine venivano a pregarlo di comperarli e
    anche molto tempo dopo la sua morte,  il popolo conservò una religiosa
    memoria di lui e del suo modo di amministrare. "Era un vero padrone...
    Prima  la  roba  dei  contadini e poi la propria...  E niente favori a
    nessuno... Insomma, un vero padrone!".


    CAPITOLO 8.

    La sola cosa che talvolta tormentava Nikolàj nei suoi rapporti  con  i
    contadini   era   la   sua  irascibilità  unita  all'antica  abitudine
    dell'ussaro di menar facilmente le mani. Da principio non aveva veduto
    in questo nulla di riprovevole,  ma nel secondo anno di matrimonio  la
    sua opinione in proposito mutò totalmente.
    Un giorno, durante l'estate, fece venire da Boguciàrovo lo "stàrosta",
    che  aveva  sostituito  il  defunto  Dron e che era accusato di alcune
    truffe  e  di  gravi  negligenze.  Nikolàj  gli  uscì  incontro  sulla
    scalinata e,  dopo le prime risposte dello "stàrosta",  si udirono dal
    vestibolo grida e rumore di percosse. Tornato a casa per la colazione,
    Nikolàj si avvicinò a sua moglie che stava seduta con la  testa  china
    sul telaio; come al solito, cominciò a raccontarle tutto ciò che aveva
    fatto quella mattina e,  tra le altre cose,  le parlò dello "stàrosta"
    di Boguciàrovo. La contessa Màrija,  ora rossa in viso,  ora pallida e
    con  le  labbra  contratte,  rimaneva  immobile  e non rispondeva alle
    parole del marito.
    - Che razza di vile briccone!   -  diceva  Nikolàj,  infiammandosi  al
    solo  ricordo.    -   Mi avesse almeno detto che era ubriaco,  che non
    aveva visto... Ma che hai, Màrija?  -  domandò a un tratto.
    La contessa Màrija alzò il capo, volle dire qualcosa, ma si affrettò a
    riprendere l'atteggiamento di prima e riabbassò il capo.
    - Che hai? Che hai, mia cara?
    La brutta contessa Màrija diventava sempre bella quando piangeva. Essa
    non piangeva mai per sofferenze fisiche o per stizza,  ma  sempre  per
    tristezza  o  per  pietà.  E  quando  piangeva  i  suoi occhi luminosi
    acquistavano un fascino irresistibile.
    Non appena Nikolàj le prese la mano,  essa non riuscì più a contenersi
    e si mise a piangere dirottamente.
    - Nicolas, ho veduto... egli è colpevole, ma tu... tu perché? Nicolas!
    -  e nascose il viso tra le mani.
    Nikolàj  tacque,   arrossì  violentemente  e,  allontanatosi  da  lei,
    cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.  Aveva  compreso
    perché sua moglie piangesse;  ma,  così di colpo, non riusciva in cuor
    suo ad essere d'accordo con lei nel considerare biasimevole un modo di
    fare cui era abituato  sin  dall'infanzia  e  che  egli  aveva  sempre
    giudicato normale.
    "Sono  sciocchezze,  fantasie  da donnicciuole,  queste,  o ha ragione
    lei?",  si chiedeva.  Senza aver risolto entro  di  sé  la  questione,
    guardò  ancora la faccia dolente e amorosa della moglie e ad un tratto
    comprese che essa aveva ragione e che lui,  già da  molto  tempo,  era
    colpevole davanti a se stesso.
    - Marie...  -  disse con dolcezza, avvicinandosi a lei.  -  Questo non
    accadrà mai più,  te ne do la mia parola.  Mai più  -  ripeté con voce
    tremante, come un fanciullo che chieda perdono.
    Dagli occhi della contessa sgorgarono più copiose le lacrime. Prese la
    mano del marito e la baciò.
    - Nicolas,  quando ti si è rotto il cammeo?   -  domandò  per  cambiar
    discorso  guardando  la  mano  di  lui  che aveva un cammeo su cui era
    incisa la testa del Laocoonte (7).
    - Oggi,  sempre la stessa storia.  Oh,  Marie,  non ricordarmelo!    E
    arrossì di nuovo.   -  Ti do la parola d'onore che non si ripeterà mai
    più;  e questo servirà a ricordarmelo per sempre!    disse,  indicando
    l'anello rotto.
    Da  quel  giorno,  ogni  qualvolta,  durante  le  discussioni  con uno
    "stàrosta" o con un intendente, si sentiva salire il sangue alla testa
    e le mani gli si serravano a pugno,  Nikolàj si girava attorno al dito
    l'anello rotto e abbassava gli occhi davanti all'uomo che provocava la
    sua   collera.   Ma   due   o  tre  volte  all'anno  gli  accadeva  di
    dimenticarsene,  e allora andava da sua moglie,  le confessava tutto e
    le ripeteva che quella sarebbe stata l'ultima volta.
    - Marie, tu mi disprezzi, vero?  -  le chiedeva.  -  E me lo merito.
    - Ma tu vattene,  vattene via subito quando senti di non aver la forza
    di frenarti  -  gli consigliava  con  tristezza  la  contessa  Màrija,
    cercando di consolare il marito.
    Fra  i  nobili  della provincia Nikolàj era rispettato,  ma non amato.
    Degli interessi dei nobili egli non si curava.  E per questo alcuni lo
    giudicavano  orgoglioso,  altri  stupido.  Per  tutta l'estate,  dalle
    semine di primavera ai raccolti,  egli si dedicava completamente  alle
    occupazioni  agricole.  In  autunno,  con la stessa serietà con cui si
    occupava dei problemi  delle  sue  terre,  si  dedicava  alla  caccia,
    partendo  per  un mese o due con i suoi cacciatori.  Durante l'inverno
    andava a visitare gli altri proprietari  e  leggeva.  Le  sue  letture
    erano  costituite  specialmente  da  libri  di storia che ogni anno si
    faceva mandare per una certa somma. Si formava, come soleva dire,  una
    biblioteca seria e si era imposto come regola di leggere tutti i libri
    che  acquistava.  Con  aria  contegnosa,  restava nello studio immerso
    nella lettura che sulle prime si era imposto come un dovere ma che, in
    seguito,  era divenuta un'occupazione abituale che  gli  procurava  un
    particolare  genere  di godimento e la coscienza di interessarsi a una
    cosa seria. Durante l'inverno, tolti i brevi periodi in cui viaggiava,
    trascorreva in casa la maggior  parte  del  tempo,  molto  unito  alla
    famiglia  e  partecipando anche ai minimi particolari dei rapporti tra
    madre e figli. Con la moglie si affiatava sempre di più, a mano a mano
    che scopriva nuovi tesori nell'anima di lei.
    Sònja,  da quando Nikolàj si era sposato,  viveva in casa  sua.  Ancor
    prima  del  suo  matrimonio,  Nikolàj,  accusando  se stesso e facendo
    l'elogio di Sònja,  aveva raccontato a sua moglie tutto ciò che  c'era
    stato  tra  lui  e  la  cugina,  e  l'aveva  pregata di essere buona e
    affettuosa verso di lei.  La contessa Màrija sentiva perfettamente  la
    colpevolezza  del  marito e sentiva anche la colpevolezza sua propria;
    pensava che la sua ricchezza avesse influito sulla scelta di  Nikolàj,
    non aveva nulla da rimproverare a Sònja e desiderava volerle bene; non
    soltanto,  però,  non  ci  riusciva,  ma  spesso scopriva dentro di sé
    sentimenti ostili verso la fanciulla, che non poteva dominare.
    Una volta le capitò di parlare di Sònja con la sua  amica  Natascia  e
    della propria ingiustizia verso di lei.
    -  Sai?    -   disse Natascia.   -  Tu che hai letto tutto il Vangelo,
    dovresti ricordare che c'è un passo che si riferisce appunto a Sònja.
    - Quale? -   domandò stupita la contessa Màrija.
    - "A chi ha, sarà dato, e sovrabbonderà;  ma a chi non ha,  sarà tolto
    anche quel che ha" (8).  Ricordi? Lei è quella che non ha. Perché? Non
    lo so. Forse le manca l'egoismo... non lo so,  ma tutto le vien tolto,
    tutto le è stato sempre tolto.  A volte mi fa terribilmente pena... Un
    tempo avevo desiderato che Nikolàj la sposasse,  ma ho sempre  pensato
    che questo non sarebbe avvenuto.  E' un "fiore sterile",  sai, come ne
    hanno talora le fragole da giardino.  A volte mi fa pena,  ma a  volte
    penso che non senta tutto questo come lo sentiremmo noi.
    E  sebbene la contessa Màrija avesse spiegato a Natascia che le parole
    del Vangelo si dovevano interpretare diversamente, tuttavia, guardando
    Sònja,  si trovava d'accordo con la  spiegazione  che  le  aveva  dato
    Natascia.  In  verità,  pareva  che Sònja non soffrisse per la propria
    situazione e accettasse rassegnata la sua sorte  di  "fiore  sterile".
    Pareva  che fosse attaccata non tanto alle singole persone quanto alla
    famiglia nel suo complesso. Come un gatto,  si era abituata alla casa,
    più  che  alle  persone  della  casa.  Si  prendeva cura della vecchia
    contessa, vezzeggiava e viziava i bambini, era sempre pronta a rendere
    i  piccoli  servigi  di  cui  era  capace;   ma   tutto   ciò   veniva
    involontariamente    accettato   dagli   altri   con   troppo   scarsa
    riconoscenza.
    La casa di Lissia-Gori,  ricostruita,  non era più tenuta sullo stesso
    piede dei tempi del vecchio principe.
    Le  costruzioni,  iniziate nel periodo delle avversità,  erano più che
    semplici.  L'immensa casa dalle fondamenta di pietra era stata rifatta
    in legno e intonacata soltanto nell'interno. Il grande, ampio edificio
    con  i  pavimenti di legno grezzo,  era arredato con poltrone e divani
    durissimi,  con tavole e sedie costruite dai falegnami di casa con  il
    legno delle betulle della tenuta.  La casa era vasta; aveva stanze per
    la servitù e appartamenti per gli ospiti.  I parenti dei Rostòv e  dei
    Bolkonskij   venivano  spesso  a  Lissia-Gori  in  numerose  comitive,
    condotti  dai  loro  sedici  cavalli,  con  diecine  di  servi,  e  vi
    rimanevano  per  mesi.   Inoltre,   quattro  volte  all'anno,  per  la
    ricorrenza degli onomastici e dei compleanni dei padroni di  casa,  vi
    convenivano  sino  a cento invitati per un giorno o due.  Per tutto il
    resto dell'anno la vita scorreva regolare nelle abituali  occupazioni:
    il tè, la colazione, il pranzo, la cena, il tutto sempre preparato con
    le provviste di casa.


    CAPITOLO 9.

    Era  il  5  dicembre  del  1820,  vigilia  della festa di San Nikolàj.
    Quell'anno Natascia, con i bambini e il marito, era ospite in casa del
    fratello  sin  dall'inizio   dell'autunno.   Pierre   si   trovava   a
    Pietroburgo,  dove  si era recato per i suoi affari particolari,  come
    diceva, e dove doveva trattenersi per tre settimane. Ma ormai ne erano
    già trascorse sette, e lo si attendeva da un momento all'altro.
    Il 5 dicembre, oltre alla famiglia Bezuchov,  era ospite dei Rostòv un
    vecchio  amico  di  Nikolàj,  il generale a riposo Vassilij Fëdorovic'
    Denissov.
    Nikolàj sapeva che il giorno della sua festa,  quando  fossero  giunti
    gli  invitati,  avrebbe  dovuto  togliersi  il "besmet",  indossare la
    giacca,  mettersi un paio di scarpe  strette  a  punta,  recarsi  alla
    chiesa  che aveva fatto costruire,  ricevere gli auguri,  offrire agli
    invitati uno spuntino,  parlare delle elezioni  della  nobiltà  e  del
    raccolto; ma nel giorno della vigilia si riteneva ancora in diritto di
    vivere come di consueto.
    Prima  di  pranzo,  Nikolàj verificò i conti dell'amministratore della
    tenuta di Rjazàn,  di proprietà del nipote della moglie,  scrisse  una
    lettera  di  affari,  poi  si  recò  nell'aia,  nelle  stalle  e nella
    scuderia.  Dopo aver preso le misure necessarie  contro  l'ubriacatura
    generale prevedibile per la festa del giorno successivo,  tornò a casa
    per il pranzo e, senza essere riuscito a scambiare qualche parola a tu
    per tu con la moglie,  sedette alla lunga tavola preparata  per  venti
    persone,  attorno alla quale erano riuniti tutti i familiari. A tavola
    c'erano sua madre, la vecchia contessa Bélova che viveva con lei,  una
    governante,   l'istitutore,   il  nipote  con  il  precettore,  Sònja,
    Denissov,  Natascia con i suoi tre bambini,  la loro governante  e  il
    vecchio  Michaìl Ivanyc',  architetto del vecchio principe Bolkonskij,
    che viveva in riposo a Lissia-Gori.
    La contessa Màrija sedeva a capotavola.  Non  appena  il  marito  ebbe
    preso  posto,  dal  gesto  con  il  quale egli spiegò il tovagliuolo e
    respinse bruscamente il bicchiere e il calice che gli stavano davanti,
    la contessa Màrija capì che egli era di cattivo umore,  come  talvolta
    gli  accadeva  specialmente  prima  della  minestra  e  quando  veniva
    direttamente dalla campagna.  La contessa Màrija conosceva assai  bene
    quell'uomo   e,    quando   era   ben   disposta,   soleva   aspettare
    tranquillamente che egli avesse mangiato la minestra;  soltanto allora
    incominciava  a  parlargli  e  lo  obbligava  ad  ammettere che il suo
    cattivo umore non aveva alcuna causa.  Ma quel giorno  ella  dimenticò
    completamente ciò che già aveva osservato;  la rattristava il pensiero
    che il marito fosse irritato anche contro di lei senza  ragione  e  si
    sentiva infelice.  Gli domandò dove fosse stato. Egli rispose. Poi gli
    domandò ancora se nella proprietà tutto fosse in ordine. Egli aggrottò
    le sopracciglia per il tono poco naturale  di  lei  e  si  affrettò  a
    rispondere concisamente.
    "Non mi sono dunque ingannata", pensò la contessa Màrija. "Ma perché è
    in collera con me?".  Dal tono con il quale Nikolàj le aveva risposto,
    ella aveva sentito in lui del malanimo a suo riguardo e  il  desiderio
    di  troncare  la  conversazione.  E,  pur  sentendo  di  parlare senza
    naturalezza,  non poté  trattenersi  dal  rivolgergli  ancora  qualche
    domanda.
    Durante  il  pranzo,  grazie a Denissov,  la conversazione si fece ben
    presto animata e generale,  e la contessa Màrija non parlò più  a  suo
    marito.  Quando  tutti  si  alzarono  da tavola e si avvicinarono alla
    vecchia contessa per ringraziarla, la contessa Màrija,  tendendogli la
    mano  da  baciare,  baciò  a  sua volta il marito e gli domandò perché
    fosse in collera con lei.
    - Hai sempre delle idee strane tu;  non ci pensavo nemmeno a essere in
    collera  -  le rispose.
    Ma  la  parola  "sempre"  diceva  alla  contessa Màrija: "Sì,  sono in
    collera, ma non voglio dire il perché".
    Nikolàj viveva in così buona armonia con la moglie che anche  Sònja  e
    la  vecchia  contessa  che,   per  gelosia,  desideravano  un  po'  di
    disaccordo tra i due coniugi,  non potevano trovare  alcun  motivo  di
    rimprovero;  tuttavia  anche  tra  di  loro  vi  erano  dei momenti di
    animosità.  Talora,  e proprio dopo un periodo particolarmente felice,
    di  colpo  sorgeva  un  sentimento  di  ostilità,  sentimento  che  si
    manifestava specialmente nei  periodi  di  gravidanza  della  contessa
    Màrija. Ora si trovava appunto in uno di quei periodi.
    - Be',  "messieurs et mesdames",   -  disse Nikolàj a voce alta, quasi
    con allegria (alla contessa Màrija sembrava che lo facesse apposta per
    offenderla)  -  io sono in piedi dalle sei.  Domani sarà una  giornata
    di sofferenze,  ma oggi voglio riposare.  -  E, senza dire nulla a sua
    moglie, andò nel salotto dei divani e si distese sopra uno di essi.
    "Ecco,  è sempre così",  pensò la contessa Màrija.  "Parla  con  tutti
    eccetto  che  con  me.  Vedo,  sì,  vedo  che gli sono insopportabile,
    specialmente in queste condizioni...".  Guardò il suo  grosso  ventre,
    vide nello specchio il viso smagrito di un pallore giallognolo,  dagli
    occhi più grandi che mai.
    Tutto le riuscì fastidioso;  le grida e  le  risate  di  Denissov,  le
    chiacchiere  di  Natascia e,  in particolare,  lo sguardo che Sònja le
    aveva lanciato.  Sònja era sempre la prima  persona  che  la  contessa
    Màrija sceglieva per dar sfogo alla propria collera.
    Dopo  essere rimasta con gli ospiti,  senza capire nulla di quello che
    dicevano, uscì pian piano e si recò nella camera dei bambini.
    Essi partivano per Mosca, a cavalcioni di alcune sedie e la invitarono
    a partire con loro.  Sedette e giocò un po' con i figli ma il pensiero
    del  marito  e di quella sua irritazione ingiustificata la tormentava.
    Si alzò e, camminando a fatica in punta di piedi,  si diresse verso il
    salotto dei divani.
    "Forse non dorme,  potrò spiegarmi con lui", disse tra sé. Andrjuscia,
    il maggiore dei figliuoletti,  imitandola la seguì in punta di  piedi.
    La contessa Màrija non se ne accorse.
    - "Chère Marie,  il dort, je crois, il est si fatigué" [9. Cara Maria,
    credo che dorma: è così stanco!]  -  le disse, nella stanza grande dei
    divani,  Sònja che (a quanto pareva alla contessa Màrija)  era  sempre
    dappertutto.  -  Andrjuscia potrebbe svegliarlo.
    La  contessa Màrija si voltò e vide alle sue spalle Andrjuscia;  sentì
    che Sònja aveva  ragione  e,  proprio  per  questo,  si  irritò  e  si
    trattenne,  con  evidente fatica,  dal dirle una parola sgarbata.  Non
    rispose nulla ma,  per non  obbedirla,  fece  segno  con  la  mano  ad
    Andrjuscia  di seguirla senza far rumore e andò verso la porta.  Sònja
    uscì da un altro uscio.  Dalla stanza in cui Nikolàj dormiva  giungeva
    l'eco  del  respiro  di  lui,  calmo  e regolare,  del quale la moglie
    conosceva ogni sfumatura. Ascoltando quel respiro,  ella vedeva avanti
    a sé la bella fronte liscia del marito,  i baffi,  tutta la faccia che
    soleva contemplare lungamente nel silenzio della  notte,  mentre  egli
    dormiva.  A  un  tratto  Nikolàj si mosse un po' e tossì...  In quello
    stesso momento Andrjuscia da dietro l'uscio gridò:
    - Papà! La mamma è qui!
    La contessa Màrija impallidì spaventata e  si  mise  a  far  cenni  al
    figliuoletto.  Egli  tacque  e  per un minuto si protrasse un silenzio
    penoso per la contessa Màrija.  Sapeva come a suo marito non  piacesse
    essere svegliato.  A un tratto,  attraverso la porta,  si udì un nuovo
    colpo di tosse e la voce infastidita di Nikolàj che diceva:
    - Non mi si dà un minuto di pace!  Marie,  sei tu?  Perché l'hai fatto
    venire qui?
    - Venivo soltanto a vedere... e non mi ero accorta che... Scusami.
    Nikolàj  tossì  ancora  e  tacque.  La  contessa Màrija si allontanò e
    accompagnò il figliuolo nella camera dei bambini.  Dopo cinque  minuti
    la piccola Natascia,  la beniamina del padre, una bimbetta di tre anni
    dagli occhi neri,  saputo dal fratello che il papà dormiva  e  che  la
    mamma si trovava nella stanza grande dei divani, senza essere vista da
    lei,  corse dal padre. La bimbetta dagli occhi neri spinse arditamente
    la porta,  avanzò risoluta verso il divano e,  dopo aver osservato  la
    posizione del padre che dormiva con le spalle voltate verso di lei, si
    sollevò  sulla  punta  dei  piedi  e gli baciò la mano che egli teneva
    ripiegata sotto la testa.  Nikolàj si volse con il viso illuminato  da
    un tenero sorriso.
    - Natascia, Natascia!  -  si udì attraverso l'uscio la voce sommessa e
    spaventata della contessa Màrija.  -  Papà vuol dormire...
    -  No,  mamma,  non  vuole dormire  -  rispose la piccola Natascia con
    convinzione.  -  Papà ride...
    Nikolàj abbassò le gambe,  si sollevò sul divano e prese in braccio la
    figlia.
    - Entra, Mascia  -  disse alla moglie.
    La contessa Màrija entrò e andò a sedersi accanto al marito.
    - Non mi ero accorta che mi venisse dietro...
    Nikolàj, tenendo con una mano la piccina, guardava la moglie e, notata
    l'espressione sgomenta e colpevole del viso di lei,  l'attirò a sé con
    l'altra mano e la baciò sui capelli.
    - Posso dare un bacio alla mamma?  -  domandò a Natascia.
    Natascia sorrise imbarazzata.
    - Ancora!  -  disse con un gesto autoritario,  indicando il punto dove
    Nikolàj aveva baciato la moglie.
    -  Non  so  perché  tu  pensi  che  io  sia di cattivo umore  -  disse
    Nikolàj,  rispondendo alla domanda che egli lo sapeva,  era nell'animo
    della moglie.
    -  Non  puoi immaginare come io mi senta infelice e sola quando tu sei
    così. Mi pare sempre...
    - Marie,  smettila con  le  sciocchezze.  Non  ti  vergogni?  -esclamò
    allegramente Nikolàj.
    -  Mi pare che tu non possa amarmi perché sono così brutta...  sempre,
    ma ora poi...
    - Ah,  quanto sei buffa!  Non si ama chi è bello,  ma è bello  chi  si
    ama...  Soltanto  le  Malvine  (10) e le donne di quel genere si amano
    perché sono belle,  ma la moglie!  o che forse io amo mia moglie?  No,
    non l'amo,  ma così...  non so come dire... senza di te, oppure quando
    tra di noi c'è del malumore,  mi sento perduto e non so più far nulla.
    Come spiegarti?  Amo forse il mio dito? No, non l'amo, ma prova un po'
    a tagliarmelo...
    - No, per me è diverso,  ma ti capisco.  Allora non sei in collera con
    me?
    -  Sono terribilmente in collera!   -  esclamò Nikolàj sorridendo;  si
    alzò,  si ravviò i capelli e si mise a passeggiare per la stanza.    -
    Sai,  Mascia,  a che cosa pensavo?   -  cominciò,  ora che la pace era
    stata fatta, e mettendosi a riflettere ad alta voce.  Non si domandava
    se ella fosse disposta ad ascoltarlo: questo gli era indifferente. Gli
    era venuta in mente un'idea e quest'idea,  naturalmente, doveva averla
    anche lei.  Le disse che  aveva  intenzione  di  convincere  Pierre  a
    restare con loro sino alla primavera.
    La  contessa Màrija lo ascoltò,  fece qualche osservazione e si mise a
    sua volta a riflettere ad alta voce. Le sue riflessioni riguardavano i
    bambini.
    - Come si vede già la donna in lei...  -  disse in francese accennando
    alla piccola Natascia.  -  Voi rimproverate a noi donne la mancanza di
    logica. Eccola la nostra logica. Io dico: "Papà vuol dormire" e lei mi
    risponde: "No,  papà ride!" e ha ragione  -  disse la contessa Màrija,
    sorridendo felice.
    - Sì,  sì...   -  E Nikolàj, posata la piccola sulla sua mano robusta,
    la sollevò in alto,  se la fece sedere sopra una spalla,  le afferrò i
    piedini  e  si  mise a passeggiare così per la stanza.  Padre e figlia
    avevano le stesse facce assurdamente felici.
    - Sai,   -  disse la contessa Màrija in francese,  a bassa voce   temo
    che tu non sia imparziale... Vuoi troppo bene a lei...
    - Sì, ma che ci devo fare? Cerco di non dimostrarlo.
    In  quel  momento si udirono venire dal vestibolo rumori di passi e di
    porte aperte che facevano pensare all'arrivo di qualcuno.
    - E' arrivato qualcuno...
    - Sono certa che è Pierre. Vado a vedere  -  disse la contessa Màrija,
    lasciando la stanza.
    Durante l'assenza di lei,  Nikolàj si concedette  il  piacere  di  far
    galoppare  la  figlia attorno alla stanza.  Con il fiato grosso,  fece
    scendere la piccola dalla spalla e se la strinse  forte  al  petto.  I
    salti  che aveva fatto gli ricordarono la danza ed egli,  guardando il
    visino tondo e felice della bimba,  la immaginò cresciuta  e  si  vide
    quando,  ormai  vecchio,  avrebbe  cominciato a condurla in società e,
    allo stesso modo che il defunto suo padre ballava  con  la  figlia  il
    "Danilo Cooper", egli avrebbe fatto un giro di "mazurca" con lei.
    - E' lui,  è lui,  Nicolas!  -  esclamò la contessa Màrija, rientrando
    dopo qualche minuto nella stanza.    -    Ora  la  nostra  Natascia  è
    risorta.  Bisognava  vedere  la sua gioia e sentire che bella sgridata
    gli ha dato perché era rimasto  troppo  a  lungo  lontano.  Ma  adesso
    andiamo,  andiamo!  Separatevi,  dunque!   -  concluse sorridendo, nel
    guardare la bimba stretta al petto del  padre.  Nikolàj  uscì  con  la
    figlia tra le braccia.
    La contessa Màrija rimase nel salottino.
    -  Non  avrei  mai,  mai  creduto  che si potesse essere così felici!-
    mormorò a se stessa. La sua faccia si illuminò di un sorriso, ma nello
    stesso tempo ella sospirò,  e il suo  sguardo  profondo  espresse  una
    dolce  tristezza  come  se,  al  di là della felicità che provava,  ne
    esistesse un'altra,  irraggiungibile in questa vita e della quale,  in
    quel momento, si fosse involontariamente ricordata.


    CAPITOLO 10.

    Natascia  si  era  sposata all'inizio della primavera del 1813,  e nel
    1820 era già mamma di tre bambine e di un maschietto che  aveva  tanto
    desiderato  e  che  ora  ella  stessa  allattava.  Si era ingrassata e
    ingrossata,  tanto che era difficile  riconoscere  in  quella  robusta
    mamma l'esile e snella Natascia di un tempo.  I lineamenti del viso le
    si erano accentuati e avevano un'espressione di serena  dolcezza.  Sul
    suo  volto  non  appariva  più,   come  nel  passato,  quel  continuo,
    inestinguibile fuoco di vitalità che la  rendeva  tanto  affascinante.
    Ora si vedevano in lei il viso e la persona,  ma non più l'anima; ella
    era una bella  femmina,  robusta  e  feconda.  Solo  raramente  le  si
    accendeva  negli occhi l'antico fuoco.  Esso brillava soltanto quando,
    come adesso, ritornava il marito,  quando uno dei bimbi guariva da una
    malattia o quando,  con la contessa Màrija,  ella parlava del principe
    Andréj (con il marito non ne parlava mai perché  lo  supponeva  geloso
    della  memoria  di  quel morto) e,  molto più di rado,  quando qualche
    volta un qualsiasi caso la richiamava al  canto,  al  quale,  dopo  il
    matrimonio,  ella aveva del tutto rinunziato.  E in quei rari momenti,
    allorché l'antico fuoco si riaccendeva nel bel  corpo  fiorente,  ella
    appariva più seducente che mai.
    Dal  tempo  del matrimonio,  Natascia viveva con il marito a Mosca,  a
    Pietroburgo,  nella villa nei dintorni di Mosca e  presso  sua  madre,
    ossia nella casa di Nikolàj. La contessa Bezùchova appariva assai poco
    in  società e chi la incontrava rimaneva deluso.  Non era né graziosa,
    né cortese.  Non che Natascia amasse la solitudine (non sapeva  neppur
    lei,  in realtà,  se la amasse o no, ma le pareva piuttosto di no), ma
    portando nel suo  grembo,  partorendo  e  allattando  sempre  bambini,
    partecipando  a  ogni  minuto  della  vita  del  marito,   non  poteva
    soddisfare queste esigenze se non abbandonando la vita mondana.  Tutti
    coloro  che  avevano  conosciuto  Natascia  prima  del  matrimonio  si
    stupivano,  come di una cosa straordinaria,  del mutamento avvenuto in
    lei.  Soltanto  la  vecchia contessa che,  per istinto materno,  aveva
    compreso che tutti gli sbalzi di carattere di sua  figlia  dipendevano
    dal bisogno dl avere una famiglia,  un marito come,  più sul serio che
    per scherzo, aveva più volte dichiarato a Otràdnoe,  soltanto la madre
    si  meravigliava  dello  stupore della gente che non capiva Natascia e
    andava ripetendo di essere sempre stata convinta che Natascia  sarebbe
    diventata una moglie e una madre modello.
    - Soltanto,  ella spinge sino all'estremo l'amore per suo marito e per
    i suoi figli,   -  diceva la contessa  -  tanto che  la  cosa  diventa
    persino assurda.
    Natascia  non  ubbidiva  a quella regola d'oro,  seguita dalle persone
    intelligenti e in particolare dai Francesi,  secondo cui una  ragazza,
    quando prende marito,  non deve lasciarsi andare,  non deve trascurare
    le proprie doti,  ma deve anzi curarsi  più  di  prima  della  propria
    persona, deve sedurre il marito come lo seduceva quando non era ancora
    suo marito.  Natascia,  invece, aveva trascurato di colpo tutte le sue
    attrattive, una delle quali era particolarmente efficace: il canto.  E
    l'aveva  abbandonato  proprio perché costituiva una grande attrattiva.
    Natascia non si preoccupava né dei propri modi,  né della  delicatezza
    dei  suoi discorsi,  né di mostrarsi al marito negli atteggiamenti più
    seducenti,   né  del  suo  abbigliamento  e  neppure  cercava  di  non
    importunare  Pierre con le proprie esigenze.  Ella faceva precisamente
    l'opposto di ciò  che  prescrivono  queste  regole.  Sentiva  che  gli
    incanti che l'istinto le aveva insegnato a usare prima,  ora sarebbero
    apparsi soltanto ridicoli agli occhi del  marito  al  quale,  sin  dal
    primo  momento,  si  era abbandonata tutta,  con tutta l'anima,  senza
    lasciargliene chiuso neppure il più piccolo  angolo.  Sentiva  che  il
    legame  che la univa al marito non traeva forza dal sentimento poetico
    che l'aveva attirato verso di lei,  ma da qualcosa di indefinito e che
    era tuttavia forte quanto il legame che univa all'anima il suo corpo.
    Arricciarsi i capelli,  indossare abiti alla moda, cantare una romanza
    per piacere al marito,  le sarebbe parso strano quanto  adornarsi  per
    essere  soddisfatta di se stessa.  Quanto poi ad adornarsi per piacere
    agli altri  -  cosa che forse avrebbe potuto lusingarla   -    non  ne
    aveva  assolutamente  il  tempo.  Il  motivo principale per cui non si
    occupava né del canto,  né del suo  abbigliamento,  né  di  riflettere
    sulle  sue  parole era dovuto proprio al fatto che le mancava il tempo
    per occuparsene.
    Si sa che l'essere umano ha la facoltà di  sprofondarsi  tutto  in  un
    oggetto,  per insignificante che esso possa apparire.  E si sa che non
    esiste oggetto tanto insignificante che,  concentrando in  esso  tutta
    l'attenzione, non si dilati sino all'infinito. L'oggetto che assorbiva
    totalmente  Natascia  era  la famiglia,  ossia il marito che occorreva
    tenere in modo che appartenesse esclusivamente a  lei,  la  casa  e  i
    figli che bisognava portare in seno, partorire, allattare, allevare.
    E  quanto più Natascia penetrava,  non con l'intelligenza ma con tutta
    l'anima e con tutto il suo essere, nell'oggetto delle sue cure,  tanto
    più tale oggetto si ingrandiva sotto l'attenzione di lei,  e tanto più
    deboli e insignificanti le apparivano le proprie forze  cosicché,  pur
    concentrandole tutte in una stessa cosa, non riusciva a fare quanto le
    pareva necessario.
    Le discussioni e i ragionamenti sui diritti della donna,  sui rapporti
    tra i coniugi,  sulla loro libertà e sui loro diritti,  sebbene non si
    chiamassero  ancora come oggigiorno problemi,  erano allora gli stessi
    di adesso;  ma tali problemi non soltanto non interessavano  Natascia,
    ma essa decisamente non li capiva.
    Tali problemi, allora come ora, esistevano soltanto per quelle persone
    che nel matrimonio vedono unicamente il piacere che i coniugi traggono
    l'uno dall'altro, vale a dire unicamente l'inizio del matrimonio e non
    il suo intero, completo significato: la famiglia.
    Quei ragionamenti e i problemi di oggi, che sono simili al problema di
    trarre  il  maggior  godimento possibile da un pranzo,  non esistevano
    allora come non esistono neppur oggi per le persone per  le  quali  lo
    scopo  di  un  pranzo  è  il  nutrimento  e quello del matrimonio è la
    famiglia.
    Se lo scopo di un pranzo è il nutrimento del corpo,  chi ne consumasse
    due  d'un  colpo,  proverebbe  forse  maggior  soddisfazione,  ma  non
    raggiungerebbe lo scopo  giacché  lo  stomaco  non  può  digerire  due
    pranzi.
    Se  lo  scopo  del  matrimonio è la famiglia,  chi volesse avere molte
    mogli e molti mariti potrebbe,  sì,  ritrarre  molto  piacere,  ma  in
    nessun caso avrebbe una famiglia.
    Tutto  il  problema   -  se lo scopo del pranzo sia il nutrimento e lo
    scopo del matrimonio la famiglia  -  si risolve soltanto  con  il  non
    mangiare  più  di  quanto lo stomaco sia in grado di digerire e con il
    non avere più mogli e più mariti di quanti siano necessari per formare
    una famiglia, ossia non più di una o di uno. Natascia aveva bisogno di
    un marito.  Lo aveva avuto,  e il marito le aveva dato  una  famiglia.
    Così,  non  solo  ella non sentiva la necessità di un marito diverso e
    migliore,  ma poiché tutte le forze dell'anima erano tese per  servire
    quel  marito  e  quella  famiglia,  non  poteva  neanche immaginare né
    trovare alcun interesse nel figurarsi come sarebbero andate le cose se
    fossero state diverse.
    Natascia non amava la compagnia in  genere,  ma  tanto  più  amava  la
    compagnia  dei  parenti:  della contessa Màrija,  del fratello,  della
    madre e di Sònja.  Amava la compagnia di quelle  persone  dalle  quali
    poteva recarsi, uscendo dalla camera dei bambini spettinata e in veste
    da  camera,  mostrando con espressione felice una fascia imbrattata di
    giallo anziché di verde e consolarsi sentendo affermare che  ormai  il
    bimbo ammalato stava assai meglio.
    Natascia si trascurava talmente che i suoi abiti, le sue acconciature,
    le  sue  parole dette a vanvera,  la sua gelosia (era gelosa di Sònja,
    della governante,  di qualsiasi donna bella o brutta) erano  argomento
    di  celie di tutti i suoi familiari.  Era opinione generale che Pierre
    fosse dominato dalla moglie e,  in realtà,  era proprio così.  Sin dai
    primi  giorni  del  loro matrimonio,  Natascia aveva dichiarato le sue
    esigenze.  Pierre si era molto stupito dei punti  di  vista,  per  lui
    assolutamente  nuovi,  di sua moglie,  secondo i quali essa voleva che
    ogni istante della sua vita appartenesse a lei e alla famiglia. Si era
    stupito di tali pretese,  ma ne  era  stato  lusingato  e  vi  si  era
    sottomesso.
    La  sottomissione di Pierre consisteva nel fatto che egli non soltanto
    non osava corteggiare, ma neppure parlare sorridendo a un'altra donna;
    non osava andare a pranzo al club,  "così" solo per passare il  tempo,
    non osava fare delle spese per suo proprio piacere,  né assentarsi per
    lungo tempo salvo che per affari tra i  quali  sua  moglie  annoverava
    anche le sue occupazioni culturali,  delle quali non capiva nulla,  ma
    che giudicava molto importanti. In compenso Pierre aveva in casa pieno
    diritto di disporre come meglio gli piacesse non soltanto di sé, ma di
    tutta la sua famiglia.  In casa,  Natascia si considerava schiava  del
    marito, e tutti dovevano camminare in punta di piedi quando Pierre era
    nel  suo  studio occupato a leggere o a scrivere.  Era sufficiente che
    Pierre manifestasse un desiderio perché  Natascia  si  affrettasse  ad
    esaudirlo.
    Tutta  la  casa  era  governata  secondo gli ordini del marito,  ossia
    secondo  i  desideri  di  lui,   desideri  che  Natascia  cercava   di
    indovinare.  Il sistema di vita, il luogo di residenza, le conoscenze,
    le amicizie,  le occupazioni di Natascia,  l'educazione  dei  bambini,
    tutto ciò non solo si faceva secondo l'espressa volontà di Pierre,  ma
    Natascia si sforzava di indovinare ciò che poteva essere  la  sostanza
    pratica  dei  pensieri  manifestati  da  Pierre  nei suoi discorsi.  E
    indovinava sempre il succo dei desideri del marito e,  dopo che  aveva
    indovinato,  si  comportava  decisamente  secondo  quanto  egli  aveva
    scelto.  Allorché Pierre stesso voleva  mutare  parere,  ella  lottava
    contro di lui con le sue stesse armi.
    Così,  nel periodo penoso (sempre presente alla memoria di Pierre) che
    seguì la nascita della prima bambina,  molto gracile,  quando si erano
    dovute   cambiare  tre  balie  e  Natascia  si  era  ammalata  per  la
    disperazione, Pierre un giorno aveva parlato alla moglie delle idee di
    Rousseau,  idee che egli condivideva pienamente,  sull'aspetto  contro
    natura  e  dannoso  dell'allattamento  mercenario.  Alla  nascita  del
    secondo bambino,  nonostante l'opposizione di sua madre,  dei medici e
    del  marito,  insorti  tutti  contro  l'idea che lei allattasse,  cosa
    allora  inaudita  e  ritenuta  dannosa,  essa  rimase  ferma  nel  suo
    proposito e da allora allattò lei stessa tutti i suoi figli.
    Molte volte,  nei momenti di irritazione, accadeva che marito e moglie
    si mettessero a discutere,  ma molto tempo dopo  passata  la  disputa,
    Pierre  con  gioia  e stupore scopriva,  tanto negli atti quanto nelle
    parole della  moglie,  proprio  quelle  idee  contro  le  quali  aveva
    combattuto;  non solo,  ma le ritrovava purificate da tutto ciò che di
    eccessivo il calore della discussione aveva messo nelle espressioni di
    lei.
    Dopo sette anni di matrimonio, Pierre sentiva in sé la salda,  gioiosa
    consapevolezza  di  non  essere un uomo cattivo;  lo sentiva perché si
    vedeva riflesso in sua moglie.  In se stesso egli sentiva mescolati il
    bene  e  il  male  che  si annebbiavano a vicenda,  ma nella moglie si
    rifletteva soltanto ciò che vi era in lui di  realmente  buono;  tutto
    ciò che non lo era veniva respinto. E questo riflesso si produceva non
    già per mezzo del pensiero logico, ma per una via diversa, misteriosa,
    immediata.


    CAPITOLO 11.

    Due  mesi  prima,  Pierre,  già ospite dei Rostòv,  aveva ricevuto una
    lettera dal principe Fëdor che lo chiamava a Pietroburgo per discutere
    le importanti questioni di cui si occupavano allora i  membri  di  una
    società della quale Pierre era stato uno dei principali fondatori.
    Letta  questa lettera,  Natascia,  che leggeva tutta la corrispondenza
    del marito, nonostante l'affliggesse molto il pensiero dell'assenza di
    lui, si era affrettata a proporgli di partire per Pietroburgo. A tutto
    ciò che costituiva l'attività  intellettuale,  astratta,  del  marito,
    essa  attribuiva,  pur  senza  capirne nulla,  una enorme importanza e
    temeva sempre di poterla,  in qualche modo,  ostacolare.  Allo sguardo
    interrogativo e timido di Pierre,  dopo la lettura della lettera, ella
    aveva risposto pregandolo di andare,  a patto però che le fissasse  il
    giorno  preciso  del  ritorno.  Ed  era  stata concessa una licenza di
    quattro settimane.
    Dal momento in cui, quindici giorni prima,  era scaduto il periodo del
    permesso  di  Pierre,  Natascia  si  trovava  in uno stato di continua
    ansia, di tristezza e di irritazione.
    Denissov,  generale a riposo,  scontento dell'attuale sua  situazione,
    era  arrivato  durante  quelle due settimane e con stupore e tristezza
    guardava Natascia,  come si guarda il ritratto non più somigliante  di
    un essere amato nel passato.  Uno sguardo triste e annoiato,  risposte
    buttate là a casaccio e discorsi concernenti  i  bambini  costituivano
    tutto ciò che egli vedeva e udiva nella maga di un tempo.
    Natascia,  durante  tutto  quel periodo,  era stata triste e nervosa e
    tale si mostrava specialmente quando, per consolarla,  sua madre,  suo
    fratello,  Sònja o la contessa Màrija cercavano di giustificare Pierre
    e di immaginare le cause del suo ritardo.
    -  Tutte  sciocchezze,   tutte  cose  senza  senso,   quei  suoi   bei
    ragionamenti  che  non  approdano  a  nulla  e  tutta  quella  stupida
    associazione  -  diceva Natascia a proposito  di  quelle  stesse  cose
    alla  cui  grande  importanza essa credeva fermamente.  E se ne andava
    nella stanza dei bambini ad allattare il suo unico maschietto, Pétja.
    Nessuno poteva dirle nulla  di  consolante  e  di  ragionevole  quanto
    quella  creaturina  di tre mesi,  quando l'aveva al petto e la sentiva
    poppare avidamente  con  la  boccuccia  e  tirar  su  con  il  nasino.
    Quell'esserino  le  diceva: "Tu sei in collera,  sei gelosa,  vorresti
    vendicarti,  hai mille timori,  ma io sono lui,  io sono lui...".  Non
    c'era nulla da rispondere. Era più che la verità.
    In  quelle  due settimane di inquietudine,  Natascia era andata spesso
    dal bambino per calmarsi,  si era data tanto da fare con lui che aveva
    finito  con  il dargli troppo latte e farlo ammalare.  La malattia del
    bimbo che atterrì Natascia era proprio quello che ci voleva  per  lei.
    Curando  il  figliuoletto  sopportava  più  facilmente  l'ansietà  che
    l'assenza del marito le cagionava.
    Stava appunto allattando il piccolo quando si sentì  il  rumore  della
    carrozza di Pierre che si fermava davanti all'ingresso.  La bambinaia,
    che sapeva come rallegrare la padrona, entrò senza far rumore,  con il
    viso raggiante.
    - E' arrivato?  -  domandò Natascia a bassa voce, evitando di muoversi
    nel timore di svegliare il bimbo che si era assopito.
      -  E' arrivato, sì  -  rispose piano la bambinaia.
    Il  sangue  affluì  al  viso  di Natascia,  le gambe le si mossero suo
    malgrado, ma non poteva alzarsi e mettersi a correre.  Il piccolo aprì
    gli occhietti e la guardò.  "Sei qui",  pareva voler dire,  e di nuovo
    mosse pigramente le labbruzze.
    Natascia,  dopo averlo pian piano staccato dal seno,  lo cullò un po',
    poi  lo  affidò alla bambinaia e si avviò in fretta verso l'uscio.  Ma
    sulla soglia si fermò come presa dal rimorso di aver  lasciato,  nella
    sua  gioia,  troppo  presto  il  piccolo  e  si volse a guardarlo.  La
    bambinaia, sollevando i gomiti, stava deponendolo nella culla.
    - Andate, andate, signora, state tranquilla...  andate  -  sussurrò la
    bambinaia  con  quella  familiarità  che si era stabilita tra lei e la
    padrona.
    E Natascia, a passi leggeri, corse in anticamera.
    Denissov, che usciva dallo studio con la pipa in bocca,  riconobbe per
    la  prima volta,  in quel momento,  la Natascia di un tempo.  Una luce
    radiosa,   sfavillante,   brillava  e  si  effondeva  da  quel   volto
    trasfigurato.
    - E' arrivato!   -  gli disse correndo,  e Denissov provò anch'egli un
    senso di esultanza per il ritorno di Pierre,  sebbene non nutrisse per
    lui molta simpatia.
    Giunta  nell'anticamera,  Natascia scorse un'alta figura avvolta nella
    pelliccia,  che stava sbarazzandosi della sciarpa che le avvolgeva  il
    collo.
    "E'  lui,  è  lui!  E'  proprio  lui!  Eccolo!",  disse a se stessa e,
    precipitandosi verso il marito,  lo abbracciò,  lo strinse a  sé,  gli
    pose la testa sul petto;  poi,  dopo averlo scostato da sé, gli guardò
    il viso coperto di nevischio, arrossato e felice. "Sì, è lui... felice
    e contento...!".
    E a un tratto si ricordò del tormento dell'attesa sopportato nelle due
    ultime settimane; la gioia che illuminava il suo viso si spense;  ella
    aggrottò  le  sopracciglia  e  un  torrente  di rimproveri e di parole
    cattive si riversò su Pierre.
    - Sì, per te tutto va bene, tu sei contento... Ti sei divertito...  Ma
    io?  Se almeno avessi avuto un po' di compassione per i bambini...  Io
    allatto e il mio latte si è alterato: Pétja è stato in punto di morte.
    E tu sei allegro e contento... sì, sei allegro...
    Pierre sapeva di non essere  colpevole,  giacché  non  gli  era  stato
    possibile arrivare prima; sapeva che quella sfuriata di sua moglie era
    fuori  luogo  e  sapeva  che  dopo  due minuti si sarebbe placata;  ma
    soprattutto sapeva di essere felice e pieno di gioia.  Avrebbe  voluto
    sorridere,  ma  non  osava  neppure  pensarci.  Assunse un'espressione
    sgomenta e mortificata e si curvò.
    - Non ho potuto, te lo giuro... Ma che ha Pétja?
    - Ora non ha più nulla.  Andiamo.  Ma non ti vergogni?  Se tu  potessi
    vedere in che stato sono quando tu non ci sei, come mi tormento...
    - Stai bene?
    -  Andiamo,  andiamo  -  ripeteva Natascia,  senza lasciare la mano di
    lui. Ed entrarono nelle loro stanze.
    Quando Nikolàj e la moglie vennero a salutare Pierre,  egli era  nella
    camera  dei  bambini  e  teneva sull'enorme palmo della mano destra il
    figlioletto poppante che si era svegliato, e lo faceva dondolare.  Sul
    viso largo del piccolo, dalla boccuccia aperta, senza denti, era fermo
    un  sorriso  felice.  La  tempesta  si era placata,  un sole radioso e
    splendente illuminava il viso di Natascia,  la quale guardava commossa
    il marito e il figliuoletto.
    - Hai parlato di tutto con il principe Fëdor?  -  domandò Natascia.
    - Sì, di tutto.
    -  Vedi,  come la tiene su...   -  (Natascia alludeva alla testina del
    bimbo).    -    Sapessi  come  mi  ha  spaventata!   E  hai  visto  la
    principessina? E' vero che è innamorata di quel...
    - Ma sì, puoi figurarti...
    In quel momento entrò Nikolàj con la contessa Màrija.  Pierre,  sempre
    tenendo il piccolo in braccio, si chinò per baciare entrambi e rispose
    alle loro domande.  Ma era evidente  che,  nonostante  le  molte  cose
    interessanti che aveva da dire, il piccolo con la testolina vacillante
    attirava tutta l'attenzione di Pierre.
    - Com'è carino!  -  disse la contessa Màrija, guardando il piccolino e
    vezzeggiandolo.  -  Io non capisco, Nicolas, come tu non possa sentire
    il fascino di questi esserini meravigliosi  -  aggiunse,  rivolgendosi
    al marito.
    - Non lo capisco, non riesco a capirlo  -  rispose Nikolàj,  guardando
    freddamente il bimbo.  -  Un pezzo di carne... Andiamo, Pierre.
    -  Eppure egli è un padre così tenero!   -  riprese la contessa Màrija
    per giustificare il marito.   -  Ma soltanto quando  hanno  almeno  un
    anno... o giù di lì...
    - No,  Pierre li sa tenere benissimo  -  disse Natascia.   -  Dice che
    la sua mano pare fatta apposta per il sederino di un bimbo. Guardate!
    - Sì,  ma non per questo...   -   esclamò  ad  un  tratto  ridendo  e,
    afferrato il piccolo, lo consegnò alla bambinaia.


    CAPITOLO 12.

    Come in ogni vera famiglia, nella casa di Lissia-Gori vivevano insieme
    alcuni mondi assolutamente diversi i quali,  pur conservando ognuno le
    proprie  particolarità  ma  facendosi   concessioni   reciproche,   si
    fondevano formando un tutto unico e armonico.  Ogni avvenimento che si
    verificava nella casa era  ugualmente  lieto,  ugualmente  importante,
    ugualmente  triste  per  tutti quei mondi,  ma ogni mondo aveva motivi
    suoi propri, indipendenti dagli altri,  per rallegrarsi o rattristarsi
    di qualsiasi cosa accadesse.
    Così  il  ritorno  di Pierre era un avvenimento importante e lieto,  e
    come tale si rifletteva su tutti.
    I domestici,  che sono i migliori giudici dei padroni giacché  i  loro
    giudizi  non  derivano dai discorsi e dalle espressioni dei sentimenti
    dei padroni,  ma dalle loro azioni e dal loro modo  di  vivere,  erano
    contenti dell'arrivo di Pierre perché sapevano che,  quando c'era lui,
    il conte non andava ogni giorno in  giro  per  l'azienda  ed  era  più
    allegro e più mite, e anche perché sapevano che ognuno di essi avrebbe
    avuto ricchi doni per la festa.
    I bimbi e le governanti si rallegravano del ritorno di Bezuchov perché
    nessuno  era  bravo  come  lui nel farli partecipare alla vita comune.
    Egli solo sapeva suonare al clavicembalo la "scozzese" (l'unico  pezzo
    che  conosceva) al cui ritmo si potevano ballare,  secondo quanto egli
    diceva, tutte le danze possibili e perché, senza dubbio,  aveva recato
    regali per tutti.
    Nikòlinka,  che  era ormai un ragazzo di quindici anni,  magro,  alto,
    intelligente,  dai capelli biondi ricciuti,  dagli occhi bellissimi ma
    di salute cagionevole,  era felice perché lo zio Pierre,  come egli lo
    chiamava,  costituiva l'oggetto della sua ammirazione e del suo grande
    affetto.  Nessuno  aveva insegnato a Nikòlinka ad amare Pierre in modo
    particolare e,  inoltre,  il ragazzo lo  vedeva  anche  raramente.  La
    contessa Màrija, che si curava della sua educazione, cercava con tutte
    le  sue  forze  di spingerlo ad amare il marito come lo amava lei e in
    realtà Nikòlinka voleva bene allo zio,  ma gli  voleva  bene  con  una
    lieve sfumatura di disprezzo. Invece adorava Pierre. Egli non aspirava
    a  diventare  né  ussaro,  né  cavaliere  di San Giorgio,  come lo zio
    Nikolàj;  voleva essere colto,  intelligente e buono come  Pierre.  In
    presenza di Pierre il suo viso era sempre raggiante di contentezza, ed
    egli  arrossiva  e  si  sentiva  mancare  il  respiro quando Pierre si
    rivolgeva a lui.  Non perdeva una parola di quello che Bezuchov diceva
    e  poi  con Desalles e anche con se stesso ricordava ogni parola detta
    da lui e ragionava e rifletteva sul suo significato.
    La vita passata di Pierre,  le sue sventure sino al 1812 (delle  quali
    si  era fatta un'idea vaga e poetica da quanto aveva sentito narrare),
    le sue avventure a Mosca, la prigionia,  Platòn Karataev (di cui aveva
    udito  parlare),  il  suo  amore per Natascia (per la quale il ragazzo
    nutriva un affetto particolare) e,  soprattutto,  l'amicizia  per  suo
    padre  del quale Nikòlinka non si rammentava;  tutto ciò faceva sì che
    ai suoi occhi Pierre assumesse l'aspetto di un eroe  e  di  un  essere
    sacro.
    Dai  discorsi interrotti circa suo padre e Natascia,  dalla commozione
    con cui Pierre parlava del defunto e dalla  tenerezza  cauta  e  quasi
    religiosa  con  la  quale  Natascia  lo  ricordava,   il  ragazzo  che
    incominciava appena allora ad intuire qualcosa dell'amore,  era  quasi
    certo  che  suo  padre  avesse amato Natascia e che,  morendo l'avesse
    affidata al suo amico. E quel padre, di cui egli non si ricordava, gli
    appariva come una divinità che non  era  possibile  immaginare,  e  al
    quale  non  poteva  pensare  se non con il cuore che gli tremava e con
    lacrime di tristezza e di entusiasmo.  Per tutto questo il ragazzo era
    felice per l'arrivo di Pierre.
    Gli ospiti erano contenti di rivederlo,  giacché Pierre sapeva animare
    ed affiatare qualsiasi compagnia. Gli adulti della casa, senza parlare
    di Natascia,  erano felici del ritorno di un  amico  la  cui  presenza
    rendeva più facile e più serena la vita.
    Le  vecchie  signore  si  rallegravano per i doni che egli aveva senza
    dubbio portato  e,  soprattutto,  perché  Natascia  ritrovava  la  sua
    vivacità e la sua gioia di vivere.
    Pierre  sentiva  attorno  a  sé  questi diversi punti di vista di quei
    mondi diversi e si affrettava a dare ciò che ciascuno si attendeva  da
    lui.  Pierre, l'uomo più distratto e più smemorato del mondo, ora, con
    l'aiuto di un elenco preparatogli dalla moglie, aveva comperato tutto,
    senza dimenticare né le  commissioni  della  suocera,  né  quelle  del
    cognato,  né la stoffa per un vestito alla Bélova, né i giocattoli per
    i nipotini.  Nei primi tempi del suo  matrimonio,  gli  pareva  strana
    questa  pretesa  di  Natascia  per  cui  egli doveva eseguire tutte le
    commissioni,  senza dimenticare  nulla  di  ciò  che  si  era  assunto
    l'incarico di acquistare,  ed era stato colpito dall'afflizione di lei
    quando,  al primo viaggio,  aveva dimenticato tutto.  Ma in seguito ci
    aveva fatto l'abitudine. Sapendo che Natascia non lo incaricava mai di
    alcuna  commissione  né per sé,  né per gli altri,  se non quando egli
    stesso glielo proponeva,  provava ora  un  inatteso,  quasi  infantile
    piacere  nell'acquistare  doni  per  tutti  quelli  di  casa,   e  non
    dimenticava mai nulla. Se meritava qualche rimprovero da Natascia, ciò
    accadeva soltanto quando acquistava roba  superflua  o  ad  un  prezzo
    troppo elevato.  A tutti i suoi difetti, secondo l'opinione dei più, o
    buone qualità secondo l'opinione di  Pierre,  alla  trascuratezza  del
    vestire   e  alla  sciatteria,   Natascia  aveva  aggiunto  ora  anche
    l'avarizia.
    Da quando Pierre aveva cominciato a vivere in una grande casa, con una
    famiglia per cui occorrevano notevoli spese,  egli  aveva  notato  con
    stupore  che  spendeva  due  volte  meno di prima e che i suoi affari,
    dissestati negli ultimi tempi (specialmente a causa dei  debiti  della
    prima moglie), cominciavano a sistemarsi.
    Le  spese  erano minori perché il tenore di vita era regolare;  Pierre
    non aveva e non desiderava più quel lusso costoso che consiste  in  un
    modo  di  vivere che può essere mutato ogni momento.  Sentiva che esso
    era ormai definito per sempre, sino alla morte, sentiva che non era in
    suo potere mutarlo e perciò esso riusciva meno dispendioso.
    Con un viso allegro e sorridente, Pierre mostrava i suoi acquisti.
    - Ebbene, che ne dite?   -  chiedeva esponendo,  come un mercante,  un
    pezzo di stoffa. Natascia, che teneva sulle ginocchia la figliuola più
    grandicella e guardava raggiante ora Pierre,  ora gli oggetti che egli
    andava tirando fuori, stava seduta dirimpetto a lui.
    - Questo è per la Bélova? Ottimo!  -  E intanto tastava la stoffa.   -
    Un rublo il metro, vero?
    Pierre disse il prezzo.
    - Caro!   -  dichiarò Natascia.  -  Ma come saranno contenti "maman" e
    i bambini. Però hai fatto male a comperare questo per me  -  aggiunse,
    incapace tuttavia di trattenere un sorriso,  mentre  ammirava  uno  di
    quei pettini d'oro ornati di perle, che soltanto allora cominciavano a
    diventare di moda.
    - Mi ci ha costretto Adele, ripetendomi: comperalo, comperalo! - disse
    Pierre.
    - Ma quando me lo metterò?   -  E Natascia se lo infilò nella treccia.
    -  Servirà per Màsenka,  quando sarà più grande: forse allora  saranno
    di nuovo moderni. Be', andiamo!
    E,  raccolti  i  regali,  si  recarono  insieme prima nella camera dei
    bambini e poi dalla contessa.
    La contessa era,  come di consueto,  occupata a fare un  solitario  in
    compagnia  della  Bélova  quando  Pierre  e  Natascia,  con le braccia
    cariche, entrarono nel salotto.
    La contessa aveva ormai  più  di  sessant'anni.  Era  tutta  grigia  e
    portava  una cuffietta ornata tutto attorno da una increspatura che le
    incorniciava il viso rugoso,  dal labbro superiore rientrato  e  dagli
    occhi appannati.
    Dopo la morte del figlio e del marito,  avvenute a così breve distanza
    di  tempo  l'una  dall'altra,   ella  si  sentiva   come   un   essere
    completamente dimenticato su questa terra, un essere che non aveva più
    né scopo, né desiderio di vivere. Mangiava, beveva, dormiva, vegliava,
    ma  non viveva.  La vita non le lasciava più alcuna impressione.  Alla
    vita non chiedeva più nulla se non la pace e questa la poteva  trovare
    soltanto nella morte.  Ma poiché la morte non sopravveniva ancora, era
    costretta a  vivere,  ossia  a  spendere  le  energie  vitali  che  le
    rimanevano. Si notava in lei, al massimo grado, quello che si nota nei
    bambini  molto  piccoli  e  nelle  persone molte vecchie: non appariva
    nella sua vita alcuno scopo esteriore,  ma si manifestava soltanto  il
    bisogno  di  esercitare  le  diverse  inclinazioni  e capacità.  Aveva
    bisogno di mangiare,  di  dormire,  di  discorrere,  di  piangere,  di
    lavorare,  irritarsi e via dicendo, soltanto perché aveva uno stomaco,
    un cervello, un fegato, dei muscoli, dei nervi.  E faceva tutto questo
    senza alcuna sollecitazione esterna e non come lo fanno le persone nel
    pieno  vigore  della  vita,  quando,  oltre  allo scopo a cui tendono,
    rimane invisibile l'altro,  quello di dar sfogo alle proprie  energie.
    Essa  parlava  perché aveva il bisogno fisico di far agire i polmoni e
    la lingua; piangeva come una bambina perché aveva bisogno di soffiarsi
    il naso e così via...  Ciò che per le persone  nel  fior  dell'età  si
    presenta come uno scopo, per lei era evidentemente un pretesto.
    Così  alla  mattina,  specialmente  se  il giorno prima aveva mangiato
    qualche cibo troppo grasso,  appariva chiaro  in  lei  il  bisogno  di
    andare in collera e allora prendeva il pretesto più comodo: la sordità
    della Bélova.
    Dall'altra  estremità della stanza cominciava a dirle qualcosa a bassa
    voce:
    - Mi pare che oggi faccia più caldo, vero, mia cara?  -  diceva piano.
    E quando la Bélova rispondeva:  -  E come no?  Sono arrivati!   -   la
    vecchia  contessa  si  irritava  e borbottava:   -  Mio Dio,  quanto è
    sorda e quanto è stupida!
    Un altro pretesto era il tabacco da fiuto che trovava talvolta  troppo
    asciutto,  talaltra troppo umido,  talaltra mal tritato.  In seguito a
    queste manifestazioni di collera, la bile le si diffondeva per il viso
    e le cameriere sapevano dai segni  sicuri  quando  la  Bélova  sarebbe
    stata  di  nuovo  sorda,  quando  il tabacco sarebbe diventato umido e
    quando il viso della contessa  sarebbe  ridiventato  giallo.  E,  come
    talvolta  aveva  il  bisogno  di far circolare la bile,  così talvolta
    provava la necessità di impiegare la capacità di pensare che ancora le
    rimaneva: il pretesto  per  questo  era  il  solitario.  Quando  aveva
    bisogno di piangere,  il pretesto era il defunto conte; quando sentiva
    la necessità di essere inquieta, sceglieva come scusa Nikolàj e la sua
    salute; e quando si sentiva spinta a dire parole pungenti, prendeva di
    mira la contessa Màrija. Allorché non poteva fare a meno di esercitare
    l'organo della voce,   -  il che accadeva per lo più verso le sette di
    sera  dopo  il  riposo  per la digestione nel buio della sua camera  -
    ricorreva allora alla  narrazione  delle  sempre  medesime  storie  ai
    sempre medesimi ascoltatori.
    Sebbene  nessuno  ne  parlasse  mai,  tutti  i familiari facevano ogni
    possibile sforzo per  soddisfare  i  desideri  e  le  necessità  della
    vecchia contessa,  di cui capivano le condizioni. Soltanto con qualche
    raro sguardo e  con  qualche  triste,  mezzo  sorriso,  scambiato  tra
    Nikolàj,  Pierre,  Natascia  e  la  contessa  Màrija,  si esprimeva la
    compassione per lo stato della vecchia signora.
    Ma quegli sguardi esprimevano anche qualcos'altro: dicevano  che  ella
    aveva già compiuto la sua missione nella vita,  che la sua personalità
    non era stata soltanto in ciò che si vedeva ora,  che tutti  sarebbero
    diventati  come  lei e che era una gioia obbedirle,  aver pazienza con
    quell'essere un tempo così caro,  pieno di vita  come  loro  e  adesso
    ridotto in uno stato tanto miserevole.  "Memento mori!" (11), dicevano
    quegli sguardi.
    Tra tutta la gente di casa,  soltanto le persone veramente  cattive  e
    stupide  e  i bambini piccoli non capivano queste cose ed evitavano la
    povera vecchia.


    CAPITOLO 13.

    Allorché Pierre e la moglie entrarono  nel  salotto,  la  contessa  si
    trovava  nel  momento  in  cui doveva occuparsi del lavorio mentale di
    disporre le carte per un solitario e perciò sebbene dicesse le  stesse
    parole  che  diceva  sempre al ritorno di Pierre o di suo figlio: "Era
    ora,  era ora,  mio caro!  Ti aspettavamo.  Sia lodato il Signore!"  e
    sebbene   nel  ricevere  i  regali  pronunziasse  le  altre  anch'esse
    consuete,  parole: "Non è il valore del dono che conta ma il fatto  di
    aver  pensato a me,  povera vecchia...",  era evidente che l'arrivo di
    Pierre, proprio in quel momento, la disturbava perché la distraeva dal
    gran solitario,  le cui carte non  aveva  ancor  finito  di  disporre.
    Terminò  il  suo  gioco e soltanto allora cominciò ad esaminare i doni
    ricevuti: un astuccio per le carte di squisita fattura,  una tazza  di
    porcellana  di  Sèvres  di un vivace azzurro,  sul cui coperchio erano
    dipinte scene pastorali e una tabacchiera d'oro con  il  ritratto  del
    conte,   che   Pierre  aveva  fatto  eseguire  da  un  miniaturista  a
    Pietroburgo.  (La contessa la desiderava da un pezzo).  Poiché in quel
    momento  non sentiva il bisogno di piangere,  si limitò a guardare con
    indifferenza il ritratto e soffermò la sua attenzione sull'astuccio.
    - Grazie,  amico mio,  mi hai dato una consolazione  -    disse,  come
    diceva  sempre.   -  Ma la cosa più bella è che hai portato te stesso.
    Se no,  qui erano guai seri.  Dovresti un po' sgridare tua moglie.  Ma
    che diamine!  Senza di te pare impazzita. Non vede niente, non ricorda
    -  diceva, ripetendo le parole di ogni volta in simili circostanze.  -
    Guarda,  Anna Timòfevna,   -  aggiunse  -   che  bell'astuccio  mi  ha
    portato mio figlio!
    La Bélova lodò i regali e fu entusiasta della stoffa destinata a lei.
    Sebbene  Pierre,  Natascia,  Nikolàj,  la  contessa  Màrija e Denissov
    dovessero parlare di molte cose  che  non  potevano  essere  dette  in
    presenza  della contessa (non perché le si tenesse nascosto nulla,  ma
    perché essa era ormai così  distaccata  da  tutto  che,  se  si  fosse
    incominciato a trattare di qualche argomento, sarebbe stato necessario
    rispondere  alle  sue  domande fatte a sproposito e ripeterle cose già
    dette e ridette un'infinità di volte;  raccontarle  che  il  tale  era
    morto, che il talaltro si era sposato, tutte cose che essa non avrebbe
    poi ricordato), tuttavia, secondo l'abitudine essi rimasero a prendere
    il tè in salotto accanto al samovàr,  e Pierre rispondeva alle domande
    della contessa, inutili anche per lei e che non interessavano nessuno,
    per esempio che il principe Vassilij era invecchiato,  che la contessa
    Màrija  Alekséevna la mandava a salutare e la pregava di ricordarsi di
    lei, eccetera eccetera...
    Una simile conversazione,  che non  interessava  nessuno  ma  che  era
    necessaria,  si protraeva per tutta l'ora del tè.  Attorno alla tavola
    rotonda, davanti al samovàr presso cui stava Sònja, si riunivano tutte
    le persone adulte della famiglia.  I bambini con  le  governanti  e  i
    precettori avevano già preso il tè e si udivano le loro voci provenire
    dall'attigua  stanza  dei  divani.  Al  tè  tutti  occupavano il posto
    abituale: Nikolàj accanto alla stufa davanti a un piccolo tavolino sul
    quale gli veniva servito il tè,  su una poltrona  accanto  a  lui  era
    sdraiata  la vecchia cagna Milka,  figlia della prima Milka,  dal muso
    ormai canuto,  sul quale spiccavano maggiormente i grandi occhi  neri.
    Denissov,  i capelli ricciuti,  le basette, i baffi brizzolati, con la
    giacca da generale sbottonata,  sedeva accanto alla  contessa  Màrija.
    Pierre stava tra la moglie e la vecchia contessa, e raccontava ciò che
    sapeva  potesse  interessare  la  suocera  ed  essere compreso da lei.
    Parlava degli avvenimenti della vita sociale e di quelle  persone  che
    un  tempo  avevano  formato  l'ambiente  dei  coetanei  della  vecchia
    contessa,  persone che avevano costituito un gruppo a  parte,  attivo,
    vivace,  ma  che  ora,  disperse  per  la  maggior parte per il mondo,
    finivano come lei i loro giorni,  raccogliendo le ultime spighe di ciò
    che avevano seminato nella vita. Ma essi, quei suoi coetanei, parevano
    alla vecchia contessa l'unico mondo serio e reale.  Dall'animazione di
    Pierre,  Natascia capiva che il viaggio che egli aveva fatto era stato
    interessante,  che avrebbe voluto parlare di molte altre cose,  ma che
    non osava farlo in presenza della suocera.  Denissov,  che non essendo
    della  famiglia,  non  si  rendeva  conto  della  cautela di Pierre e,
    inoltre,  essendo  un  malcontento,  si  interessava  molto  a  quanto
    avveniva  a  Pietroburgo,  lo  spingeva continuamente con insistenza a
    parlare,  ora di qualche fatto recentemente  accaduto  nel  reggimento
    Semënovskij,  ora di Arakceev,  ora della Società Biblica (12). Pierre
    di tanto in tanto si lasciava trascinare e incominciava a  raccontare,
    ma Nikolàj e Natascia lo riconducevano subito all'argomento salute del
    principe Ivàn e della contessa Màrija Antònovna.
    -  Ma  è possibile che duri ancora tutta quella pazzia di Hossner e di
    Tatarinov?  -  domandò Denissov.
    - Se continua?  -  esclamò Pierre.  -  Più che mai! La Società Biblica
    è ora tutto il governo.
    - Come sarebbe a dire, "mon cher ami"?  -  domandò la contessa, mentre
    finiva di bere il tè e cercando evidentemente un pretesto per  potersi
    irritare  dopo  il pasto.   -  Che cosa stai dicendo del governo?  Non
    capisco...
    - Ma sapete,  "maman"  -  intervenne Nikolàj che sapeva come  tradurre
    le cose nel linguaggio materno;   -  il principe Aleksàndr Nikolàevic'
    Golicyn  ha  fondato  una  società,  cosicché dicono che ora sia molto
    potente.
    - Arakceev e Golicyn  -  rettificò incautamente Pierre;   -  sono essi
    ora tutto il governo.  E che governo!  Vedono da ogni parte congiure e
    hanno paura di tutto.
    - Ma che colpa ne ha il principe Aleksàndr Nikolàevic'? E' una persona
    rispettabilissima. Lo incontravo, allora,  in casa di Màrija Antònovna
    -    osservò  in tono offeso la contessa e,  ancora più seccata per il
    fatto che  tutti  tacevano,  proseguì:    Oggigiorno  tutti  trinciano
    giudizi.  Una società evangelica...  ebbene, che c'è di male?  -  e si
    alzò (anche gli altri si alzarono) e con espressione severa si diresse
    alla sua tavola nella sala dei divani.
    Nel triste silenzio che si fece,  giunsero dalla stanza accanto risate
    e  voci  infantili.  Evidentemente  tra i bimbi doveva essere avvenuto
    qualcosa di allegro.
    - Pronti!  Pronti!   -  echeggiò al di sopra di tutte la voce  gioiosa
    della  piccola  Natascia.  Pierre scambiò con la contessa Màrija e con
    Nikolàj un'occhiata (Natascia la vedeva sempre) e sorrise felice.
    - Ecco una musica meravigliosa!  -  esclamò.
    - Anna Makàrovna ha finito la sua calza  -  disse la contessa Màrija.
    - Oh, vado a vedere!  -  esclamò Pierre, scattando in piedi.   -  Sai,
    -    disse  fermandosi sulla soglia  -  perché io amo questa musica in
    modo particolare?  Perché da essa  capisco  che  tutto  procede  bene.
    Stamane,  quanto  più  mi  avvicinavo  a  casa,  tanto  più mi sentivo
    afferrare da un senso di paura. Appena entrato in anticamera, ecco che
    sento Andrjuscia ridere,  chissà per che cosa,  a gran  voce.  Be',  è
    bastato quello per farmi sapere che tutto andava bene!
    -  Lo  so,  lo  so,  anch'io  conosco  questa  sensazione  -  confermò
    Nikolàj.   -  Io non posso entrare: le calze,  sai,  sono una sorpresa
    per me...
    Pierre entrò dai bambini, e le risate e le grida aumentarono di tono.
    - Suvvia,  Anna Makàrovna  -  si udì la voce di Pierre  -  ecco, vieni
    qui, in mezzo, io dirò uno, due... e al tre tu devi metterti qui. E tu
    in braccio a me. Attenti! Uno. due...  -  cominciò Pierre;  si fece un
    gran silenzio.   -  Tre!   -  e un entusiastico coro di voci infantili
    si levò dalla stanza.
    - Sono due! Sono due!  -  gridavano i bambini.
    Erano due calze che,  con un segreto noto a lei sola,  Anna  Makàrovna
    lavorava contemporaneamente sui ferri e che, quando erano finite, essa
    traeva con gesto solenne una dall'altra, in presenza dei bambini.


    CAPITOLO 14.

    Poco  dopo  i  bambini  vennero ad augurare la buona notte.  Baciarono
    tutti,   salutarono  e  uscirono  seguiti  dai  precettori   e   dalle
    governanti.  Rimase  il  solo  Desalles  con  il  suo allievo,  che il
    precettore invitò sottovoce a ritirarsi con gli altri.
    - "Non,  monsieur Desalles,  je demanderai à ma tante de rester"  [13.
    No, signor Desalles, chiederò a mia zia di restare]  -  rispose con lo
    stesso  tono  sommesso  Nikòlinka  Bolkonskij.    -    "Ma tante",  mi
    permettete di restare?   -  domandò il giovinetto,  avvicinandosi alla
    zia.  Il  suo  viso  esprimeva  preghiera,  emozione,  entusiasmo.  La
    contessa Màrija lo guardò e si volse a Pierre.
    - Quando siete qui voi, non si può più staccare...  -  gli disse.
    - "Je vous le ramènerai tout à l'heure,  monsieur Desalles;  bonsoir!"
    [14.  Ve lo riaccompagnerò tra poco,  signor Desalles.  Buonasera!]  -
    disse Pierre,  tendendo allo svizzero la mano;  poi,  con un  sorriso,
    guardò  Nikòlinka.   -  Non ci siamo ancora visti,  noi due...  Marie,
    come gli somiglia!  -  aggiunse, volgendosi alla contessa Màrija.
    - Somiglio a mio padre?   -  domandò il  ragazzo,  facendosi  rosso  e
    guardando  Pierre di sotto in su con gli occhi scintillanti e pieni di
    entusiasmo.  Pierre gli fece un  cenno  affermativo  con  la  testa  e
    continuò  il discorso interrotto a proposito dei bambini.  La contessa
    Màrija, tenendo il telaio sulle ginocchia, ricamava;  Natascia fissava
    suo  marito  senza  distogliere un attimo gli occhi da lui.  Nikolàj e
    Denissov si alzavano, si facevano dare la pipa,  fumavano e chiedevano
    altro tè a Sònja,  la quale se ne stava seduta in atteggiamento triste
    e caparbio davanti al  samovàr  e  interrogavano  Pierre.  Il  ragazzo
    ricciuto  dall'aria malaticcia e dagli occhi scintillanti sedeva in un
    angolo,  inosservato,  e volgeva verso Pierre la testolina che usciva,
    sul  collo  esile,  dai  risvolti  del  colletto;  di  tanto  in tanto
    trasaliva  e  mormorava  tra  sé  e  sé  qualche   parola,   che   era
    evidentemente  l'espressione  di  un  nuovo  e forte sentimento che lo
    turbava.
    La  conversazione  si  aggirava  su  quei  pettegolezzi  di  attualità
    relativi  agli  alti  gradi  del  governo,  nei quali la gente vede di
    solito la parte più  interessante  e  più  importante  della  politica
    interna. Denissov, malcontento del governo a causa dei suoi insuccessi
    di carriera, accoglieva con gioia il resoconto di tutte le sciocchezze
    che,  secondo lui,  si commettevano ora a Pietroburgo, ed esprimeva in
    termini bruschi i suoi commenti alle notizie portate da Pierre.
    - Una volta bisognava essere Tedeschi,  ora  bisogna  ballare  con  la
    Tatàrinova   (15)   e   con   "madame"   Krüdener   (16),   leggere...
    Eckhartshausen e gli altri della stessa cricca.  Oh,  ci  vorrebbe  di
    nuovo  il  nostro  bravo Buonaparte!  Ci penserebbe lui a far smettere
    tutte  queste  corbellerie...   Che  idea  assurda  affidare  a   quel
    soldataccio di Schwarz il reggimento Semënovskij! (17).
    Nikolàj,  sebbene  non  si accanisse come Denissov a veder tutto nero,
    giudicava anch'egli opportuno criticare il governo e reputava  che  la
    nomina di A a ministro, quella di B a generale governatore chissà dove
    e  che  l'imperatore  avesse  detto questo e quest'altro fossero tutti
    avvenimenti di  grande  importanza.  Credeva  doveroso  da  parte  sua
    interessarsene  e perciò interrogava Pierre.  E le domande di quei due
    interlocutori mantenevano  la  conversazione  sul  tono  consueto  dei
    pettegolezzi sulle alte sfere governative.
    Ma  Natascia,  che conosceva le idee e i punti di vista di suo marito,
    capiva che Pierre,  pur volendolo,  non poteva dare un  corso  diverso
    alla conversazione ed esprimere il pensiero che gli stava più a cuore,
    quello  per  cui era andato a Pietroburgo: per consultare il suo nuovo
    amico,  il principe Fëdor.  E cercò di  aiutarlo,  domandandogli  come
    erano andate le cose con il principe Fëdor.
    - A proposito di che?  -  chiese Nikolàj.
    - Sempre a proposito della stessa cosa  -  rispose Pierre, guardandosi
    attorno.    -   Tutti capiscono che le cose vanno tanto male che non è
    possibile lasciarle continuare così e che è dovere di tutti gli onesti
    opporvisi con ogni energia.
    - Ma  che  cosa  possono  fare  gli  onesti?    -    domandò  Nikolàj,
    aggrottando leggermente le sopracciglia.  -  Che cosa si può fare?
    -  Ma, per esempio...
    - Andiamo nello studio  -  propose Nikolàj.
    Natascia,  che  da  un  pezzo  aspettava che venissero a chiamarla per
    andare ad allattare il bambino, udì la voce della bambinaia e uscì per
    recarsi dal piccolo.  La contessa  Màrija  la  seguì.  Gli  uomini  si
    ritirarono  nello  studio  e  Nikolàj Bolkonskij,  senza essere notato
    dallo zio, li seguì e si mise a sedere nell'ombra,  presso la finestra
    accanto allo scrittoio.
    - Ebbene, che cosa farai?  -  domandò Denissov.
    - Le solite fantasie!  -  osservò Nikolàj.
    - Ecco...   -  cominciò Pierre senza sedersi,  mettendosi ogni tanto a
    passeggiare per la stanza  e  ogni  tanto  fermandosi,  balbettando  e
    facendo  rapidi  gesti  con  le mani mentre parlava.  - Ecco qual è la
    situazione a Pietroburgo...  L'imperatore non si interessa  di  nulla,
    tutto  dedito  com'è  al  misticismo    -  (Pierre ora non perdonava a
    nessuno il misticismo)  -  e non cerca altro che la calma,  calma  che
    gli possono dare soltanto gli uomini "sans foi ni loi" [18. senza fede
    e senza legge] come Magnitzkij, Arakceey e "tutti quanti"... (19), che
    colpiscono e soffocano senza pietà. Ammetterai, Nikolàj, che se tu non
    ti  occupassi  personalmente  dell'amministrazione  delle  tue terre e
    cercassi soltanto la  quiete,  quanto  più  il  tuo  intendente  fosse
    crudele  tanto  più  presto raggiungeresti il tuo scopo?   -  domandò,
    rivolto a Nikolàj.
    - Be', ma perché dici questo?
    - Perché...  perché tutto crolla.  Nei  tribunali  regna  l'imbroglio,
    nell'esercito  dominano  il  bastone,  i  passi di parata e le colonie
    penali;  si martirizza il  popolo,  si  soffoca  l'istruzione.  Chi  è
    giovane e onesto viene perseguitato!  Tutti vedono che non è possibile
    continuare così.  La corda è troppo tesa e inevitabilmente si spezzerà
    -  diceva Pierre,  come dicono sempre gli uomini che seguono le azioni
    di un qualsiasi governo, da quando esistono governi.  -  A Pietroburgo
    ho detto loro una cosa sola...
    - A chi?  -  domandò Denissov.
    - Sapete benissimo a chi,  via!   -   rispose  Pierre  guardandolo  di
    sottecchi,  con  aria  d'importanza;    -  al principe Fëdor e a tutti
    loro. Favorire la cultura e le opere di beneficenza è certo un bene...
    Lo scopo è ottimo; ma nelle attuali circostanze ci vuole altro!
    In quel momento Nikolàj si accorse della presenza del nipote.  Gli  si
    avvicinò con il viso accigliato.
    - Perché sei qui?
    - Che importa?  Lascialo  -  intervenne Pierre,  prendendo Nikolàj per
    un braccio e continuò:  -  Non basta,  ho detto  loro.  Ci  vuole  ben
    altro.  Mentre  voi  state  ad  aspettare  che la corda troppo tesa si
    spezzi,  mentre tutti aspettano una rivoluzione  inevitabile,  bisogna
    che il popolo,  mano nella mano, si tenga ben stretto per fronteggiare
    la catastrofe generale. Tutte le forze giovani vengono attirate laggiù
    e corrotte.  Uno viene attratto con le donne,  un altro con gli onori,
    un terzo con il denaro e tutti passano nell'altro campo. Uomini liberi
    e  indipendenti  come  voi  e  come  me  non ne restano più.  Io dico:
    allargate  il  cerchio  della  società;  "mot  d'ordre"  [20.   parola
    d'ordine] sia non solo la virtù, ma l'indipendenza e l'attività.
    Nikolàj, lasciato il nipote, aveva stizzosamente voltato una poltrona,
    vi si era seduto e, ascoltando Pierre, tossicchiava scontento e sempre
    più accigliato.
    -  Ma a che scopo questa attività?   -  domandò quasi gridando.   E in
    quali rapporti vi metterete con il governo?
    - In quali rapporti?  In rapporti  di  aiutanti.  La  società,  se  il
    governo lo permette,  può anche non essere segreta. Non soltanto non è
    ostile al governo, ma è una società di veri conservatori,  una società
    di  gentiluomini  nel  vero significato della parola.  Soltanto perché
    Pugacëv (21) non venga a sgozzare i miei  figli  e  i  tuoi  e  perché
    Arakceev  non  mi  mandi in una colonia militare penale,  soltanto per
    questo noi ci prendiamo per mano con l'unico scopo del bene  comune  e
    della comune salvezza.
    - Già, ma una società segreta e, di conseguenza, ostile e dannosa, può
    provocare del male.
    - Perché? Forse che il "Tugendbund" (22), che salvò l'Europa,  (allora
    non  si  osava  ancora  pensare  che  fosse  la Russia ad aver salvato
    l'Europa)    -    ha  causato  qualche  danno?   Il  "Tugendbund"   fu
    un'associazione di persone virtuose,  fu di amore, fu reciproco aiuto:
    fu ciò che Cristo predicava sulla croce...
    Natascia,  ritornata nella stanza nel bel mezzo  della  conversazione,
    guardava  il  marito  con  gioia.  Non  si  rallegrava di ciò che egli
    diceva;  non la interessava neppure poiché le pareva che  tutto  fosse
    straordinariamente semplice e di saperlo da un pezzo (e così le pareva
    perché conosceva la fonte da cui tutto ciò derivava,  ossia l'anima di
    Pierre); ma si rallegrava al vedere il marito pieno di entusiasmo e di
    vivacità.
    Con entusiasmo e gioia anche maggiori lo guardava,  dal suo angoletto,
    Nikòlinka, dimenticato da tutti, con il suo esile collo che usciva dai
    risvolti del colletto. Ogni parola di Pierre gli infiammava il cuore e
    con  un  moto  nervoso  delle  dita  spezzava,  senza avvedersene,  le
    ceralacche e le penne dello zio che gli capitavano a portata di mano.
    - Fu affatto diverso  da  quel  che  credi,  ecco  quello  che  fu  il
    "Tugendbund" tedesco, come quello che io propongo.
    -  Be',  mio  caro,  il  "Tugendbund"  si  addice a quei divoratori di
    salcicce,  ma io non lo capisco e non riesco nemmeno a pronunziarne il
    nome    -  risonò in quel momento la voce sonora e decisa di Denissov.
    -  Tutto è disgustoso e cattivo, d'accordo,  ma il "Tugendbund" non lo
    capisco e non mi piace...  Vada allora per il "bunt" (23),  questo sì.
    "Je suis votre homme!" [24. Sono dei vostri!].
    Pierre sorrise, Natascia scoppiò in una risata, ma Nikolàj si accigliò
    sempre di più e cominciò a dimostrare a Pierre che non era prevedibile
    alcuna rivoluzione e che tutto il pericolo di cui egli aveva  parlato,
    esisteva  soltanto  nella  sua  immaginazione.  Pierre  dimostrava  il
    contrario e poiché la sua intelligenza era più viva e  più  svelta  di
    quella di Nikolàj,  questi si sentiva a disagio.  Ciò lo irritò ancora
    di più perché nel suo intimo,  non per ragionamento ma per un qualcosa
    più  forte del ragionamento,  sentiva la indubbia verità della propria
    opinione.
    - Ecco ciò che ti dico   -    rispose  alzandosi,  posando  con  gesto
    nervoso  la  pipa in un angolo e infine gettandola via.   -  Non te lo
    posso però dimostrare.  Tu affermi che da noi  tutto  va  male  e  che
    scoppierà una rivoluzione. Io questo non lo vedo; ma tu dici anche che
    il  giuramento  è una cosa convenzionale e a questo io ti rispondo: tu
    sei il mio migliore amico,  lo  sai,  ma  se  costituite  una  società
    segreta voi vi mettereste contro il governo,  qualunque esso sia, e io
    so che il mio  dovere  è  di  obbedirgli.  E  se  adesso  Arakceev  mi
    ordinasse  di andare contro di voi con il mio squadrone e di prendervi
    a sciabolate,  non ci penserei su neppure un secondo e  andrei.  E  tu
    giudicami come vuoi.
    A queste parole seguì un silenzio imbarazzante.
    Natascia  fu  la  prima a prendere la parola per difendere il marito e
    dar contro il fratello. La sua difesa fu debole e non molto abile,  ma
    lo scopo venne raggiunto.  La conversazione riprese e non più con quel
    tono acerbo con cui Nikolàj aveva pronunziato le ultime parole.
    Quando tutti si alzarono per andare  a  cena,  Nikolàj  Bolkonskij  si
    avvicinò a Pierre, pallido, con gli occhi lucidi e scintillanti.
    -  Zio  Pierre...  voi...  non...  Se mio padre fosse vivo...  sarebbe
    d'accordo con voi?  -  gli domandò.
    Pierre comprese a un tratto quale lavorio complicato, profondo e tutto
    particolare  di  sentimenti  e  di  pensieri  doveva  essersi   svolto
    nell'anima di quel ragazzo durante la conversazione e ricordando tutto
    ciò  che  aveva detto,  deplorò in cuor suo che il fanciullo lo avesse
    udito. Tuttavia bisognava rispondergli.
    - Credo di sì  -  disse a malincuore, e uscì dalla stanza.
    Il fanciullo abbassò il capo e soltanto allora parve rendersi conto di
    ciò che aveva fatto sullo scrittoio. Arrossì e si avvicinò a Nikolàj.
    - Zio,  perdonami: ti  ho  combinato  questo  guaio  distrattamente  -
    disse, indicando le ceralacche e le penne spezzate.
    Nikolàj ebbe un gesto di contrarietà.
    -  Bene,  bene  -  rispose,  gettando sotto lo scrittoio i pezzetti di
    ceralacca e le penne. E trattenendo con uno sforzo evidente uno scatto
    di collera,  si allontanò dal fanciullo dicendo:  -  Qui,  del  resto,
    non saresti dovuto rimanere.


    CAPITOLO 19.

    Durante la cena non si parlò più di politica e di società segrete,  ma
    degli argomenti preferiti da  Nikolàj  e  intavolati  da  Denissov:  i
    ricordi  del  1812;  e  in  ciò  Pierre  si  dimostrò  particolarmente
    simpatico e divertente. I parenti si separarono perfettamente amici.
    Quando, dopo cena, Nikolàj, dopo essersi spogliato nello studio e aver
    dato all'amministratore che lo attendeva gli ordini  necessari,  entrò
    in  vestaglia  nella  camera  da letto,  trovò la moglie ancora seduta
    davanti allo scrittoio.
    - Che cosa stai scrivendo, Marie?  -  domandò Nikolàj.
    La contessa Màrija arrossì.  Temeva che  quanto  stava  scrivendo  non
    sarebbe stato compreso e approvato dal marito.
    Avrebbe voluto nascondergli quello che aveva scritto,  ma nello stesso
    tempo era contenta di essere  stata  sorpresa  e  costretta  perciò  a
    dirglielo.
    - E' un diario,  Nicolas  -  rispose, porgendogli un quaderno azzurro,
    le cui pagine erano coperte dalla sua grossa e decisa calligrafia.
    - Un diario?   -  ripeté Nikolàj con una sfumatura ironica nella voce,
    e prese il quaderno. Era scritto in francese.
    "4  dicembre.  Oggi  Andrjuscia  (il  figlio  maggiore)  dopo  essersi
    svegliato non voleva vestirsi, e "mademoiselle" Louise mi ha mandata a
    chiamare.  Il bimbo stava facendo un capriccio e si mostrava ostinato.
    Ho  provato  a  minacciarlo,  ma  egli  si intestardiva sempre di più.
    Allora,  assumendomi  ogni  responsabilità,  l'ho  lasciato  stare,  e
    insieme con la bambinaia sono andata a vestire gli altri bambini,  e a
    lui ho detto di non volergli più bene. Egli è rimasto per un bel pezzo
    in silenzio, come sorpreso;  poi,  con la sola camicina addosso,  si è
    precipitato verso di me, singhiozzando in modo tale che mi ci è voluto
    chissà quanto per calmarlo.  Era evidente che soffriva soprattutto per
    avermi dato un dispiacere;  poi quando,  la sera,  gli ho dato il  suo
    bigliettino,  mi  ha  baciata  e  ha ripreso a piangere in modo da far
    pena. Con lui occorre usare la tenerezza".
    - Che cos'è il bigliettino?  -  domandò Nikolàj.
    - Ho preso l'abitudine  di  dare  ogni  sera  ai  più  grandicelli  un
    bigliettino  su  cui  è  detto  come  si  sono  comportati  durante la
    giornata.
    Nikolàj guardò gli occhi  luminosi  che  lo  fissavano  e  continuò  a
    sfogliare il diario e a leggere. In esso vi era scritto tutto ciò che,
    nella  vita dei bambini,  la madre riteneva degno di nota,  sia perché
    esprimeva il loro  carattere,  sia  perché  dava  qualche  indicazione
    generale sul modo migliore per educarli.  Si trattava,  per lo più, di
    particolari di poco conto, ma tali non apparivano né alla madre, né al
    padre, che leggeva ora il diario per la prima volta.
    Il 5 dicembre vi era scritto:
    "Mìtja ha fatto il birichino a tavola.  Papà ha ordinato di non dargli
    il dolce. Così è stato fatto, ma con quanta avidità e quanta pena egli
    guardava gli altri mentre lo mangiavano! Ritengo che il castigarli con
    la  privazione del dolce serva soltanto a sviluppare la loro golosità.
    Voglio parlarne a Nicolas".
    Nikolàj posò il quaderno e guardò la moglie.  Gli  occhi  luminosi  lo
    fissavano  interrogativamente: avrebbe egli approvato il diario oppure
    no?  Non vi era dubbio che Nikolàj,  non solo  approvava,  ma  era  in
    ammirazione dinanzi a sua moglie.
    "Forse  non  sarebbe necessario tenere un diario in modo così pedante,
    forse non sarebbe neppur  necessario  tenerlo",  pensava  Nikolàj,  ma
    quella  continua,  indefessa  tensione spirituale,  che aveva per solo
    scopo il bene morale dei figli,  lo entusiasmava.  Se  Nikolàj  avesse
    potuto  avere  la consapevolezza dei suoi sentimenti,  si sarebbe reso
    conto che la base fondamentale su cui poggiava il suo  saldo,  tenero,
    orgoglioso  amore  per  la moglie era sempre quello di stupore dinanzi
    alla spiritualità di lei,  dinanzi a quell'elevato mondo  morale,  per
    lui quasi irraggiungibile nel quale ella sempre viveva.
    Egli  era orgoglioso dell'intelligenza di lei e si rendeva conto della
    propria inferiorità di fronte alla moglie nel mondo dello  spirito,  e
    tanto  più  si  rallegrava al pensiero che con una simile anima quella
    donna non soltanto gli apparteneva, ma faceva parte di lui.
    - Approvo,  approvo in pieno,  mia cara  -  disse con aria  grave.  E,
    dopo un breve silenzio, aggiunse:  -  Oggi io mi sono comportato male.
    Tu non eri nello studio.  Stavamo discutendo,  Pierre e io,  e mi sono
    irritato,  ma non è possibile fare altrimenti.  E' proprio un bambino.
    Non  so che sarebbe di lui,  se Natascia non lo tenesse a freno.  Vuoi
    sapere perché è andato a Pietroburgo? Stanno organizzando là...
    - Sì,  lo so  -  rispose la contessa Màrija.   -   Me  ne  ha  parlato
    Natascia.
    -  Allora  tu sai  -  proseguì Nikolàj,  infiammandosi al solo ricordo
    della discussione  -  che egli vuole persuadermi che il dovere di ogni
    uomo  onesto  consiste  nell'andare  contro  il  governo,   mentre  il
    giuramento e il dovere... Mi dispiace che tu non fossi presente. Tutti
    mi hanno dato addosso, anche Denissov, anche Natascia... Natascia è di
    una comicità straordinaria.  Lei lo tiene, come si suol dire, sotto la
    sua pantofola,  ma non appena comincia a ragionare non  pronunzia  più
    una  parola  che  sia sua: parla con le parole del marito  -  aggiunse
    Nikolàj,  abbandonandosi a quell'invincibile impulso che ci  spinge  a
    giudicare anche le persone che ci sono più vicine e più care.  Nikolàj
    dimenticava che, parola per parola, ciò che egli diceva di Natascia si
    poteva ripetere di lui nei riguardi di sua moglie.
    - Sì, l'ho notato  -  rispose la contessa Màrija.
    - Quando gli ho detto che il dovere e il giuramento sono al  di  sopra
    di  tutto,  egli ha cominciato a dimostrarmi non so che cosa.  Peccato
    proprio che tu non ci fossi. Che avresti detto?
    - Secondo me, hai perfettamente ragione.  L'ho detto anche a Natascia.
    Pierre  afferma  che  tutti soffrono,  che tutti vengono perseguitati,
    corrotti,  e che è nostro dovere aiutare il prossimo.  Ha ragione,  si
    capisce,    -  disse la contessa Màrija - ma dimentica che noi abbiamo
    doveri più immediati,  che Iddio stesso ci  ha  indicato,  e  che  noi
    possiamo  mettere  a  repentaglio  la  nostra vita,  ma non quella dei
    nostri figli.
    - Ecco,  è proprio quello che gli ho detto io  -  affermò Nikolàj,  al
    quale pareva veramente di aver detto la stessa cosa.-  Ma quelli hanno
    le  loro  idee;  insistono  nel  dire che l'amore per il prossimo e il
    cristianesimo...  E tutto  questo  davanti  a  Nikòlinka  che  si  era
    introdotto  nel mio studio e che ha rotto tutto quello che c'era sullo
    scrittoio.
    - Oh, sai, Nicolas,  il pensiero di Nikòlinka mi tormenta assai spesso
    -  disse la contessa Màrija.   -  E' un ragazzo così fuori del comune.
    Ho sempre il timore di trascurarlo per amore  dei  miei.  Noi  abbiamo
    tutti dei figli,  abbiamo dei parenti;  lui non ha nessuno.  E' sempre
    solo con i suoi pensieri.
    - Ma no,  mi pare che tu non abbia  proprio  nulla  da  rimproverarti.
    Tutto ciò che può fare la più affettuosa delle madri, tu l'hai fatto e
    continui a fare per lui.  E io,  si capisce,  ne sono contento.  E' un
    bravo, bravissimo ragazzo. Oggi ascoltava Pierre,  e pareva in estasi.
    E poi,  figurati, quando ci siamo alzati per andare a cena... guardo e
    vedo che aveva ridotto in pezzi tutto quanto c'era sullo scrittoio. Me
    l'ha detto subito,  però...  Non è mai accaduto che  abbia  detto  una
    bugia.  E'  un  caro,  caro ragazzo!   -  ripeté Nikolàj al quale,  in
    fondo,  Nikòlinka non piaceva,  ma che aveva sempre  il  desiderio  di
    riconoscere bravo.
    -  E  tuttavia  non  sono  quello  che  sarebbe sua madre  -  disse la
    contessa Màrija.    -   Sento che non  è  la  stessa  cosa,  e  questo
    pensiero  mi  tormenta.  E'  un ragazzo straordinario,  ma io ho tanta
    paura per lui. Gli farà bene avere compagnia.
    -  Ormai  è  questione  di  poco  tempo:  quest'estate  lo  porterò  a
    Pietroburgo    -    disse  Nikolàj.   -  Sì,  Pierre è sempre stato un
    sognatore  -  proseguì,  riferendosi alla discussione avvenuta nel suo
    studio e che,  evidentemente,  lo aveva agitato.   -  Ma,  infine, che
    importa a me di ciò che succede laggiù...  che Arakceev sia un poco di
    buono  e  tutto il resto...  Che me ne poteva importare quando mi sono
    sposato ed ero così carico di  debiti  che  per  poco  non  finivo  in
    prigione e avevo una madre che non riusciva a rendersene conto?  E poi
    tu, i bambini, gli affari.  Forse che me ne sto in ufficio dal mattino
    alla sera per mio divertimento?  No,  io so che devo lavorare per dare
    tranquillità a mia madre,  per sdebitarmi con te e non lasciare i miei
    figli in miseria come lo sono stato io.
    La  contessa  Màrija avrebbe voluto dirgli che l'uomo non vive di solo
    pane, che egli dava troppa importanza agli "affari", ma sapeva che non
    bisognava dirlo e che era inutile.  Gli prese una mano e gliela baciò.
    Egli  interpretò il gesto della moglie come un segno di approvazione e
    di  conferma  alle  sue  idee  e,   dopo   essere   rimasto   un   po'
    soprappensiero, proseguì ad alta voce a esprimere le sue opinioni.
    - Tu sai,  Marie,   -  disse  -  che oggi è venuto Iljà Mitrofanyc'  -
    (era un suo amministratore)  -    dalla  tenuta  di  Tambòv  e  mi  ha
    informato  che per il bosco sarebbero pronti a dare ottantamila rubli.
    -  Nikolàj,  tutto animato,  prese  a  parlare  della  possibilità  di
    riscattare entro breve tempo Otràdnoe.  -  Ancora dieci anni di vita e
    lascerò i miei figli in un'ottima situazione.
    La  contessa  Màrija  ascoltava  il marito e comprendeva tutto ciò che
    egli le andava dicendo.  Sapeva che quando egli pensava così  ad  alta
    voce,  talvolta  le  domandava che cosa avesse detto e si indispettiva
    quando si  accorgeva  che  lei  intanto  pensava  ad  altro.  Ma,  per
    ascoltarlo,  faceva grandi sforzi perché quello che egli diceva non le
    interessava affatto. Lo guardava e non pensava ad altro,  però sentiva
    altro.  Sentiva  un  amore  tenero e sottomesso per quell'uomo che non
    avrebbe mai compreso ciò che ella comprendeva e le  pareva  di  amarlo
    ancora  di più proprio per questo,  di un amore che aveva sfumature di
    appassionata  tenerezza.  Oltre  questo  sentimento  che  la  dominava
    completamente  e  le  impediva  di penetrare a fondo i particolari dei
    progetti del marito,  balenavano nella mente di lei pensieri  che  non
    avevano nulla di comune con quello che egli le stava dicendo.  Pensava
    al nipote (quanto le aveva detto il marito a  proposito  dell'emozione
    del ragazzo all'udire le parole di Pierre l'aveva molto colpita),  e i
    vari  tratti  del  suo  carattere  sensibile  e   affettuoso   le   si
    affacciavano  alla  mente;  e,  pensando  al nipote,  pensava anche ai
    propri figli.  Non faceva confronti tra di loro,  ma tra i  sentimenti
    che  provava  per  il  nipote  e quelli che provava per i figli,  e si
    rendeva conto,  con tristezza,  che  nel  suo  affetto  per  Nikòlinka
    qualcosa mancava.
    Talvolta  le  pareva  che quella differenza derivasse dall'età;  ma si
    sentiva colpevole di fronte a Nikòlinka  e  si  riprometteva  di  fare
    l'impossibile: di amare cioè in questa vita suo marito,  i suoi figli,
    Nikòlinka e tutti i parenti come Cristo aveva amato l'umanità. L'anima
    della contessa Màrija aspirava sempre alla perfezione eterna e  perciò
    non  poteva  mai  essere  soddisfatta.  Sul viso apparve l'espressione
    grave di un'intensa e tacita sofferenza spirituale, di un'anima stanca
    del peso del proprio corpo. Nikolàj la guardò.
    "Mio Dio!  Che cosa sarebbe di noi se essa  morisse!  Quando  le  vedo
    quell'espressione   del   viso   mi   pare  sempre  che  questo  debba
    succedere!",  pensò.  E,  davanti alle icone,  si mise a  recitare  le
    preghiere della sera.


    CAPITOLO 16.

    Anche Natascia, rimasta sola con il marito, prese a discorrere con lui
    come  si discorre soltanto tra marito e moglie,  cioè comprendendosi e
    comunicandosi con  straordinaria  rapidità  e  chiarezza  i  reciproci
    pensieri  per una via contraria a tutte le regole della logica,  senza
    l'intervento di giudizi,  di deduzioni,  di sillogismi e in modo tutto
    particolare.  Natascia  era  talmente  abituata  a parlare così con il
    marito che il segno più certo che qualcosa tra loro due non andava era
    l'udire Pierre esporre i propri pensieri in logica successione. Quando
    egli cominciava a fare dimostrazioni,  a parlare con ragionevolezza  e
    con  calma  e  quando essa stessa,  seguendo l'esempio di lui,  faceva
    altrettanto, sapeva a priori che la conversazione sarebbe finita in un
    litigio.
    Dal momento in cui  erano  rimasti  soli  e  Natascia  con  gli  occhi
    spalancati  e  luminosi di felicità gli si era avvicinata pian piano e
    tutto a un tratto, afferrandogli il capo,  se lo era stretto al petto,
    dicendo: "Ora sei mio,  tutto,  tutto mio e non te ne andrai più!", da
    quel momento aveva avuto inizio quel colloquio,  contrario a tutte  le
    leggi  della  logica,  giacché  parlavano  nello  stesso tempo di cose
    assolutamente diverse.  Questa molteplicità contemporanea di argomenti
    non solo non impediva la chiarezza della comprensione,  ma dimostrava,
    anzi,  con assoluta certezza che tra i due coniugi esisteva  un'intesa
    perfetta.
    Come in un sogno tutto appare inverosimile, assurdo e contraddittorio,
    tranne  il  sentimento  che  dirige  il sogno,  così in quel colloquio
    contrario a tutte le  leggi  del  ragionamento,  non  erano  chiare  e
    coerenti le parole, ma soltanto il sentimento che le guidava.
    Natascia  descriveva  a Pierre il modo di vivere di suo fratello,  gli
    diceva quanto ella avesse sofferto nel dover vivere  lontana  da  lui,
    suo  marito,  come  si fosse affezionata sempre di più a Màrija e come
    fosse sotto tutti i punti di vista  migliore  di  lei.  Così  dicendo,
    Natascia  riconosceva sinceramente la superiorità di Màrija,  ma nello
    stesso tempo, parlandone, esigeva che Pierre preferisse lei a Màrija e
    a tutte le altre donne e che adesso, dopo essere stato a Pietroburgo e
    averne viste molte, glielo confermasse.
    Pierre, rispondendo alle parole di Natascia, le disse quanto gli fosse
    riuscito insopportabile frequentare le serate  e  i  pranzi  ai  quali
    partecipavano le signore.
    - Ho proprio disimparato a discorrere con le signore  -  disse Pierre.
    -    Semplicemente  mi annoia.  E poi,  soprattutto,  ero sempre tanto
    occupato...
    Natascia lo fissò e poi riprese:
    - Màrija è una donna veramente ammirevole!  E come  sa  comprendere  i
    bimbi...  sembra che legga nella loro anima. Ieri per esempio, Mìtenka
    si è messo a fare i capricci...
    - Come somiglia a suo padre!  -  la interruppe Pierre.
    Natascia capì il motivo di quell'osservazione  sulla  somiglianza  tra
    Mìtenka e Nikolàj; gli era sgradevole il ricordo della discussione con
    il cognato e desiderava conoscere l'opinione di Natascia.
    - Nikolàj ha questa debolezza: non accetta a nessun costo una cosa che
    non  sia  ammessa  da  tutti...  Ma io capisco che a te sta a cuore di
    "ouvrir une carrière" [25. aprire un nuovo campo di azione]  -  disse,
    ripetendo le parole già dette da Pierre.
    - No,  devi piuttosto dire che per Nikolàj i pensieri e i ragionamenti
    sono un divertimento,  quasi un modo di passare il tempo. Per esempio,
    adesso si sta formando una biblioteca e si è imposto  come  regola  di
    non  acquistare  un  libro  nuovo senza avere finito di leggere quello
    comperato per ultimo,  Sismondi  (26),  Rousseau,  Montesquieu...    -
    aggiunse  Pierre con un sorriso.   -  Tu sai come io gli voglio...   -
    disse  per  mitigare  le  sue  parole,   ma  Natascia  lo  interruppe,
    facendogli sentire che non era necessario.
    - Così tu credi che per lui i pensieri non siano che passatempi?
    - Sì,  per me invece,  è passatempo il resto.  A Pietroburgo,  durante
    tutto il periodo in cui sono rimasto là,  vedevo tutto come in  sogno.
    Quando sono preoccupato da un'idea, tutto il resto è un divertimento.
    -  Che peccato che io non abbia visto come ti hanno accolto i bambini!
    -  esclamò Natascia.   -   Chi  è  stato  più  contento?  Liza,  senza
    dubbio...
    -  Sì    -    disse  Pierre e riprese il discorso che lo interessava.-
    Nikolàj dice che noi non dobbiamo pensare,  ma io non posso.  A  parte
    poi  il  fatto che a Pietroburgo ho avuto l'impressione (a te lo posso
    dire) che senza di me tutto andasse a  rotoli,  che  ciascuno  tirasse
    l'acqua al suo mulino, sono riuscito a mettere d'accordo tutti quanti.
    E  poi la mia idea è tanto semplice e chiara...  Non dico che si debba
    fare opposizione a questo e a quello.  Possiamo  sbagliare.  Ma  dico:
    tutti coloro che amano il bene,  si prendano per mano,  e non si abbia
    che una sola bandiera: la virtù attiva. Il principe Sergéj è una brava
    persona ed è un uomo intelligente.
    Natascia non dubitava che l'idea di Pierre fosse una grande  idea,  ma
    una cosa la preoccupava: che egli fosse suo marito.
    "Possibile  che  un  uomo  tanto  importante  e  tanto necessario alla
    società sia mio marito? Come può essere?".  Avrebbe voluto esprimergli
    questo  dubbio.  "Chi  sono  coloro  che  possono decidere se egli sia
    realmente il più intelligente di tutti?",  si domandava.  E  rievocava
    tutte  le  persone  di cui Pierre aveva maggior stima.  Di nessuno,  a
    giudicare dai discorsi di lui, aveva maggior stima di quanta ne avesse
    per Platòn Karataev.
    - Sai chi mi viene in mente?    -    domandò  Natascia.    -    Platòn
    Karataev. Che cosa ne penserebbe? Ti approverebbe?
    Pierre non rimase sorpreso dalla domanda della moglie.  Aveva compreso
    il succedersi dei pensieri di Natascia.
    - Platòn Karataev?   -  ripeté,  e rimase soprappensiero.  Sforzandosi
    sinceramente  di  immaginare  quale  giudizio Karataev avrebbe dato su
    quell'argomento.  -  Non avrebbe capito, ma... forse sì.
    -  Ti  amo  terribilmente!    -    esclamò  improvvisamente  Natascia.
    Terribilmente!
    - No,  non approverebbe  -  dichiarò Pierre,  dopo aver riflettuto.  -
    Quello che approverebbe è la nostra vita familiare.  Desiderava  tanto
    veder  dappertutto  la  felicità,   la  calma,  la  tranquillità;  gli
    mostrerei  con  orgoglio  la   nostra   famiglia.   Tu   parli   della
    separazione...  Ebbene,  non  potrai  mai  immaginare quale sentimento
    particolare io provi per te dopo una separazione.
    - Eccoci da capo...  -  cominciò Natascia.
    - No, non è questo. Io non smetto mai di amarti. Non sarebbe possibile
    amare di più. Ma questa è una cosa speciale... Sì... - Ma non completò
    la frase perché i loro sguardi, incontrandosi, dissero il resto.
    - Che sciocchezza,   -  osservò a un tratto Natascia  -  dire  che  la
    luna  di  miele  è  il  periodo  più  felice dei primi tempi.  L'epoca
    migliore è invece adesso.  Basterebbe  che  tu  non  viaggiassi...  Ti
    ricordi come litigavamo? E la colpa era sempre mia, sempre mia. Non so
    neppur più per quale motivo...
    - Sempre il solito  -  rispose Pierre, sorridendo.  -  La gelosia...
    - Non dir questo,  non lo posso sopportare  -  esclamò Natascia. E una
    luce fredda e cattiva le si accese negli occhi.   -  L'hai veduta?   -
    aggiunse, dopo un breve silenzio.
    - No, e anche se l'avessi veduta, non l'avrei riconosciuta.
    Tacquero entrambi.
    - Ah,  sai?  Quando tu parlavi nello studio,  io ti guardavo  -  disse
    Natascia, cercando evidentemente di scacciare la nube che si profilava
    all'orizzonte.  -  Be', tu e il ragazzo vi assomigliate come due gocce
    d'acqua  -  (Ella chiamava così il bambino).   -  E' ora che  vada  da
    lui... ma che peccato dover andar via!
    Tacquero per alcuni secondi. Poi a un tratto, nello stesso momento, si
    voltarono  l'uno  verso  l'altra  e  ripresero  a  parlare: Pierre con
    trasporto e soddisfazione, Natascia con un sorriso calmo e felice.  Si
    interruppero, cedendosi a vicenda la parola.
    - No, che cosa volevi dire? Parla, parla...
    - Parla tu,  io dicevo così...  soltanto delle sciocchezze  -  osservò
    Natascia. Pierre continuò quello che voleva dire. Era il seguito delle
    sue considerazioni sul successo ottenuto a Pietroburgo.  Gli pareva in
    quel  momento di essere chiamato a dare una nuova direttiva a tutta la
    società russa e a tutto il mondo.
    - Volevo soltanto dire che tutte le idee che hanno grandi  conseguenze
    sono sempre molto semplici.  Tutto il mio pensiero consiste in questo:
    se gli uomini disonesti sono legati tra di loro  e  costituiscono  una
    forza,  bisogna che gli uomini onesti facciano altrettanto. Idea molto
    semplice, come vedi...
    - Sì.
    - E tu, che cosa volevi dire?
    - Nulla, sciocchezze...
      -  Non importa, parla lo stesso.
    - Ma no...  sciocchezze  -    ripeté  Natascia,  con  un  sorriso  più
    luminoso e più raggiante.   -  Volevo soltanto parlarti di Pétja: oggi
    la bambinaia mi si è avvicinata per prendermelo dalle braccia e lui si
    è messo a ridere,  ha chiuso gli occhi e si  è  stretto  a  me.  Forse
    credeva di nascondersi...  E' straordinariamente grazioso. Ecco, sento
    che strilla... Addio, dunque!  -  E uscì dalla stanza.

    Frattanto  da  basso,  nella  camera  da  letto  dell'appartamento  di
    Nikòlinka Bolkonskij ardeva,  come sempre,  la lampadina da notte. (Il
    ragazzo aveva paura del buio e non si riusciva a  guarirlo  da  quella
    paura).  Desalles  dormiva su quattro guanciali,  e il suo naso romano
    russava con ritmo regolare.  Nikòlinka,  che si era  appena  svegliato
    tutto  madido  di  sudore freddo,  si era seduto sul letto e,  con gli
    occhi spalancati,  guardava fisso davanti a sé.  Un sogno terrificante
    lo aveva destato.  Nel sogno si era veduto con Pierre,  ambedue con un
    elmo in testa,  come quelli  disegnati  nelle  illustrazioni  del  suo
    Plutarco (27). Lui e lo zio Pierre marciavano alla testa di un immenso
    esercito;  questo  esercito  era fatto di tante linee oblique bianche,
    che riempivano l'aria come  quei  fili  di  ragnatele  che  si  vedono
    oscillare  al vento di autunno e che Desalles chiamava "les fils de la
    Vierge" (28.  i figli della Madonna].  Davanti a tutti era la  Gloria,
    fatta  anch'essa  di  quei fili,  ma più compatti.  Nikòlinka e Pierre
    correvano velocemente, leggeri e gioiosi verso la meta.  A un tratto i
    fili  che  li  movevano  avevano  cominciato  ad  assottigliarsi  e ad
    aggrovigliarsi,  essi furono colti da un senso  di  angoscia.  Lo  zio
    Nikolàj  Ilìc'  si rizzava davanti a loro in un atteggiamento severo e
    minaccioso.
    - Siete voi  che  avete  fatto  questo?    -    diceva,  indicando  le
    ceralacche e le penne spezzate.   -  Io vi amavo, ma, Arakceev me l'ha
    ordinato, ucciderò il primo che farà un passo avanti.  -  Nikòlinka si
    era voltato verso Pierre,  ma Pierre non c'era  più.  Pierre  era  suo
    padre, il principe Andréj, e suo padre non aveva forma né viso, ma era
    lui  e  nel vederlo,  Nikòlinka aveva sentito tutta la debolezza che è
    nell'amore: si era sentito esile, fluido, senza forze e senza ossa. Il
    padre lo accarezzava e lo compassionava.  Ma lo zio Nikolaj  Ilìc'  si
    avvicinava  sempre  di  più.  Il  ragazzo,  vinto dal terrore,  si era
    svegliato.
    "Mio padre",  pensava,  "mio padre (benché  in  casa  vi  fossero  due
    somigliantissimi  ritratti  del  principe Andréj,  Nikòlinka non se lo
    raffigurava  mai  in  forma  umana),   mio  padre  era  con  me  e  mi
    accarezzava. Mi approvava e approvava lo zio Pierre. Io farò qualsiasi
    cosa mi dirà di fare. Muzio Scevola (29) si fece bruciare una mano. Ma
    perché nella vita non potrei fare la stessa cosa? Lo so: essi vogliono
    che  io  studi,  e  io studierò.  Ma un giorno o l'altro avrò finito e
    allora lo potrò fare.  Una sola cosa chiedo a Dio: che accada a me ciò
    che è accaduto agli eroi di Plutarco,  e io faro come loro.  Meglio di
    loro.  Tutti lo sapranno,  tutti mi  ameranno  e  mi  ammireranno".  E
    Nikolàj  sentì  a  un  tratto  i singhiozzi che gli facevano groppo in
    gola, e si mise a piangere.
    - "Etes-vous indisposé?" [30.  Siete indisposto]  -  si udì la voce di
    Desalles.
    -  No  -  rispose Nikòlinka,  e si lasciò ricadere sul guanciale.  "E'
    buono e caro,  e io gli voglio bene",  pensò di Desalles.  "E  lo  zio
    Pierre?  Oh,  che uomo meraviglioso!  E mio padre?  Papà! Papà! Sì, io
    farò qualche cosa di cui persino "lui" sarebbe soddisfatto".


    NOTE.

    N.  1.  Fozio al  secolo  Pëtr  Spasskij  (1792-1838),  archimandrita,
    ispiratore della politica reazionaria dell'imperatore Alessandro.
    N.   2.  Friedrich  Wilhelm  Schelling  (1775-1854),  famoso  filosofo
    romantico  tedesco,  autore  di  un  sistema  idealistico  soggettivo.
    Insegnò  successivamente a Jena,  a Wurtzburg e a Berlino.  Durante il
    periodo cosiddetto di "reazione" in Russia si ebbe una lotta contro le
    discipline di insegnamento nelle scuole e specialmente  contro  quelle
    filosofiche dell'università. La filosofia non aveva mai avuto, né ebbe
    più  tardi,  vita  facile in Russia.  Ma in questo periodo non si fece
    distinzione tra questa e quella corrente filosofica,  ma si perseguitò
    la filosofia in quanto tale, da quella francese a quella tedesca e, in
    specie,  quella  di  Schelling,  con  il  pretesto che essa riusciva a
    camuffare dottrine in sé e per sé sovversive e  pericolose.  Cosa,  in
    sostanza,  abbastanza vera sebbene,  a causa delle misure restrittive,
    il camuffamento avvenisse in altra forma,  in quanto che,  proprio nel
    momento  in  cui si sviluppava l'offensiva della reazione mistica,  la
    filosofia di Schelling si insegnava  liberamente  a  Pietroburgo  e  a
    Mosca sotto il nome dl fisica,  di agronomia,  e la stessa generazione
    del libero pensiero cercava di edificare,  sulla base della metafisica
    romantica,  una filosofia nazionalista,  mistica,  patriottica, quella
    cioè  degli  slavofili  che   non   sarebbe   dovuta   dispiacere   ai
    rappresentanti del potere.
    N. 3. Johann Gottlieb Fichte (1762-1814), filosofo tedesco, maestro di
    Schelling. Il suo sistema è un idealismo trascendentale, in cui l'"io"
    è principio di ogni cosa e la sola realtà assoluta. Fu autore di molte
    opere  tra cui: "Discorsi alla nazione tedesca",  che infiammarono gli
    animi dei suoi connazionali alla resistenza contro i Francesi.
    N.  4.  Francois René de Chateaubriand (1768-1848),  celebre scrittore
    francese,  padre  del  romanticismo.  Le sue opere principali,  che si
    distinguono per lo  stile  eloquente,  la  ricca  immaginazione  e  la
    profonda psicologia sono: "Il genio del Cristianesimo" (pubblicato nel
    1802,  anno  del  concordato  tra  Napoleone  e  la Chiesa),  "Atala",
    "Memorie d'oltretomba".  Fu console di Civitavecchia;  poi,  sotto  la
    Restaurazione ministro degli esteri.
    N.  5. Aleksàndr Nikolàevic' Golicyn (confronta Libro 1, Parte 1, nota
    42) fu nel 1805 nominato dallo zar procuratore del Santo Sinodo;  indi
    nel   1816   ministro  della  istruzione  e  degli  affari  spirituali
    dell'imperatore.   Da  volterriano  che  era  inclinò  al  misticismo,
    proponendosi di cristianizzare la cultura laica.  A questo scopo fondò
    a Pietroburgo nel 1812 la Società Biblica,  che mirava alla diffusione
    delle  Sacre Scritture.  Uomo di principi umanitari,  fu circondato da
    impiegati che nel nuovo orientamento generale videro la possibilità di
    perseguitare tutto quanto apparisse ai loro occhi  "libero  pensiero".
    Furono  perseguitate  le  nuove  università  per  il  timore  che esse
    potessero inoculare nella gioventù "il sottile  veleno  per  i  poteri
    legittimi";  furono modificati gli statuti delle società scientifiche,
    e la censura si  fece  sempre  più  severa.  Il  principio  del  nuovo
    ministro  che  doveva  "porre  alla  base  della  cultura la devozione
    cristiana"  avrebbe  potuto  ottenere  buoni  risultati,   ma  la  sua
    applicazione,  affidata  a gente rozza e ignorante,  ottenne alla fine
    l'effetto contrario,  diffondendo l'ipocrisia e la bigotteria.  E finì
    con  il  cadere  vittima  del  nuovo  orientamento  lo stesso principe
    Golicyn.
    N. 6. Salmo 115, 1. Sono le parole incise sulla medaglia commemorativa
    della guerra del 1812.  (Non a noi,  Signore,  non a noi,  anzi al Tuo
    nome da' gloria, per la Tua benignità e verità).
    N.  7.  Gruppo  marmoreo  assai celebre,  opera del rodiota Agesandro,
    raffigura Laocoonte e i suoi figli soffocati dai serpenti di Apollo.
    N. 8. Vangelo di san Matteo, 35, 29.
    N. 10. "Malvina" è il titolo di un romanzo di madame Cottin.
    N. 11. Ricordati che devi morire.
    N. 12. Società Biblica: fondata da A. N. Golicyn.
    N.  15.  Katerina Filìppovna Tatàrinova,  nata Bukshevden (1783-1856),
    convertitasi  dalla religione protestante alla fede ortodossa,  fu una
    strana   figura   di   esaltata   che   godette    della    protezione
    dell'imperatore.  Riuscì  a  raccogliere  attorno  a  sé numerosissimi
    aderenti o "Fratelli in Cristo" secondo il nome  che  essi  stessi  si
    diedero.  Fu  il  momento  in cui in Russia cominciarono a far la loro
    apparizione numerosi "profeti" tra cui il famoso Fëdor il  quale,  per
    intercessione  del  principe  Golicyn,  procuratore del Santo Sinodo e
    seguace  della  Tatàrinova,   ebbe   addirittura   un   riconoscimento
    governativo per la sua predicazione. La Tatàrinova nel 1825 fondò alla
    periferia di Mosca una colonia religiosa di dissidenti.  Ma alla morte
    dello zar Alessandro,  il successore Nicola Primo,  contrario ad  ogni
    forma  di  misticismo,  la  perseguitò,  fece  chiudere  la  colonia e
    costrinse la Tatàrinova a chiudersi in un convento.
    N.  16.  Varvara  Uljana  de  Vietinghoff  von  Krüdener  (1764-1824),
    divorziata dal barone prussiano von Krüdener, influì sulla tendenza al
    misticismo  dello zar Alessandro e con probabilità l'idea di una Santa
    Alleanza tra i sovrani di Europa,  onde governare paternamente i  loro
    popoli, venne all'imperatore proprio dalla signora von Krüdener.
    N. 17. Il famoso reggimento della Guardia Semënovskij (confronta Libro
    1,  Parte  1,  nota  71)  insorse nel 1820.  L'insurrezione fu causata
    dall'istigazione degli intellettuali radicali ma soprattutto dal fatto
    che  le  truppe  si  ribellarono  al  trattamento  disumano  di   quel
    "soldataccio",  il  colonnello  Fëdor  Efimovic'  Schwarz,  legato  ad
    Arakceev e ideatore delle famose colonie militari, fusione di economia
    agraria e di servizio militare, e noto per la sua durezza e crudeltà.
    N. 19. In italiano, nel testo.
    N. 21. Emiljàn Ivànovic' Pugacëv (1742-1775), avventuriero russo, capo
    della rivolta dei cosacchi e dei contadini contro Caterina Seconda. Si
    proclamò zar con il nome di Pietro Terzo.  Ma fu tradito,  catturato e
    giustiziato.
    N.  22.  "Tugendbund",  cioè  Lega  della virtù: associazione politica
    fondata a Königsberg nel 1808, che si era fissata lo scopo di liberare
    la Prussia dalla dominazione napoleonica e conduceva perciò un'intensa
    campagna nazionalistica.  Napoleone la soppresse  nel  1809,  ma  essa
    continuò la sua attività clandestinamente.
    N.  23. Gioco di parole tra il tedesco "Bund" (lega) e il russo "bunt"
    (rivolta).
    N.  26.  Léonard  de  Sismondi  (1773-1812),  storico  protestante  di
    Ginevra,  che  dimorò  a lungo a Pescia.  Tra le sue opere ricordiamo:
    "Storia delle repubbliche italiane del Medioevo"  e  "Letteratura  nel
    mezzodì dell'Europa".
    N.  27.  Storico  e  moralista  greco,  nato  a Cheronea nella Beozia,
    intorno al 50 e morto intorno al 125 dopo Cristo.  Soggiornò a lungo a
    Roma,  dove  aprì  una  scuola  di  filosofia  e  si ritiene sia stato
    precettore di Traiano.  Ritornato in patria,  fu dai suoi concittadini
    creato  arconte,  cioè  il  magistrato  più importante della città,  e
    sacerdote di Apollo.  Ci rimangono di lui  "Le  vite  parallele  degli
    uomini illustri di Grecia e di Roma".
    N.  29.  Caio  Muzio  Cordo Scevola: leggendario eroe romano del sesto
    secolo avanti Cristo che,  essendo Roma assediata dagli  Etruschi,  si
    introdusse  nel campo dei nemici per uccidere il loro re Porsenna;  ma
    invece del re ferì il  suo  segretario.  Arrestato  mentre  fuggiva  e
    condotto dinanzi al re,  per far vedere quanto poco i romani temessero
    la morte, stese volontariamente la destra su un braciere,  per punirla
    dell'errore commesso e tanto ve la lasciò sino a che non fu consumata.
    Porsenna,  meravigliato  di tanto ardire e valore,  lo rimandò libero.
    Dalla perdita della  mano  destra  ebbe  poi  il  cognome  di  Scevola
    (mancino).






    PARTE SECONDA.


    CAPITOLO 1.

    Argomento  della storia è la vita dei popoli e dell'umanità.  Cogliere
    con immediatezza e abbracciare con la parola,  descrivendo la vita non
    solo dell'umanità ma anche di un popolo solo, appare impossibile.
    Gli  storici  antichi  spesso  si  servirono di un medesimo,  semplice
    procedimento  per  afferrare  e  descrivere  la  vita  di  un   popolo
    apparentemente  inafferrabile.  Descrissero  l'attività  degli  uomini
    singoli  che  governarono  quel  popolo;   per  essi  questa  attività
    rappresentava l'attività stessa di tutto il popolo.
    Alle  domande:  in che modo quegli uomini singoli costrinsero i popoli
    ad agire secondo la loro volontà  e  da  che  cosa  tale  volontà  era
    guidata? Gli storici rispondevano, alla prima, con l'ammissione di una
    volontà  divina  che  sottometteva  i  popoli  alla volontà di un uomo
    eletto; alla seconda,  riconoscendo che la divinità stessa indirizzava
    la volontà dell'eletto verso il fine prestabilito.
    I  problemi  venivano  quindi  risolti  con  la  fede  in  una diretta
    partecipazione della divinità ai fatti degli uomini.
    Ma la nuova scienza della storia ha respinto l'una e l'altra risposta.
    Scartata,  dunque,  la credenza degli antichi nella  soggezione  degli
    uomini alla divinità e in un fine prestabilito verso il quale i popoli
    sarebbero  guidati,  la  nuova  scienza  della  storia  avrebbe dovuto
    studiare non già le manifestazioni del potere,  bensì le cause che  lo
    determinano.  Ma non l'ha fatto.  Rinnegati in teoria i punti di vista
    degli antichi storici, in pratica li segue.
    In luogo degli uomini ai quali la divinità ha assegnato  il  potere  e
    che  sarebbero  guidati  direttamente  dalla volontà di Dio,  la nuova
    storia ha posto o eroi dotati di straordinarie,  sovrumane facoltà,  o
    semplicemente   uomini  di  qualità  diversissime,   dai  monarchi  ai
    giornalisti,  e ne ha fatto dei condottieri di masse.  In luogo  delle
    antiche finalità dei popoli, gradite agli dèi, degli Ebrei, dei Greci,
    dei  Romani,  che  agli  antichi  si presentavano come le finalità del
    progresso del genere umano, la nuova storia ha posto i propri fini: il
    bene del popolo francese,  del popolo germanico,  del popolo inglese e
    nella  sua astrazione più alta,  il bene della civilizzazione di tutto
    il genere umano,  sotto la quale denominazione si vogliono  intendere,
    di  solito,  i  popoli  che  occupano l'angoletto nord-occidentale del
    grande continente.
    La nuova storia ha ripudiato le antiche credenze senza sostituirle con
    nuove teorie,  cosicché  la  logica  ha  costretto  gli  storici,  che
    apparentemente  avevano  rinnegato  l'autorità per diritto divino e il
    fato  degli  antichi,   a  percorrere  un'altra  via  per  giungere  a
    riconoscere: 1) che i popoli sono guidati da singoli individui; 2) che
    esiste  una  meta  prestabilita  verso  la  quale  muovono  i popoli e
    l'intero genere umano.
    In tutte le opere degli storici moderni,  da Gibbon (1) a Buckle  (2),
    nonostante  le  apparenti  discordanze e l'apparente novità delle loro
    vedute, ci sono come base questi due vecchi, inevitabili principi.
    In primo luogo,  lo storico descrive l'opera di individui singoli che,
    secondo  la  sua opinione,  guidarono il genere umano: uno ritiene che
    tali individui siano soltanto i monarchi,  i condottieri,  i ministri;
    un  altro,  ai  monarchi  aggiunge  gli  oratori,  gli  scienziati,  i
    riformatori,  i filosofi e i poeti.  In secondo luogo,  la  meta  alla
    quale tende il genere umano non è ignota allo storico: per uno, essa è
    costituita  dalla  grandezza dello stato romano,  francese o spagnolo;
    per un altro è costituita dalla libertà, dall'uguaglianza, da un certo
    tipo di civiltà nel piccolo cantuccio del mondo che si chiama Europa.
    Nell'anno 1789 scoppia a Parigi un  moto  insurrezionale;  cresce,  si
    diffonde  e  si  manifesta  con  un movimento di popoli da occidente a
    oriente; parecchie volte questo movimento si dirige verso oriente,  si
    scontra  con  un movimento contrario che va da est a ovest e raggiunge
    nel 1812 Mosca, il suo limite estremo;  con straordinaria simmetria si
    verifica   subito   un   movimento  contrario  da  est  a  ovest  che,
    precisamente come il primo, trascina dietro di sé i popoli dell'Europa
    centrale. Questo contromovimento raggiunge il punto dal quale partì il
    precedente moto da occidente ad oriente: Parigi. E qui si calma.
    Nel corso di questo ventennale lasso  di  tempo,  immense  distese  di
    campi  non  vengono  arate;   le  case  bruciano;  il  commercio  muta
    direzione;  milioni di  uomini  impoveriscono,  si  arricchiscono,  si
    trasferiscono,   e  milioni  di  cristiani,  che  predicano  la  legge
    dell'amore verso il prossimo, si uccidono a vicenda.
    Che cosa significa tutto questo? Perché è accaduto? Che cosa ha spinto
    questi uomini ad incendiare case e a massacrare i propri simili? Quali
    sono state la cause di tali avvenimenti?  Quale forza ha costretto  la
    gente  a  comportarsi  così?  Ecco  le spontanee,  ingenue e legittime
    domande che  l'uomo  si  pone,  imbattendosi  nei  monumenti  e  nelle
    tradizioni dello scorso periodo del movimento dei popoli.
    Per rispondere a queste domande,  noi ci rivolgiamo alla scienza della
    storia che ha come scopo la conoscenza dei popoli e del genere umano.
    Se  la  storia  avesse  conservato  gli  antichi   punti   di   vista,
    risponderebbe:  la  divinità,  per premio o per castigo al suo popolo,
    diede a Napoleone il potere e ne diresse la volontà per raggiungere la
    meta dalla divinità stessa stabilita. E la risposta sarebbe esauriente
    e chiara.  Si può credere o non credere all'importanza data da  Dio  a
    Napoleone: fatto si è che,  per chi vi credesse, in tutta la storia di
    quel tempo nulla vi sarebbe di incomprensibile e non potrebbe  sorgere
    contraddizione alcuna.
    Ma  la  nuova  scienza della storia non può rispondere così.  Essa non
    ammette la concezione degli antichi sulla partecipazione diretta della
    divinità nelle vicende  umane  e  perciò  è  costretta  a  dare  altre
    risposte.
    Ed  ecco  che  cosa  dice la storiografia moderna,  rispondendo a tali
    domande: Voi volete sapere che cosa significa questo movimento,  quali
    sono  le  cause  che  l'hanno prodotto e quale forza ha causato queste
    vicende? Ascoltate:
    "Luigi Quattordicesimo (3) era un uomo orgoglioso e presuntuoso;  ebbe
    la tale e la tale altra favorita,  il tale e il tal altro ministro,  e
    governò molto male la Francia. Anche i suoi eredi furono uomini deboli
    e anch'essi cattivi governanti del loro  paese.  Ed  ebbero  anch'essi
    questa e quella favorita,  questo e quel ministro.  A quell'epoca poi,
    taluni scrissero dei libri.  Alla  fine  del  diciottesimo  secolo  si
    riunirono a Parigi una ventina di persone che presero a dichiarare che
    tutti  gli uomini sono liberi e uguali.  Per questo movimento in tutta
    la Francia gli uomini cominciarono  ad  uccidersi  e  ad  affogarsi  a
    vicenda;  mandarono a morte il re e molti altri personaggi. Proprio in
    questo periodo si trovava in Francia un uomo di genio: Napoleone. Egli
    vinse tutti dovunque,  ossia uccise  molta  gente,  perché  era  molto
    geniale.  E andò anche a uccidere,  chissà mai perché, gli africani; e
    li uccise così bene,  dimostrando tanta astuzia e  tanta  intelligenza
    che,  rientrato in Francia,  ordinò a tutti di sottomettersi a lui.  E
    tutti gli  si  sottomisero.  Divenuto  imperatore,  andò  di  nuovo  a
    uccidere  altra  gente in Italia,  in Austria e in Russia.  E anche in
    questi paesi fece una bella strage.  Era allora imperatore  di  Russia
    Aleksàndr  Primo  il  quale  decise di ristabilire l'ordine in Europa;
    questo fu il motivo che lo spinse a combattere  contro  Napoleone.  Ma
    nel  1807 diventò improvvisamente suo amico;  nel 1811,  però,  i loro
    rapporti si fecero di nuovo ostili, e di nuovo cominciarono a uccidere
    molta gente.  Napoleone  condusse  in  Russia  seicentomila  uomini  e
    conquistò   Mosca,   ma   poi   improvvisamente  l'abbandonò;   allora
    l'imperatore Aleksàndr,  con l'aiuto e il  consiglio  di  Stein  e  di
    altri, coalizzò l'Europa per lanciarsi contro il distruttore della sua
    tranquillità.  Tutti  gli  alleati  di  Napoleone gli divennero subito
    nemici,  e gli eserciti coalizzati mossero contro Napoleone che  aveva
    riunito nuove forze.  Gli alleati lo sconfissero e, entrati in Parigi,
    lo costrinsero ad abdicare e lo  mandarono  nell'isola  d'Elba,  senza
    tuttavia  privarlo  del  titolo  di  imperatore e dimostrandogli molta
    deferenza,  sebbene cinque anni prima e poi un  anno  dopo,  tutti  lo
    considerassero  un  brigante  fuori  legge.  Cominciò allora a regnare
    Luigi Diciottesimo (4),  di cui sino allora i Francesi si erano  fatti
    beffe.  Napoleone  poi,  sciogliendosi  in  lacrime  davanti  alla sua
    vecchia Guardia, rinunziò al trono e andò in esilio. In seguito, abili
    uomini di stato e diplomatici  (in  modo  particolare  Talleyrand,  il
    quale  era  riuscito  prima degli altri ad assicurarsi il posto su una
    certa poltrona, il che allargò i confini della Francia),  si riunirono
    a Vienna,  dove, con le loro conversazioni, resero felici o infelici i
    popoli.  A un certo momento,  poco mancò che  diplomatici  e  monarchi
    litigassero;  essi  erano  ormai  pronti  a  ordinare di nuovo ai loro
    eserciti di uccidersi a vicenda,  ma in quel momento Napoleone ritornò
    in  Francia con un battaglione e i Francesi,  che lo odiavano,  gli si
    sottomisero tutti, immediatamente.  Ma i monarchi alleati si adirarono
    e  ripresero  a combattere contro i Francesi.  Il geniale Napoleone fu
    sconfitto e,  considerato un brigante,  fu trasportato  nell'isola  di
    Sant'Elena. Laggiù l'esiliato, lontano dalle persone care al suo cuore
    e  dalla  Francia  diletta,  morì su quello scoglio solitario di morte
    lenta, e trasmise ai posteri le sue grandi imprese.  In Europa si ebbe
    la  reazione  e  tutti  i  sovrani  ricominciarono  a opprimere i loro
    popoli".
    A torto qualcuno potrebbe pensare che questa sia una canzonatura,  una
    caricatura  delle  narrazioni storiche.  Questa è,  al contrario,  una
    formulazione molto attenuata  delle  risposte  contraddittorie  e  non
    rispondenti ai problemi posti,  che "tutte" le storie ci danno,  dalle
    opere dei memorialisti e degli storici dei  singoli  stati  sino  alle
    storie  universali  e  alle  storie  di  nuovo  genere:  quelle  della
    "civiltà".
    La stranezza e il lato comico di queste risposte  derivano  dal  fatto
    che  la  nuova  storia  è  simile a un uomo sordo che risponde a delle
    domande che nessuno gli rivolge.
    Se lo scopo della storia è la descrizione del cammino del genere umano
    e dei popoli,  il primo problema che necessita di una risposta,  senza
    la  quale tutto il resto rimane incomprensibile,  è questo: "Qual è la
    forza che muove i popoli?".  A questa domanda la nuova storia si dà da
    fare  per  rispondere,  e ci dice che Napoleone fu molto geniale o che
    Luigi Quattordicesimo  fu  molto  orgoglioso  o,  ancora,  che  alcuni
    scrittori pubblicarono allora certi libri.
    Tutto  ciò può essere,  e il genere umano è disposto a consentire,  ma
    non è quello che esso chiedeva. Tutto ciò potrebbe essere interessante
    se noi ammettessimo  un  potere  divino  esistente  per  se  stesso  e
    immutabile, che dirigesse i popoli servendosi dell'opera di Napoleone,
    dei vari Luigi e degli scrittori;  ma poiché questo non lo ammettiamo,
    dobbiamo dimostrare quale sia il legame  tra  questi  personaggi  e  i
    movimenti dei popoli.
    Se,  in  luogo del potere divino,  ammettiamo un'altra forza,  bisogna
    allora spiegare in che cosa questa nuova  forza  consista  giacché  in
    essa è racchiuso tutto l'interesse della storia.
    Pare  che  la  storia  supponga  che questa forza sia di per se stessa
    chiara e  comprensibile  a  tutti.  Ma,  nonostante  il  desiderio  di
    ammettere come nota questa forza nuova, chi legga molte opere storiche
    non potrà fare a meno di dubitare,  sia pure suo malgrado,  che questa
    nuova forza,  concepita in modo  diverso  dagli  stessi  storici,  sia
    perfettamente conosciuta da tutti.


    CAPITOLO 2.

    Quale forza muove i popoli?
    Gli  storici  biografi  e  gli storici dei singoli popoli concepiscono
    questa forza come il potere che essi  attribuiscono  agli  eroi  e  ai
    dominatori.  Secondo i loro scritti, gli avvenimenti si verificano per
    volontà di Napoleone, di Aleksàndr e, in genere, di quei personaggi di
    cui ogni storico descrive la vita.  Le risposte di un tal genere  date
    dagli  storici  alla  domanda  sulla  forza  che guida gli eventi sono
    soddisfacenti soltanto sino a  quando  esiste  uno  storico  per  ogni
    avvenimento. Ma non appena storici di diverse nazionalità e di diversi
    punti  di  vista  trattano  il medesimo avvenimento,  le loro risposte
    perdono qualsiasi senso,  giacché quella  tal  forza  è  concepita  da
    ciascuno non solo in modo diverso,  ma spesso addirittura opposto. Uno
    storico afferma che un dato avvenimento si verificò per la potenza  di
    Napoleone; un secondo lo attribuisce alla forza di Aleksàndr; un terzo
    a  quella di qualche altro personaggio.  Inoltre gli storici di questo
    genere si contraddicono l'un l'altro persino nello spiegare  la  forza
    su  cui  si  fonda  il  potere di questo o di quell'altro personaggio.
    Thiers,  bonapartista,  dice che il potere di  Napoleone  era  fondato
    sulle sue virtù e sul suo genio;  Lanfrey (5),  repubblicano,  afferma
    che esso era basato sulla furfanteria di lui e  sull'inganno  a  danno
    del popolo.  Cosicché gli storici di questo genere, distruggendo l'uno
    la tesi dell'altro,  non fanno che distruggere il concetto della forza
    generatrice  degli  eventi e non dànno alcuna risposta al fondamentale
    problema della storia.
    Gli storici universali,  i quali si interessano  di  tutti  i  popoli,
    sembrano   ammettere   l'infondatezza   del   concetto  degli  storici
    particolari a proposito della forza che produce gli eventi.  Essi  non
    ammettono che quella forza si debba identificare con il potere proprio
    degli  eroi  e  dei dominatori,  ma la ritengono il risultato di molte
    forze che operano  in  diverse  direzioni.  Descrivendo  la  guerra  o
    l'asservimento  di  un  popolo,  lo  storico universale cerca la causa
    dell'avvenimento  nel  potere  non  di  un   unico   personaggio,   ma
    nell'azione concorde dei molti, legati all'avvenimento.
    Secondo  questo  concetto,  presentandosi  la  potenza  dei personaggi
    storici  come  la  risultanza  di  molte  forze  componenti,  parrebbe
    impossibile  considerarla  come  la forza generatrice di per se stessa
    degli avvenimenti, di cui è la causa. Secondo la loro esposizione,  il
    personaggio  storico  ora  è un prodotto del suo tempo e il suo potere
    non è che il frutto dell'unione di forze diverse;  ora il suo potere è
    la  forza  stessa che produce l'avvenimento.  Gervinus (6),  Schlosser
    (7), per esempio, e altri,  talora dimostrano che Napoleone è stato un
    prodotto della rivoluzione, delle idee del 1789 e via dicendo; talora,
    invece, affermano chiaramente che la campagna del 1812 e altre vicende
    che  non  li soddisfano,  furono soltanto il prodotto della volontà di
    Napoleone diretta in un senso sbagliato, e che le idee stesse del 1789
    furono troncate nel loro sviluppo dalla prepotenza  di  Napoleone.  Le
    idee rivoluzionarie, la disposizione generale degli spiriti produssero
    la  potenza  di Napoleone,  ma la potenza di Napoleone soffocò le idee
    rivoluzionarie e la disposizione generale degli spiriti.
    Strana contraddizione, questa,  che non è casuale.  Non soltanto la si
    incontra  ad  ogni  passo,  ma dal susseguirsi di intere serie di tali
    contraddizioni sono costituite le narrazioni degli storici universali.
    Le contraddizioni derivano dal fatto che gli storici universali,  dopo
    essersi incamminati sulla via dell'analisi, si fermano a mezza strada.
    Affinché  le  forze componenti ci diano la risultante,  occorre che la
    somma delle componenti uguagli la risultante stessa. Questa condizione
    non è mai tenuta nella dovuta considerazione dagli storici  universali
    e  perciò,  per  spiegare  la  forza  della  risultante,  essi  devono
    necessariamente ammettere che,  oltre alle  insufficienti  componenti,
    deve esistere una forza inspiegabile che agisca sulla risultante.
    Lo  storico particolare,  descrivendoci la campagna del 1813 oppure la
    restaurazione dei Borboni,  afferma apertamente che questi avvenimenti
    sono  dipesi  dalla  volontà  di  Aleksàndr.  Ma  lo  storico generale
    Gervinus,  dichiarando falsa questa teoria di uno storico particolare,
    si  sforza  di  dimostrare che la campagna del 1813 e la restaurazione
    dei Borboni sono state causate,  oltre che dalla volontà di Aleksàndr,
    dall'azione  di  Stein,  di  Metternich,  di  "madame"  de  Staël,  di
    Talleyrand,  di Fichte,  di Chateaubriand  e  di  altri.  Lo  storico,
    evidentemente, ha diviso la potenza di Aleksàndr nelle sue componenti:
    Talleyrand,  Chateaubriand,  eccetera,  la somma di queste componenti,
    ossia l'azione di Chateaubriand, di Talleyrand, di "madame" de Staël e
    di altri non  corrisponde  evidentemente  alla  risultante,  ossia  al
    fenomeno  per  cui  milioni  di Francesi si sottomisero ai Borboni.  E
    perciò,  per spiegare in che modo da tali componenti sia  derivata  la
    sottomissione di milioni di persone, ossia per spiegare come mai dalle
    componenti  uguali  a una A sia derivata una risultante uguale a mille
    A,  lo storico deve necessariamente ammettere quella stessa forza  del
    potere che egli nega,  riconoscendola come la risultante delle diverse
    forze,  deve cioè ammettere l'esistenza di  una  inspiegabile,  ignota
    forza  che agisca sulla risultante.  E ciò appunto fanno gli scrittori
    di  storia  universale;   in  conseguenza  di  questo   non   soltanto
    contraddicono  gli  storici  particolari,  ma  contraddicono  anche se
    stessi.
    Gli abitanti delle campagne,  non avendo una chiara nozione di ciò che
    produce  la  pioggia,  secondo  che  desiderino  la pioggia o il tempo
    asciutto, dicono: il vento ha portato via le nuvole,  oppure: il vento
    ha ammassato le nuvole.  Così precisamente si comportano gli scrittori
    di storie generali: a volte,  quando fa loro comodo e quando  concorda
    con  le  loro  teorie,  dicono  che  il  potere  è  il risultato degli
    avvenimenti;  a volte,  invece,  allorché vogliono  dimostrare  altro,
    dicono che il potere produce gli avvenimenti.
    Altri storici,  detti gli storici "della civiltà",  seguendo la strada
    tracciata dagli scrittori di storia generale,  i quali  riconoscono  a
    volte  come  forze determinanti di dati avvenimenti gli scrittori e le
    signore,  intendono la forza  generatrice  in  un  modo  perfettamente
    diverso.  La  vedono  nella  cosiddetta  cultura,  nell'attività della
    mente.
    Le opinioni degli storici della cultura sono perfettamente conseguenti
    rispetto ai loro precursori,  -  gli storici generali  -  giacché,  se
    gli  eventi storici si possono spiegare con il fatto che alcuni uomini
    ebbero tra di loro  certi  determinati  rapporti,  perché  gli  eventi
    storici  non  potrebbero essere spiegati dal fatto che certi individui
    scrissero certi libri? Questi storici, tra l'enorme quantità di indizi
    che accompagnano  ogni  manifestazione  della  vita,  scelgono  quello
    dell'attività  intellettuale  e  dicono  che  quell'indizio è la causa
    prima che si cerca. Ma,  nonostante tutti i loro sforzi per dimostrare
    che  la  causa  di un avvenimento risiede nell'attività intellettuale,
    soltanto con molta condiscendenza si può consentire che tra l'attività
    intellettuale e i movimenti dei popoli esista qualcosa di  comune;  in
    nessun  caso,  tuttavia,  si  potrà  ammettere che tale attività possa
    dirigere le azioni degli uomini,  giacché avvenimenti quali  i  feroci
    massacri  della  rivoluzione  francese,  derivanti  dalla predicazione
    dell'uguaglianza tra gli uomini,  quali le crudeltà della guerra e  le
    esecuzioni  capitali,  derivanti  dalla predicazione dell'amore per il
    prossimo, non confermano tale ipotesi.
    Ma pur ammettendo la veridicità dei sofisticati  ragionamenti  di  cui
    sono piene queste storie, pur ammettendo che i popoli siano guidati da
    una  indefinibile forza chiamata "idea",  il problema essenziale della
    storia rimane sempre  insoluto,  a  meno  che  all'antico  potere  dei
    monarchi  e  all'influenza  esercitata  dai  consiglieri  e  da  altri
    personaggi si aggiunga la forza nuova dell'idea,  il cui legame con le
    masse  esige  una  spiegazione.  E'  possibile capire che se Napoleone
    aveva il potere, un certo avvenimento storico si era compiuto; con una
    certa larghezza di idee si può anche capire che Napoleone, insieme con
    molti altri influssi, fosse la causa di un avvenimento,  ma non si può
    capire  in  che  modo  il  "Contrat social" abbia indotto i Francesi a
    massacrarsi a vicenda,  se non si  spieghi  il  legame  esistente  tra
    questa nuova forza e l'avvenimento stesso.
    Senza dubbio esiste un legame tra gli uomini che vivono in un medesimo
    periodo  di  tempo,  e  perciò  è  possibile  trovare  un  legame  tra
    l'attività intellettuale degli uomini e  il  loro  movimento  storico,
    così  come  lo  si  può  trovare  tra  il  movimento dell'umanità e il
    commercio,  l'artigianato,  il giardinaggio e quello che altro volete.
    Ma perché l'attività intellettuale degli uomini venga presentata dagli
    storici  della  civiltà come causa o espressione di tutto il movimento
    storico, non è certo facile capire. Una tale conclusione degli storici
    può essere spiegata soltanto dalle seguenti  riflessioni:  1)  che  la
    storia  è  scritta  da  persone  colte e perciò riesce loro naturale e
    piacevole pensare che la loro attività sia condizione fondamentale  di
    tutte  le vicissitudini del genere umano,  così come riesce naturale e
    piacevole il pensarlo ai mercanti,  agli agricoltori,  ai soldati  (il
    che non viene detto soltanto perché non sono i mercanti né i soldati a
    scrivere la storia),  e 2) che l'attività intellettuale, l'istruzione,
    la  cultura,   la  civiltà,   l'idea  sono   tutti   concetti   vaghi,
    indefinibili,  sotto il cui vessillo è sempre molto comodo servirsi di
    parole che hanno un significato ancor meno chiaro e che perciò possono
    essere agevolmente adattate a qualsiasi teoria.
    Ma senza parlare del valore sostanziale di  questo  genere  di  storie
    (forse  necessarie  per qualcuno o per qualche cosa),  le storie della
    civiltà,  con le quali le storie di carattere  generale  cominciano  a
    coincidere sempre di più,  sono notevoli perché, studiando con serietà
    e in ogni particolare le dottrine  religiose,  politiche,  filosofiche
    come  causa  degli  eventi,  ogni  volta  che  capita  loro  di  dover
    descrivere un avvenimento veramente  storico  come,  per  esempio,  la
    campagna del 1812, involontariamente lo descrivono come manifestazione
    del  potere,  dicendo  apertamente  che  quella  campagna  è  stata il
    risultato della volontà di Napoleone. Parlando così, gli storici della
    civiltà si contraddicono senza volerlo e dimostrano che  quella  nuova
    forza  da  loro inventata non è l'espressione degli eventi storici,  e
    che l'unico mezzo per capire la storia è  riconoscere  l'esistenza  di
    quel potere che pare essi non vogliano ammettere.


    CAPITOLO 3.

    La locomotiva corre.  Si domanda: perché corre? Un contadino risponde:
    è il diavolo che la spinge.  Un altro dice: la locomotiva corre perché
    si muovono le sue ruote.  Un terzo afferma: la causa del movimento sta
    nel fumo, portato via dal vento.
    Non possiamo confutare l'idea del contadino: egli  ha  escogitato  una
    spiegazione esauriente. Per confutare la sua risposta bisognerebbe che
    qualcuno  gli  dimostrasse  che  il  diavolo non esiste o che un altro
    contadino gli spiegasse che non è il diavolo,  ma un  tedesco  che  fa
    muovere  la  locomotiva.  Soltanto  allora  si renderebbero conto,  da
    queste contraddizioni, che sono ambedue in errore.  Ma quello che vede
    la  causa  del  movimento della locomotiva nel girare delle ruote,  si
    contraddice da sé, giacché incamminatosi sulla via dell'analisi,  deve
    procedere  oltre,  ossia  deve  spiegare  la causa del movimento delle
    ruote.  E sino a quando non arriverà alla causa ultima  del  movimento
    della locomotiva, ossia al vapore compresso nella caldaia, non avrà il
    diritto  di  abbandonare  la ricerca della causa.  Anche quello che ha
    spiegato il movimento della locomotiva con il fumo spinto indietro dal
    vento,  evidentemente si comporta così: dopo  aver  osservato  che  il
    girare  delle  ruote non è la causa del movimento,  si è aggrappato al
    primo indizio che gli è capitato sott'occhio e da parte sua  ha  visto
    in esso la causa cercata.
    L'unica  concezione  che  può spiegare il movimento della locomotiva è
    quello di una forza uguale al moto visibile.
    L'unica concezione per mezzo della quale si può spiegare il  movimento
    dei  popoli  è  la concezione di una forza uguale all'intero movimento
    dei popoli.
    E invece,  sotto questo  concetto,  i  vari  storici  intendono  forze
    completamente diverse e per nulla uguali al movimento visibile. Alcuni
    ammettono  una  forza insita negli eroi,  come il contadino ammette il
    diavolo nella locomotiva;  altri una forza  che  è  la  risultante  di
    alcune  altre  forze,  come  il  movimento  delle ruote,  altri ancora
    parlano di influssi intellettuali che corrispondono al fumo spinto dal
    vento.
    Sino a quando si scriveranno le storie dei singoli  personaggi,  siano
    essi  i Cesari,  gli Alessandri,  i Luteri,  i Voltaire  -  anziché la
    storia di tutti, senza alcuna eccezione, di tutti gli uomini che hanno
    preso parte a un dato avvenimento,  non è possibile non attribuire  ai
    singoli  personaggi la forza che spinge gli altri uomini a indirizzare
    a un unico scopo la loro attività. E l'unica concezione del genere che
    gli storici conoscono è il potere.
    Tale concezione del potere è la sola leva per mezzo della quale si può
    maneggiare il materiale della  storia,  così  come  viene  attualmente
    trattata,  e  chi spezzasse questa leva,  come ha fatto Buckle,  senza
    conoscere un altro sistema per  servirsi  dei  materiali  storici,  si
    priverebbe  dell'ultima  possibilità di farne uso.  L'impossibilità di
    spiegarsi i fenomeni della storia senza il concetto di potere, è messa
    in evidenza,  meglio che da chiunque altro,  dagli scrittori di storie
    generali  e dagli storici della civiltà i quali in apparenza rinnegano
    il concetto di potere,  mentre inevitabilmente se ne  servono  a  ogni
    pie' sospinto.
    Sinora  la scienza storica,  rispetto ai problemi del genere umano,  è
    simile al denaro di cui ci serviamo correntemente: biglietti di  banca
    e moneta sonante. Le storie biografiche e quelle dei singoli popoli le
    possiamo   paragonare   ai  biglietti  di  banca.   Possono  circolare
    liberamente,  svolgendo il loro compito senza recar danno  ad  alcuno,
    anzi  con  vantaggio,  sino a quando non sorga la domanda: in che modo
    sono garantiti?  Basterà dimenticare il problema di  come  la  volontà
    degli  eroi  produca  gli  eventi,  e le storie di Thiers diventeranno
    interessanti, istruttive e, inoltre, avranno una sfumatura di poesia.
    Ma proprio come nasce il dubbio sul  reale  valore  dei  biglietti  di
    banca,  -  sia perché, essendo di facile fabbricazione, si incomincerà
    a  fabbricarne  molti,  sia  perché  si vorrebbe convertirli in oro  -
    così sorge anche il dubbio sul reale valore  delle  storie  di  questo
    genere,  o per il fatto che se ne pubblicano troppe, o perché qualcuno
    ingenuamente chiederà: "Ma con quale forza Napoleone fece tutto ciò?".
    Vorrà insomma convertire i biglietti di banca circolanti nell'oro puro
    di un concetto reale.
    Gli storici generali e gli storici della civiltà  sono  invece  simili
    agli  uomini che,  avendo sperimentato gli inconvenienti dei biglietti
    di banca,  avessero deciso di sostituirli con  moneta  sonante  di  un
    metallo che non avesse il peso specifico dell'oro. E la moneta sarebbe
    in  realtà  "sonante",  ma  soltanto "sonante".  Il biglietto di banca
    poteva ancora ingannare gli ignari,  mentre la moneta sonante ma priva
    di valore non può ingannare nessuno.  Così come l'oro è oro unicamente
    quando può essere usato non solo per il cambio,  ma anche per trattare
    affari,  così  gli  storici  generali  saranno  oro  soltanto allorché
    saranno in grado di rispondere all'essenziale problema  della  storia:
    che cosa è il potere? Gli storici generali rispondono a questa domanda
    in modo contraddittorio, gli storici della civiltà non la considerano,
    rispondendo a tutt'altra cosa. E come i gettoni che somigliano all'oro
    possono  essere  usati  solo  tra  persone  che  si  siano accordate a
    considerarli come oro e tra coloro che dell'oro ignorano le proprietà,
    così gli storici generali e gli storici  della  civiltà  servono,  per
    certi  loro  scopi,  come moneta corrente alle università e alla folla
    dei  lettori,  degli  appassionati  di  libri  "seri",  come  essi  li
    chiamano, questo loro silenzio sugli avvenimenti del genere umano.


    CAPITOLO 4.

    Respinta  l'opinione degli antichi riguardo alla soggezione dei popoli
    alla volontà di un solo eletto per volontà di Dio,  la storia non  può
    fare  neppure  un  passo senza contraddirsi,  senza aver scelto una di
    queste due vie: o il ritorno alla  primitiva  fede  in  un  intervento
    divino  nelle  faccende dell'umanità,  o la spiegazione precisa di che
    cosa sia quella forza che crea gli eventi  storici  e  che  si  chiama
    potere.
    Tornare alla prima via non è possibile: la fede è distrutta,  e perciò
    è indispensabile spiegare che cosa sia il potere.
    Napoleone ha ordinato di  raccogliere  l'esercito  e  di  andare  alla
    guerra.
    Siamo  talmente abituati a questo modo di presentare le cose e siamo a
    tal punto compenetrati da una simile  idea  che  ci  pare  assurdo  il
    chiederci  perché  seicentomila  uomini partono per la guerra soltanto
    perché Napoleone ha pronunziato certe parole. Egli aveva il potere,  e
    perciò i suoi ordini sono stati eseguiti.
    Questa  risposta  è  pienamente  soddisfacente  se noi crediamo che il
    potere gli sia stato dato da Dio. Ma, non appena cessiamo di ammettere
    questa teoria, è necessario definire che cosa sia questo potere che un
    uomo solo esercita sugli altri.
    Esso non può identificarsi con la  superiorità  fisica  di  un  essere
    forte  su  uno  debole,    -   superiorità basata sull'impiego o sulla
    minaccia dell'impiego della forza fisica  -  quale  fu  il  potere  di
    Ercole  (8);  non  lo  si  può neppure identificare con la superiorità
    della forza morale come,  nella semplicità della loro  anima,  pensano
    alcuni scrittori di storia, i quali affermano che i personaggi storici
    sono eroi,  ossia uomini dotati di quella forza eccezionale di spirito
    e di corpo che si chiama genio.  Questo potere non può  essere  basato
    sulla  superiorità  morale  giacché,  per  non  parlare  di  eroi come
    Napoleone sulle cui doti morali le opinioni sono  assai  discordi,  la
    storia ci dimostra che né i Luigi Undicesimo (9), né i Metternich, che
    hanno  diretto  milioni  di  uomini,  avevano  alcuna particolare dote
    morale, ma da questo lato erano, in complesso,  più deboli di ciascuno
    di quei milioni di uomini che essi dirigevano.
    Se  la  fonte  del  potere  non sta nelle qualità fisiche e neppure in
    quelle morali della persona che lo detiene,  è evidente che tale fonte
    deve  trovarsi  al di fuori della persona stessa,  nei rapporti in cui
    chi detiene il potere si trova con le masse.
    Così appunto intende il potere la scienza del diritto,  quel banco  di
    cambio della storia, che promette di tramutare in oro puro il concetto
    storico del potere.
    Il  potere  è  la  somma delle volontà delle masse trasferita,  con un
    accordo tacito o espresso, ai governanti scelti dalle masse stesse.
    Nel campo della scienza  del  diritto,  costituita  da  una  serie  di
    considerazioni sul modo con cui dovrebbero essere organizzati lo stato
    e  il potere  -  sempre che tutto ciò si possa organizzare-  ogni cosa
    è molto chiara;  ma,  nei confronti con la storia,  questa definizione
    del potere esige un chiarimento.
    La scienza del diritto considera lo stato e il potere come gli antichi
    consideravano il fuoco,  ossia come un qualcosa di assoluto che esiste
    di per sé. Per la storia,  invece,  lo stato e il potere sono soltanto
    fenomeni,  così  come  per i fisici del nostro tempo il fuoco non è un
    elemento ma un fenomeno.
    Da questa fondamentale differenza di concezioni tra  la  storia  e  la
    scienza  del  diritto,  deriva che la scienza del diritto può dire con
    ogni particolare,  come debba,  a suo  giudizio,  essere  ordinato  il
    potere e che cosa esso sia come entità immutabile, esistente fuori del
    tempo;  ma alle questioni storiche su cosa sia il potere, che si viene
    mutando nel corso del tempo, non può rispondere nulla.
    Se il potere è la  somma  delle  volontà  trasferita  a  chi  governa,
    Pugacëv  rappresenta  allora  la  volontà delle masse?  Se così non è,
    perché allora la rappresenta Napoleone?  Perché Napoleone  Terzo  (10)
    quando  fu  arrestato  era  un  criminale  e poi diventarono criminali
    coloro che lo avevano arrestato?
    Nelle rivoluzioni di palazzo,  alle quali partecipano talvolta  due  o
    tre persone, anche la volontà delle masse viene trasferita in un nuovo
    personaggio?  E  nei  rapporti  internazionali  la volontà delle masse
    popolari si trasferisce nel loro conquistatore?  Nel 1800  la  volontà
    della  Confederazione del Reno fu trasferita su Napoleone?  E nel 1809
    fu trasferita su Napoleone la  volontà  del  popolo  russo  quando  il
    nostro  esercito,  alleato  dei  Francesi,  andò  a  combattere contro
    l'Austria?
    A queste domande si può rispondere in tre modi:
    1) Riconoscere che la volontà delle masse viene sempre trasmessa senza
    condizioni a quello o a quei governanti che esse si sono scelti e  che
    perciò  l'insorgere  di  qualsiasi  nuovo  potere e di qualsiasi lotta
    contro un potere già costituito  devono  essere  considerati  soltanto
    come violazioni del potere reale.
    2)  Riconoscere  che la volontà delle masse si trasmette ai governanti
    sotto condizioni ben definite  e  note,  e  dimostrare  che  qualsiasi
    limitazione,  qualsiasi  contrasto  e  annientamento  di potere deriva
    dalla inosservanza dei  governanti  delle  condizioni  alle  quali  il
    potere è stato loro conferito.
    3)  Riconoscere  che la volontà delle masse si trasmette ai governanti
    sotto condizioni,  ma sotto condizioni  sconosciute,  incerte,  e  che
    l'insorgere  di molti poteri,  le loro lotte e la loro caduta derivano
    soltanto dal maggiore o minore adempimento,  da parte dei  governanti,
    di quelle ignote condizioni, in base alle quali le volontà delle masse
    vengono trasmesse da un personaggio all'altro.
    In questi tre modi vengono spiegati dagli storici i rapporti tra masse
    e governanti.
    Alcuni storici,  che nella loro ingenuità non comprendono che cosa sia
    il potere, quegli stessi scrittori di biografie e di storie di singoli
    popoli di cui abbiamo detto sopra,  sembrano ammettere  che  la  somma
    delle  volontà delle masse si trasferisca sui personaggi storici senza
    condizioni e perciò,  descrivendo un qualsiasi potere,  questi storici
    suppongono che esso sia unico, assoluto e reale e che ogni altra forza
    che  vi  si  opponga  non sia un potere,  ma una infrazione del potere
    reale, e quindi un sopruso.
    La loro teoria,  valida per  i  periodi  primitivi  e  pacifici  della
    storia,  applicata  ai  complessi  e burrascosi periodi della vita dei
    popoli,  durante i quali insorgono contemporaneamente e lottano tra di
    loro  poteri  diversi,  ha  un  inconveniente: lo storico legittimista
    dimostrerà  che  la  Convenzione,  il  Direttorio,   Bonaparte  furono
    soltanto   violazione   del   potere,   mentre  il  repubblicano,   il
    bonapartista dimostreranno,  il primo che  l'autentico  potere  fu  la
    Convenzione,  il  secondo  che fu l'Impero e che tutto il resto non fu
    che una violazione di esso. Evidentemente,  confutandosi in tal modo a
    vicenda,  le  spiegazioni  del  potere di questi storici possono andar
    bene soltanto per bambini in tenera età.
    Ammettendo la falsità di simile punto di vista della storia,  un'altra
    specie  di  storici  afferma  che il potere è basato sul trasferimento
    condizionato delle volontà collettive ai governanti e che i personaggi
    storici lo tengono soltanto alla condizione di realizzare il programma
    che, con tacito accordo, la volontà popolare ha loro assegnato.  Ma in
    che  cosa consista tale condizione gli storici non lo dicono,  oppure,
    se lo dicono, si contraddicono sempre a vicenda.
    Ogni storico, osservando ciò che, dal suo punto di vista,  costituisce
    lo  scopo  del  movimento  di un popolo,  vede questa condizione nella
    grandezza,  nella  ricchezza,  nella  libertà,  nella  istruzione  dei
    cittadini  della  Francia o di un altro stato.  Ma senza parlare delle
    contraddizioni degli storici riguardo a tali condizioni  e  ammettendo
    persino  che  esista un unico,  comune programma di queste condizioni,
    noi notiamo che quasi sempre i fatti storici  sono  in  contrasto  con
    tale teoria.  Se le condizioni,  date le quali si trasmette il potere,
    sono la ricchezza,  la libertà,  l'istruzione  dei  cittadini,  perché
    allora    Luigi   Quattordicesimo   e   Ivàn   Quarto   (11)   vissero
    tranquillamente il periodo del loro regno,  e Luigi Sedicesimo e Carlo
    Primo (12) furono giustiziati dai loro sudditi? A questo interrogativo
    gli storici rispondono che l'opera di Luigi Quattordicesimo, contraria
    al programma,  si rifletté su Luigi Sedicesimo.  Ma perché,  chiediamo
    noi,  tale responsabilità non si rifletté su Luigi  Quattordicesimo  e
    Luigi Quindicesimo? Perché proprio su Luigi Sedicesimo? E quale limite
    di tempo ha tale responsabilità? A queste domande non c'è e non ci può
    essere risposta. E così pure non è detto, stando a tale opinione, come
    mai  la somma delle volontà rimanga per alcuni secoli nelle mani di un
    governante e dei suoi successori e poi,  tutto a un tratto,  nel corso
    di cinquant'anni passi alla Convenzione,  al Direttorio,  a Napoleone,
    ad Aleksàndr, a Luigi Diciottesimo e poi di nuovo a Napoleone, a Carlo
    Decimo  (13),  a  Luigi  Filippo  (14),  al  governo  repubblicano,  a
    Napoleone  Terzo.  Per spiegare questi rapidi trasferimenti di volontà
    collettiva da un personaggio all'altro e,  in particolare,  quando  si
    tratti  di  rapporti internazionali,  di conquiste e di alleanze,  gli
    storici devono, sia pure a malincuore, ammettere che tali fenomeni non
    sono più,  in  parte,  trasferimenti  regolari  di  volontà,  ma  casi
    dipendenti ora dall'astuzia,  ora da errori,  ora dalla perfidia,  ora
    dalla debolezza di un diplomatico o di un sovrano,  ora infine  da  un
    capo  di partito.  Cosicché la maggior parte dei fenomeni della storia
    -  lotte intestine,  rivoluzioni,  guerre - appaiono a questi  storici
    non  già  come conseguenza del trasferimento di libere volontà,  bensì
    come conseguenza della volontà falsamente indirizzata  di  uno  o  più
    individui,  vale a dire di nuovo come violazione di potere. Perciò gli
    avvenimenti di questo genere si presentano agli storici come eccezioni
    alle loro teorie.
    Questi storici sono simili ad  un  botanico  che,  avendo  notato  che
    alcune  piante spuntano dal seme con due dicotiledoni,  sostenesse che
    tutto ciò che cresce,  cresce soltanto sdoppiandosi in due foglioline,
    e che la palma,  il fungo e persino la quercia che,  ramificandosi nel
    suo pieno  sviluppo,  non  ha  più  l'aspetto  di  dicotiledoni,  sono
    eccezioni alla teoria.
    Altri   storici   poi  riconoscono  che  la  volontà  della  massa  si
    trasferisce ai personaggi storici a certe condizioni, le quali ci sono
    tuttavia ignote.  Essi asseriscono che i personaggi storici  detengono
    il  potere solo perché eseguono la volontà delle masse che tale potere
    ha loro trasmesso.
    Ma in questo caso,  se la  forza  che  muove  i  popoli  non  sta  nei
    personaggi  storici ma nei popoli stessi,  in che cosa consiste allora
    l'importanza di quei personaggi?
    I personaggi storici, dicono questi scrittori di storia,  esprimono la
    volontà  delle masse;  la loro opera,  quindi,  rappresenta l'attività
    delle masse.
    Ma in questo caso,  ecco sorgere  la  domanda:  tutta  l'attività  dei
    personaggi storici rappresenta la volontà delle masse, oppure soltanto
    una  data  parte  di essa?  Se tutta l'attività dei personaggi storici
    esprime nella sua interezza la volontà delle masse,  le biografie  dei
    Napoleoni, delle Caterine, con tutti i particolari dei pettegolezzi di
    Corte,  sarebbero ancora l'espressione della vita dei popoli, il che è
    evidentemente assurdo;  se invece una  sola  parte  dell'attività  del
    personaggio  storico  esprime  la vita dei popoli,  come pensano altri
    presunti storici-filosofi, per definire quale aspetto dell'attività di
    un personaggio serva a esprimere la vita di un popolo,  occorre  prima
    sapere in che cosa consista la vita di un popolo.
    Nell'incontrare tali difficoltà, gli storici di questo tipo escogitano
    la  più  confusa,  inafferrabile  e  generica astrazione alla quale si
    possa  ridurre  il  maggior  numero  di  eventi  e  affermano  che  in
    quell'astrazione consiste la meta del cammino del genere umano. Le più
    comuni  astrazioni,  accettate  da  quasi tutti gli storici,  sono: la
    libertà, l'uguaglianza,  l'istruzione,  il progresso,  la civiltà,  la
    cultura.  Considerata come meta del genere umano qualsiasi astrazione,
    gli storici studiano gli uomini che hanno lasciato di  sé  il  maggior
    numero di monumenti,  -  imperatori, ministri, condottieri, scrittori,
    riformatori, papi, giornalisti  -  nella misura che questi personaggi,
    a loro modo di vedere,  hanno agito pro o contro una certa astrazione.
    Ma poiché non è in alcun modo possibile dimostrare  che  la  meta  del
    genere umano sia la libertà,  l'uguaglianza, l'istruzione o la civiltà
    e poiché il legame delle masse con i governanti o con i  civilizzatori
    del genere umano è basato soltanto sull'arbitraria supposizione che la
    somma  delle  volontà  delle  masse  venga  sempre  trasmessa  a  quei
    personaggi che si fanno  notare  di  più,  così  anche  l'attività  di
    milioni di uomini che emigrano, incendiano case, abbandonano il lavoro
    dei campi,  si uccidono a vicenda,  non si esprimerà mai nell'attività
    di una diecina di persone che non incendiano le case,  non si occupano
    di agricoltura, non uccidono i loro simili.
    La  storia  ce  lo  dimostra  ad ogni passo.  Le agitazioni dei popoli
    dell'occidente alla fine del secolo scorso e  il  loro  tendere  verso
    oriente  si  spiega forse con l'opera svolta da Luigi Quattordicesimo,
    Luigi Quindicesimo,  Luigi Sedicesimo,  dalle loro favorite,  dai loro
    ministri,  con la vita di Napoleone,  di Rousseau, di Diderot (15), di
    Beaumarchais (16) e di altri.
    Il movimento del popolo russo verso oriente,  verso Kazàn e la Siberia
    si  spiega  forse  con  il  carattere  patologico  di  Ivàn  Quarto il
    Terribile e con il suo carteggio con Kurbskij (17)?
    Il movimento dei popoli al tempo delle Crociate si spiega forse con lo
    studio della vita dei Goffredi (18), dei Luigi (19) e delle loro dame?
    Per  noi  è  rimasto   incomprensibile   il   movimento   dei   popoli
    dall'occidente all'oriente,  senza alcuno scopo,  senza capi,  con una
    turba di vagabondi,  con Pietro l'Eremita (20).  E più incomprensibile
    ancora  è  l'arrestarsi  di  tale  movimento,  proprio  quando  gli fu
    chiaramente  dato  un  santo,  ragionevole  scopo  da  coloro  che  lo
    promossero:  la  liberazione  di  Gerusalemme.   Papi,  re,  cavalieri
    incitavano il popolo alla liberazione dei luoghi santi;  ma  i  popoli
    non si movevano perché lo scopo ignoto,  che dapprima li aveva indotti
    a quel moto, non esisteva più.  La storia dei Goffredi e dei trovatori
    non  può  evidentemente contenere in sé la vita dei popoli.  La storia
    dei Goffredi e dei trovatori è rimasta la storia dei  Goffredi  e  dei
    trovatori, mentre la storia della vita dei popoli e dei loro impulsi è
    rimasta ignota.
    E  ancora meno ci viene spiegata la vita dei popoli dalla storia degli
    scrittori e dei riformatori.
    La storia della civiltà spiega gli scopi,  le condizioni di vita e  le
    idee  di  uno  scrittore o di un riformatore.  Noi sappiamo che Lutero
    (21) aveva un carattere irascibile o che tenne  questo  e  quest'altro
    discorso;  sappiamo  che Rousseau era un uomo diffidente e che scrisse
    tale e talaltro libro; ma ignoriamo perché dopo la Riforma i popoli si
    siano massacrati e perché durante la rivoluzione francese  gli  uomini
    si siano condannati a morte.
    Se  riuniamo  questi  due  tipi  di  storia,  come fanno gli scrittori
    moderni, avremo, sì, la storia dei re e degli scrittori, ma non avremo
    la storia della vita dei popoli.


    CAPITOLO 5.

    La vita dei popoli non  è  contenuta  nella  vita  di  alcuni  uomini,
    giacché  non  si  è  trovato  il  legame  tra questi ultimi e i popoli
    stessi.   La  teoria  secondo  la  quale  tale  legame  è  basato  sul
    trasferimento  della  somma  delle  volontà delle masse nei personaggi
    storici è un'ipotesi non suffragata dall'espressione storica.
    La teoria del trasferimento della somma delle volontà delle  masse  ai
    personaggi  storici  può  forse  spiegare  molte  cose nel campo della
    scienza del diritto e può forse essere indispensabile ai suoi fini; ma
    in rapporto alla storia, non appena scoppiano rivoluzioni,  conquiste,
    guerre civili,  non appena cioè comincia la storia,  questa teoria non
    regge più.
    Essa appare inoppugnabile  proprio  perché  l'atto  del  trasferimento
    della volontà di un popolo non può essere controllato.
    Qualunque sia l'avvenimento che si manifesta,  chiunque ne sia a capo,
    la teoria può sempre affermare che quel tale personaggio fu a capo  di
    esso perché riuniva in sé la somma della volontà delle masse.
    Le  risposte date da questa teoria alle questioni storiche sono simili
    alle risposte di un uomo che,  osservando una mandria in  movimento  e
    non  badando né alla diversa bontà della pastura nei punti diversi del
    campo,  né alla direzione verso cui  il  pastore  spinge  la  mandria,
    giudicasse  che  le  cause  della  direzione  della  mandria dipendono
    dall'animale che procede davanti a essa.
    "La mandria va in quella direzione perché è guidata da un animale  nel
    quale  è  trasferita  la volontà collettiva di tutti gli altri".  Così
    rispondono gli storici del primo gruppo,  quelli cioè che ammettono la
    trasmissione incondizionata del potere.
    "Se  gli  animali  che precedono la mandria si alternano,  ciò avviene
    perché la volontà collettiva di tutti gli altri animali si trasferisce
    da una guida all'altra,  secondo che quell'animale conduca o  meno  la
    mandria  nella  direzione  che  essa  ha scelto".  Così rispondono gli
    storici i quali ammettono  che  il  trasferimento  della  somma  delle
    volontà  ai  governanti  avviene a certe condizioni che essi ritengono
    note  (con  un  tale  sistema  di  osservazione  spesso   accade   che
    l'osservatore,  basandosi  su  una  direzione  da  lui  stesso scelta,
    consideri come guida  quelli  che,  a  causa  di  un  mutamento  nella
    direzione della massa, non siano più in testa, ma di fianco e talvolta
    anche in coda).
    "Se gli animali che stanno in testa alla mandria mutano continuamente,
    e continuamente muta la direzione di tutta la mandria, ciò dipende dal
    fatto  che,  per  raggiungere la direzione che ci è nota,  gli animali
    trasmettono la loro volontà a quelli che noi vediamo  meglio,  giacché
    per  studiare il movimento della mandria,  bisogna osservare tutti gli
    animali  che  ci  appaiono  più  notevoli  in  qualsiasi  parte  della
    mandria".   Così   dicono   gli  storici  della  terza  categoria  che
    riconoscono  come  espressione  del  loro  tempo  tutti  i  personaggi
    storici, dai monarchi ai giornalisti.
    La  teoria  del  trasferimento della volontà delle masse ai personaggi
    storici è semplicemente una perifrasi,  ossia è un ripetere con  altre
    parole la medesima questione.
    Qual  è  la causa degli avvenimenti storici?  Il potere.  Che cos'è il
    potere?  Il potere è la somma  delle  volontà  trasferite  a  un'unica
    persona.  A  quali  condizioni  viene  trasmessa questa volontà?  Alla
    condizione che questa persona esprima la volontà di tutti gli  uomini.
    Il  che  vuol dire che il potere è il potere.  Il che vuol dire che il
    potere è una parola il cui significato è incomprensibile.
    Se il campo dell'umana conoscenza  fosse  limitato  al  solo  pensiero
    astratto,  allora,  dopo  aver  vagliato  al  lume  della  critica  la
    spiegazione che la "scienza" ci dà del potere,  l'umanità  giungerebbe
    alla conclusione che il potere è soltanto una parola e che, in realtà,
    non  esiste.  Ma  poiché  per  la conoscenza di un fenomeno l'uomo ha,
    oltre all'arma del ragionamento astratto anche quella  dell'esperienza
    con  la  quale  può controllare i risultati della propria riflessione,
    questa esperienza ci dice che il potere non è soltanto una parola,  ma
    un fenomeno realmente esistente.
    Senza  dire  che,  mancando  il  concetto di potere,  non può esistere
    descrizione alcuna dell'attività collettiva degli uomini, la esistenza
    del potere è dimostrata tanto dalla  storia  quanto  dall'osservazione
    degli avvenimenti contemporanei.
    Ogniqualvolta un avvenimento si compia, appare immancabilmente un uomo
    o  un  gruppo  di  uomini,  secondo  le cui volontà l'avvenimento pare
    svolgersi.  Napoleone Terzo dà  un  ordine,  e  i  Francesi  vanno  al
    Messico;  il  re  di  Prussia  (22)  e Bismarck (23) dànno un ordine e
    l'esercito entra in Boemia.  Napoleone Primo lo ordina e le sue truppe
    invadono  la  Russia.  Lo  zar  Aleksàndr  lo ordina,  e i Francesi si
    sottomettono ai Borboni.  L'esperienza ci insegna che il compimento di
    qualsiasi  avvenimento  è sempre legato alla volontà dell'uomo o degli
    uomini che lo hanno voluto.
    Gli storici,  secondo la vecchia abitudine di  ammettere  l'intervento
    della  divinità nelle faccende degli uomini,  vogliono vedere la causa
    di  un  avvenimento  storico  nell'espressione   della   volontà   del
    personaggio  investito  del  potere,   ma  questa  conclusione  non  è
    suffragata né dal ragionamento, né dall'esperienza.
    Da un lato,  il ragionamento dimostra che l'espressione della  volontà
    di  un  uomo    -    cioè  le  sue  parole   -  non sono che una parte
    dell'attività generale che si manifesta nell'avvenimento,  per esempio
    in  una  guerra  o  in  una  rivoluzione;  perciò  se  non  si ammette
    l'intervento di una forza incomprensibile e soprannaturale,    -    il
    miracolo    -    non  si può ammettere che le parole possano essere la
    causa diretta del movimento di milioni di uomini; dall'altro lato,  se
    anche si volesse ammettere che le parole possano essere la causa di un
    avvenimento, la storia ci dimostra che l'espressione della volontà dei
    personaggi storici in molti casi non ha alcun effetto,  e cioè che gli
    ordini da loro dati non solo non vengono  sempre  eseguiti,  ma  molto
    spesso  si  verifica  addirittura che accada l'opposto di quanto hanno
    ordinato.
    Se escludiamo  la  partecipazione  divina  nelle  faccende  umane  non
    possiamo riconoscere il potere come causa degli avvenimenti.
    Il  potere,  dal  punto  di  vista  dell'esperienza,  non  è  che  una
    dipendenza che esiste tra l'espressione della volontà di un solo  uomo
    e il compimento di tale volontà da parte degli altri uomini.
    Per   spiegarci   le   condizioni   di  questa  dipendenza,   dobbiamo
    innanzitutto ristabilire il concetto  di  espressione  della  volontà,
    riferendolo all'uomo anziché alla divinità.
    Se  la  divinità dà ordini,  esprime la propria volontà,  così come la
    storia degli antichi  ci  dice,  l'espressione  di  tale  volontà  non
    dipende dal tempo e non è provocata da cosa alcuna giacché la divinità
    non  è  legata  all'avvenimento.  Ma  parlando  di  ordini,  ossia  di
    espressioni della volontà di  uomini  che  agiscono  nel  tempo  e  in
    concordanza  tra  di  loro,  per  spiegarci  il  legame  tra  ordine e
    avvenimento,  dobbiamo stabilire: 1) le condizioni di tutto ciò che si
    compie:  la continuità del movimento nel tempo,  così dell'avvenimento
    stesso come di chi lo ha imposto, 2) la condizione dell'indispensabile
    legame che unisce colui che ordina con gli uomini che eseguono i  suoi
    ordini.


    CAPITOLO 6.

    Soltanto  l'espressione della volontà divina,  indipendente dal tempo,
    può riferirsi a un'intera serie di avvenimenti  che  abbiano  il  loro
    compimento  nel corso di anni o di secoli,  e soltanto la divinità può
    liberamente stabilire,  secondo  la  sua  volontà,  la  direzione  del
    cammino  del  genere  umano;  l'uomo,  invece,  agisce  nel tempo ed è
    diretto partecipe degli avvenimenti.
    Ristabilendo la prima condizione trascurata,  la condizione del tempo,
    ci  renderemo conto che nessun ordine può essere eseguito senza che vi
    sia un ordine precedente che ne renda possibile l'attuazione.
    Nessun ordine sorge mai spontaneamente,  né comprende in sé una  serie
    di  avvenimenti:  ogni  ordine deriva da uno che lo precede,  e non si
    riferisce mai a un'intera serie di avvenimenti, ma sempre e soltanto a
    un solo momento di essa.
    Quando,  per esempio,  diciamo che Napoleone  ordinò  alle  truppe  di
    andare  in guerra,  noi riuniamo in un unico ordine espresso una serie
    di ordini  successivi,  dipendenti  l'uno  dall'altro.  Napoleone  non
    poteva  ordinare,  né mai l'ordinò,  la campagna di Russia.  Egli oggi
    ordinò di mandare certe lettere a Vienna,  a Berlino e a  Pietroburgo;
    domani  promulgò  decreti e disposizioni per l'esercito per la flotta,
    per l'intendenza eccetera eccetera: emanò migliaia di ordini dai quali
    scaturì una serie  di  fatti  che  portarono  l'esercito  francese  in
    Russia.
    Se  Napoleone,  che durante tutto il suo regno dà disposizioni per una
    spedizione in Inghilterra e che per  nessun'altra  delle  sue  imprese
    spende tante forze e tanto tempo e che,  nonostante questo,  non tenta
    mai di realizzare il suo proposito e fa,  invece,  una  spedizione  in
    Russia con la quale,  per una convinzione più volte espressa,  ritiene
    vantaggioso  essere  alleato,   ciò  accade  perché   non   le   prime
    disposizioni,  ma  le  seconde  corrispondevano  a  una  data serie di
    avvenimenti.
    Perché un ordine possa essere con certezza eseguito,  bisogna che esso
    ne offra la possibilità,  ma sapere quando un ordine possa o non possa
    essere eseguito non è possibile,  e non solo per  quanto  riguarda  la
    campagna  napoleonica in Russia,  cui presero parte milioni di uomini,
    ma anche per  quanto  riguarda  il  più  semplice  degli  avvenimenti,
    giacché  per l'attuazione sia dell'uno quanto dell'altro fatto possono
    sorgere migliaia di ostacoli. A ogni ordine eseguito si contrappongono
    moltissimi ordini non eseguiti.  Tutti gli ordini ineseguibili non  si
    collegano  con l'avvenimento,  e rimangono privi di effetto.  Soltanto
    gli  ordini  eseguibili  formano  una  serie  consecutiva  di   ordini
    corrispondente a una serie di avvenimenti, e vengono eseguiti.
    L'idea errata, secondo cui l'ordine che precede un avvenimento ne è la
    causa,  deriva  dal fatto che,  allorquando l'avvenimento è compiuto e
    dei mille ordini impartiti sono stati  eseguiti  solo  quelli  che  si
    collegano  con  l'avvenimento,  noi dimentichiamo quelli che non hanno
    avuto  esecuzione  perché  non  potevano  averla.   Inoltre  l'origine
    principale  del  nostro  errore  in questo senso deriva dal fatto che,
    nell'esposizione  storica,  una  serie  di  avvenimenti  innumerevoli,
    diversi,  insignificanti    -   quali,  per esempio,  tutti quelli che
    portarono l'armata francese in Russia  -  si generalizza  in  un  solo
    avvenimento,  secondo  il  risultato da esso prodotto,  e così pure si
    generalizza in un'unica espressa volontà tutta la serie  degli  ordini
    impartiti.
    Noi diciamo: Napoleone volle e attuò la campagna di Russia. In realtà,
    non troviamo mai,  seguendo tutta l'attività di Napoleone, un qualcosa
    che assomigli all'espressione di una tale volontà;  vediamo invece una
    serie  di ordini o di espressioni della sua volontà,  diretti nel modo
    più diverso e più vago.  Nell'innumerevole serie  di  ordini  dati  da
    Napoleone e non eseguiti è sorta per la campagna del 1812 una serie di
    ordini eseguiti, e non perché tali ordini si distinguessero in qualche
    modo  dai  molti  altri  non  eseguiti,  ma  perché  una serie di essi
    concordò con la serie di avvenimenti che portarono  l'armata  francese
    in  Russia;  proprio  come  avviene che attraverso uno stampino non si
    disegna questa o quell'altra figura perché il colore viene disteso  su
    una  parte piuttosto che su un'altra,  ma perché esso viene disteso in
    modo uniforme su tutto il disegno intagliato nello stampino.
    Cosicché,  studiando nel tempo  il  rapporto  tra  gli  ordini  e  gli
    avvenimenti, ci renderemo conto che in nessun caso l'ordine può essere
    la  causa  dell'avvenimento,  ma  che  tra  l'uno  e  l'altro sussiste
    tuttavia una certa dipendenza.
    Per capire in che cosa  tale  dipendenza  consista,  è  indispensabile
    stabilirne  un'altra  tra  le  condizioni  omesse riguardo a qualsiasi
    ordine che non dipenda dalla divinità ma da un uomo,  condizione  che,
    consiste  in questa,  che l'uomo che dà l'ordine partecipa egli stesso
    all'avvenimento.
    Questo rapporto tra chi impartisce un ordine  e  coloro  ai  quali  lo
    impartisce è precisamente ciò che si definisce il potere.  Ecco in che
    cosa consiste questo rapporto.
    Per  agire  in  comune  gli  uomini  si  riuniscono  sempre  in   dati
    raggruppamenti  nei  quali,  nonostante  gli scopi diversi dell'azione
    collettiva,  i rapporti tra gli uomini che prendono  parte  all'azione
    rimangono sempre gli stessi.
    Formando  tali raggruppamenti,  gli uomini stabiliscono tra di loro un
    rapporto tale per cui la maggioranza di  essi  prende  una  parte  più
    diretta   e  la  minoranza  una  parte  meno  diretta  a  quell'azione
    collettiva per la quale si sono riuniti.
    Tra tutti i raggruppamenti  che  gli  uomini  formano  per  sviluppare
    un'azione comune, uno dei più definiti e più precisi è l'esercito.
    Ogni  esercito  si  compone  di  membri  inferiori  rispetto  al grado
    militare,  i soldati semplici,  i quali costituiscono la  maggioranza;
    poi di membri di grado più elevato, i caporali e i sottufficiali, meno
    numerosi dei primi; infine di militari di grado superiore, ancora meno
    numerosi e così via,  sino all'autorità più elevata,  che si concentra
    in una sola persona.
    L'organizzazione militare può essere rappresentata dalla figura di  un
    cono,  la cui base di maggior diametro è formata dai soldati semplici;
    le sezioni successive più  alte,  dai  gradi  superiori  dell'esercito
    eccetera,  sino  alla  sommità  del  cono,  ossia  sino  al comandante
    supremo.
    I soldati,  che sono i più numerosi,  costituiscono i punti  inferiori
    del  cono  e la sua base.  Il soldato è colui che direttamente uccide,
    massacra,  incendia,  saccheggia e che,  per compiere  queste  azioni,
    riceve dai superiori ordini, ma è colui che, per parte sua, ordini non
    ne dà mai. Il sottufficiale (il numero dei sottufficiali è inferiore a
    quello dei soldati) agisce anch'egli direttamente, sebbene più di rado
    del soldato; ma dà già alcuni ordini. L'ufficiale agisce ancora più di
    rado,  ma  dà ordini più spesso.  E il generale ordina all'esercito di
    marciare,  indica l'obiettivo da raggiungere,  ma non fa quasi mai uso
    delle armi. Quanto al comandante supremo non può prender parte diretta
    ad  alcuna  azione e non fa che impartire gli ordini generali circa il
    movimento delle masse.  In ogni raggruppamento di uomini che  agiscono
    per   uno  scopo  comune  esistono  sempre  rapporti  di  tal  genere;
    nell'agricoltura,   nel  commercio   e   in   ogni   altro   tipo   di
    amministrazione.
    E  così,  senza  fare  artificiose  suddivisioni,  dai più alti ai più
    bassi,  tutti i punti che si  fondono  nel  cono,  o  i  gradi  di  un
    esercito, o i titoli e gli incarichi di qualsiasi amministrazione o di
    un'opera  comune,  ci  appare  evidente  la legge secondo la quale gli
    uomini, per compiere un'azione collettiva,  si uniscono tra di loro in
    modo  che,  quanto  più  immediata  e diretta è la loro partecipazione
    all'azione,  tanto meno  essi  possono  comandare  e  tanto  più  sono
    numerosi;  quanto  minore  è  la  partecipazione  diretta che prendono
    all'azione,  tanto più possono comandare e  tanto  minore  è  il  loro
    numero;  salendo  così  dagli  strati  inferiori  giungiamo all'ultimo
    individuo, a colui che meno di tutti prende parte diretta all'azione e
    più di tutti gli altri esplica la sua attività nel comandare.
    E appunto nel rapporto tra coloro che comandano e coloro che  eseguono
    gli ordini sta l'essenza del concetto che si chiama potere.
    Stabilite   le  condizioni  di  tempo  nelle  quali  si  compiono  gli
    avvenimenti, noi abbiamo trovato che un ordine viene eseguito soltanto
    quando  esso  si  collega  a  una  serie  corrispondente  di   eventi.
    Ristabilendo  poi  le  necessarie  basi  del  legame  tra  coloro  che
    impartiscono gli ordini e coloro che li eseguono,  abbiamo trovato che
    per  la loro qualità stessa,  quelli che danno gli ordini prendono una
    minima  parte  allo  svolgersi  dell'evento,  e  la  loro  attività  è
    esclusivamente diretta a impartire ordini.


    CAPITOLO 7.

    Quando  si  verifica  un  qualsiasi avvenimento,  gli uomini esprimono
    opinioni e desideri e poiché esso deriva dalla somma delle  azioni  di
    molti  uomini,  accade senza fallo che uno di questi desideri o una di
    queste opinioni si realizzi almeno approssimativamente.  E quando  uno
    dei  pareri  espressi  coincide  con la realtà,  esso si collega nella
    nostra mente all'avvenimento con l'ordine che lo ha preceduto.
    Un certo numero di uomini trascina una trave.  Ognuno di essi  esprime
    il  proprio  parere  sul modo di eseguire il lavoro e sul luogo in cui
    trascinare la trave.  Essa viene trasportata,  e risulta allora che il
    lavoro  è  stato  eseguito  come  uno  degli  uomini  aveva  proposto.
    Quell'uomo ha dato l'ordine.  Ecco il comando  e  il  potere  nel  suo
    aspetto primitivo.
    Colui  che  ha  lavorato più di braccia ha potuto pensar meno a quello
    che faceva,  ha potuto riflettere  meno  sul  risultato  della  comune
    attività  e  ha  potuto  dirigere  meno.  Colui che più degli altri ha
    diretto l'azione,  in seguito alla sua  attività  verbale,  ha  potuto
    evidentemente   lavorare   meno  di  braccia.   In  una  più  numerosa
    aggregazione di uomini che dirigono la loro attività  verso  un  unico
    scopo, spicca ancora più nettamente la categoria di coloro che, quanto
    meno  partecipano  in  modo  diretto  alla comune attività,  tanto più
    esplicano la loro opera nel comando.
    L'uomo,  quando agisce da solo,  porta  sempre  in  sé  una  serie  di
    considerazioni che hanno guidato, gli pare, la sua precedente attività
    e  che  servono  a  giustificare  quella  presente e a dirigere la sua
    azione futura.
    La stessa cosa accade nelle collettività  umane,  in  cui  viene  dato
    campo libero a coloro che non prendono parte all'azione, di preparare,
    dirigere e giustificare l'azione comune.
    Per  cause  che  ci  sono  note  o  ignote,  i  Francesi cominciano ad
    affogarsi e ad ammazzarsi tra di loro.  Questo fatto concorda e  trova
    la sua giustificazione nella volontà espressa dalla gente,  secondo la
    quale ciò è indispensabile per il bene della Francia,  per la libertà,
    per l'uguaglianza.  A un certo momento tutto questo cessa,  e a questo
    fatto si accompagna la giustificazione costituita dalla  necessità  di
    un  potere unico,  della resistenza all'Europa,  eccetera.  Gli uomini
    marciano  da  occidente  a  oriente,   uccidendo  i  loro   simili   e
    l'avvenimento  è  accompagnato  da  parole sulla gloria della Francia,
    sulla bassezza dell'Inghilterra e così via.  La storia ci  mostra  che
    tali  giustificazioni non hanno senso comune,  si contraddicono da sé,
    così come l'assassinio  di  un  uomo  per  il  fatto  che  sono  stati
    riconosciuti  i  suoi  diritti  o  come  l'annientamento di milioni di
    uomini in Russia allo scopo di abbattere e avvilire l'Inghilterra.  Ma
    queste  giustificazioni  hanno  un'indispensabile  importanza  per  il
    pensiero dei contemporanei.
    Esse liberano da ogni responsabilità morale gli uomini che compiono  i
    fatti.  Hanno  uno  scopo  provvisorio,  come le pale che precedono il
    treno sulle rotaie per sgomberare la via;  esse sgomberano cioè la via
    della coscienza degli uomini.  Senza tali giustificazioni non potrebbe
    aver risposta la domanda più semplice  che  si  presenta  alla  nostra
    mente  di  fronte a qualsiasi avvenimento: per quale motivo milioni di
    uomini compiono delitti collettivi, guerre, assassinii, eccetera?
    Nelle attuali, complesse forme di vita politica e sociale in Europa, è
    forse possibile immaginare un qualsiasi avvenimento che non sia  stato
    prestabilito,  indicato,  ordinato da sovrani, ministri, parlamentari,
    giornalisti?  C'è  forse  qualche  azione  collettiva  che  non  trovi
    giustificazione    nell'unità    del    potere,    nel   nazionalismo,
    nell'equilibrio europeo,  nella  civiltà?  Ogni  avvenimento  compiuto
    concorda  immancabilmente con uno dei desideri espressi e,  trovata la
    sua giustificazione,  si presenta come il risultato della  volontà  di
    una o di più persone.
    Qualunque sia la rotta di una nave, si vedrà sempre davanti ad essa il
    solco  delle  onde divise dalla prua.  Per la gente che si trova sulla
    nave, il moto di quelle onde sarà l'unico movimento visibile.
    Soltanto seguendo da vicino,  minuto per minuto,  il formarsi di  quel
    solco e confrontandolo con il movimento della nave, ci renderemo conto
    che  ogni istante del movimento delle onde è determinato dal movimento
    della nave e che il nostro errore di valutazione era causato dal fatto
    che noi pure, senza rendercene conto, avanzavamo.
    La stessa cosa vedremo seguendo di momento in momento il  cammino  dei
    personaggi  storici,  ponendo cioè le indispensabili condizioni di ciò
    che si sta compiendo: le condizioni di  continuità  di  movimenti  nel
    tempo,  senza  perdere  di vista il necessario legame tra i personaggi
    storici e le masse.
    Quando una nave procede,  sempre seguendo la stessa rotta,  davanti le
    si forma sempre lo stesso solco;  quando muta spesso rotta,  muta allo
    stesso modo il solco che correndo le si apre davanti,  ma da qualsiasi
    parte essa si giri, un solco le si aprirà sempre dinanzi.
    Qualsiasi  fatto  accada  risulterà  sempre  che  esso  fu  previsto e
    ordinato.  Qualsiasi direzione prenda una nave,  le si  apre  davanti,
    senza guidarne e senza accelerarne il moto, un solco tra le acque, che
    di  lontano  ci  darà  l'impressione che non solo si tratti di un moto
    spontaneo, ma che sia esso la causa prima del movimento della nave.

    Osservando soltanto quelle espressioni della  volontà  dei  personaggi
    storici  che possono essere considerate,  come ordini,  corrispondenti
    agli  avvenimenti,   gli  storici  ritennero   che   gli   avvenimenti
    dipendessero dagli ordini.  Esaminando invece gli avvenimenti stessi e
    il legame che unisce alle masse i personaggi storici  abbiamo  trovato
    che  i personaggi storici e i loro ordini dipendono dagli avvenimenti.
    Come indiscutibile prova di questa asserzione può valere il fatto che,
    per quanto numerosi siano gli  ordini,  l'avvenimento  non  si  compie
    senza  il  concorso  di  altre  cause;  ma  non appena l'avvenimento è
    compiuto,   qualunque  esso  sia,   tra  tutte  le  volontà   espresse
    continuamente dai diversi personaggi se ne trovano talune che, secondo
    il  loro  senso  e  secondo  il  loro  tempo,  possono essere riferite
    all'avvenimento come ordini.
    Giunti a questa conclusione,  possiamo rispondere con  certezza  e  in
    modo positivo alle due domande che ci pone la storia:
    1) Che cosa è il potere?
    2) Qual è la forza che dà origine al movimento dei popoli?

    1)  Il  potere  è il rapporto tra un individuo noto e altri individui,
    secondo il quale questo individuo,  quanto meno partecipa a un'azione,
    tanto più esprime le opinioni,  le considerazioni e le giustificazioni
    dell'azione collettiva.
    2)  Il  movimento  dei  popoli  non  è  un  effetto  del  potere,   né
    dell'attività intellettuale, e neppure dell'unione di queste due cose,
    come  ritengono gli storici,  ma dell'attività di tutti gli uomini che
    partecipano all'avvenimento e che si raggruppano sempre  in  modo  che
    coloro  che prendono più diretta parte all'avvenimento stesso assumono
    responsabilità minori, e viceversa.
    Per quanto riguarda il punto di vista  morale,  il  potere  appare  la
    causa di ogni avvenimento; per quanto riguarda quello fisico, appaiono
    invece cause di ogni avvenimento coloro che al potere si sottomettono.
    Ma poiché un'attività morale è impensabile disgiunta da quella fisica,
    dobbiamo  dire che la causa di un evento non si trova né nell'una,  né
    nell'altra, ma soltanto nell'unione di tutte e due.
    Ovvero, in altre parole, al fenomeno che noi stiamo considerando non è
    applicabile il concetto di causa.
    In ultima analisi,  giungiamo a quel circolo eterno,  a  quell'estremo
    limite al quale,  in qualsiasi campo del pensiero, giunge l'intelletto
    umano se non gioca con l'oggetto della sua riflessione.  L'elettricità
    produce   calore,   il  calore  produce  elettricità.   Gli  atomi  si
    attraggono, gli atomi si respingono.
    Parlando  della  semplice  azione  del  calore  e  dell'elettricità  e
    parlando degli atomi, non possiamo dire perché avvengano questi fatti,
    e perciò affermiamo che tale è la natura di quei fenomeni,  che tale è
    la loro legge.  La stessa cosa vale per  i  fenomeni  storici.  Perché
    scoppiano  le  guerre  e  le  rivoluzioni?  Non lo sappiamo;  sappiamo
    soltanto che,  perché si compia questo o quell'altro avvenimento,  gli
    uomini   si   riuniscono   in   dati  raggruppamenti  ai  quali  tutti
    partecipano;  e diciamo che è così perché questa  è  la  natura  degli
    uomini, perché tale è la legge.


    CAPITOLO 8.

    Se la storia avesse a che fare soltanto con i fenomeni esterni, questa
    semplice ed evidente legge sarebbe sufficiente, e noi avremmo concluso
    le  nostre  considerazioni.  Ma la legge della storia riguarda l'uomo.
    Una particella di materia non può dirci se essa non senta  il  bisogno
    dell'attrazione  o della repulsione e se questo bisogno non sia reale;
    ma l'uomo,  che è l'oggetto della storia,  dice apertamente: "Io  sono
    libero e perciò non sono sottomesso a legge alcuna".
    Il problema,  sebbene non espresso,  sul libero arbitrio dell'uomo, si
    fa sentire a ogni passo della storia.
    Tutti gli storici seriamente impegnati si sono, loro malgrado, trovati
    davanti a questo problema. Tutte le contraddizioni, le oscurità di cui
    è disseminata la via sbagliata della storia,  hanno unicamente origine
    dalla mancata soluzione di tale problema.
    Se  la  volontà di ogni uomo fosse libera,  ovvero se ciascuno potesse
    agire a modo suo,  tutta la storia non sarebbe che una serie  di  casi
    fortuiti senza nesso.
    Se  nel corso di un millennio,  anche uno solo tra i milioni di uomini
    avesse la possibilità di agire  liberamente,  ossia  come  meglio  gli
    piace,  è evidente che una sola azione libera di quest'uomo, contraria
    alle leggi,  annullerebbe la possibilità di qualsiasi legge valida per
    tutto il genere umano.
    Se  invece  esiste  anche  una  sola  legge che diriga le azioni degli
    uomini,  allora non può più esistere il libero  arbitrio,  giacché  la
    volontà degli uomini deve sottostare a questa legge.
    In  tale  contraddizione  consiste  il  problema  del libero arbitrio,
    problema che  sin  dai  tempi  più  remoti  ha  occupato  i  più  alti
    intelletti dell'umanità e che dai tempi più remoti è stato considerato
    nella sua immensa importanza.
    Il  problema  consiste  in  questo che,  studiando l'uomo da qualsiasi
    punto di vista  -  teologico,  storico,  etico,  filosofico   -    noi
    troviamo una legge comune di necessità alla quale egli, come tutti gli
    esseri viventi,  è soggetto.  Considerandolo, invece, dal "nostro" io,
    come oggetto della nostra coscienza, noi ci sentiamo liberi.
    Questa  coscienza  è  una  sorgente  della  conoscenza,  assolutamente
    distinta e indipendente dalla ragione.  Per mezzo della ragione l'uomo
    osserva se stesso, ma si conosce soltanto per mezzo della coscienza.
    Senza  la  coscienza  di  sé,   qualsiasi  osservazione  e   qualsiasi
    applicazione della ragione diventa assurda.
    Per comprendere, osservare, concludere, l'uomo deve avere coscienza di
    sé come essere vivente. Ma l'uomo si riconosce essere vivente soltanto
    attraverso  la propria volontà,  cosciente,  cioè,  di una volontà sua
    propria. Ma questa volontà, che costituisce l'essenza stessa della sua
    vita, egli non la riconosce e non può riconoscerla se non come libera.
    Se, sottoponendo se stesso a un'attenta osservazione, egli vede che la
    sua volontà è diretta sempre da un'unica legge (sia che osservi in  sé
    la  necessità  del cibo,  dell'attività cerebrale o di qualsiasi altra
    funzione),  egli non può intendere questa costante disposizione  della
    sua volontà se non come una limitazione della stessa. Qualcosa che non
    fosse  libero  non potrebbe neppure essere limitato.  La volontà umana
    gli si presenta limitata precisamente perché non la concepisce se  non
    come libera.
    Voi  dite che io non sono libero.  Ma io ho alzato e poi abbassato una
    mano.  Chiunque si rende conto che  questa  illogica  risposta  è  una
    inconfutabile dimostrazione della mia libera volontà.
    Questa  risposta  è  un'espressione  di  quella  coscienza  che  non è
    sottomessa alla ragione.
    Se la consapevolezza  della  libertà  non  fosse  una  sorgente  della
    coscienza di sé,  separata e indipendente dalla ragione,  essa sarebbe
    sottoposta  alla  ragione  e  all'esperienza;  ma  nella  realtà  tale
    sottomissione non avviene mai e sarebbe assurda.
    Una serie di esperienze e di considerazioni mostra a ognuno di noi che
    l'uomo,   come   oggetto   di  osservazione,   è  sottoposto  a  leggi
    determinate,  e l'uomo vi si sottopone e non lotta mai  contro  quelle
    che   conosce,   quali  la  legge  della  gravità  o  la  legge  della
    impenetrabilità dei corpi.  La  medesima  serie  di  esperienze  e  di
    considerazioni  gli dimostra che la piena libertà che egli sente in sé
    non è possibile, che ogni sua attività dipende dal suo organismo,  dal
    suo  carattere  e dai motivi che agiscono su di lui;  ma l'uomo non si
    sottomette mai alle conclusioni  tratte  da  queste  esperienze  e  da
    questi ragionamenti.
    Avendo  appreso dall'esperienza e dal ragionamento che una pietra cade
    verso il basso,  l'uomo ci crede con  assoluta  certezza,  e  in  ogni
    circostanza aspetta la conferma della legge da lui appresa.
    Però,  pur  avendo appreso con la medesima certezza che la sua volontà
    soggiace e certe leggi, a questo non crede e non può credere.
    Per quante volte l'esperienza  e  la  riflessione  abbiano  dimostrato
    all'uomo  che  nelle  medesime  circostanze,  con  quella  sua  indole
    particolare,  agirà sempre come ha già  agito,  egli,  accingendosi  a
    compiere  per la millesima volta,  nelle medesime circostanze,  con la
    medesima indole, un'azione conclusasi sempre allo stesso modo, avrà la
    medesima convinzione di poter agire come  vorrà,  e  che  in  lui  era
    precedente a qualsiasi esperienza.  Ogni uomo, sia egli un selvaggio o
    un pensatore,  sebbene l'esperienza e il ragionamento  gli  dimostrino
    che   è   impossibile   agire  in  due  modi  diversi  nelle  medesime
    circostanze,  sente però che senza quest'assurda idea (che costituisce
    l'essenza  della  libertà) non può concepire la vita.  Sente che,  per
    impossibile che sia, pur tuttavia "è", giacché senza questa idea della
    libertà, egli non solo non potrebbe concepire la vita, ma non potrebbe
    vivere neppure un momento.
    Non potrebbe vivere perché tutte le aspirazioni  degli  uomini,  tutti
    gli  impulsi verso la vita non sono che aspirazioni a un accrescimento
    della libertà. La ricchezza e la povertà,  la gloria e l'oscurità,  il
    potere  e  la sottomissione,  la forza e la debolezza,  la salute e la
    malattia, l'istruzione e l'ignoranza, l'attività e l'ozio,  la sazietà
    e  la  fame,  la virtù e il vizio non sono che maggiori o minori gradi
    della libertà.
    Immaginare  un  uomo  privo  di  libertà  non  è  possibile   se   non
    immaginandolo privo di vita.
    Se  il  concetto  di  libertà  si  presenta alla mente come un assurda
    contraddizione,  come la possibilità di compiere  diversi  atti  nelle
    medesime condizioni o come un agire senza causa, ciò dimostra soltanto
    che la coscienza di essa non è soggetta alla ragione.
    Proprio  questa  incrollabile  e  incontestabile  consapevolezza della
    libertà non soggetta all'esperienza e al raziocinio,  riconosciuta  da
    tutti  i  pensatori  e  da  tutti gli uomini senza esclusione,  questa
    consapevolezza senza la quale  l'uomo  non  è  pensabile,  costituisce
    l'altro aspetto del problema.
    L'uomo  è  la  creazione di un Dio onnipotente,  infinitamente buono e
    onnisciente.  Che cos'è dunque il peccato,  la cui comprensione  nasce
    dalla coscienza della libertà? Ecco il problema della teologia.
    Le  azioni  dell'uomo  sono  soggette  a  leggi  comuni  e immutabili,
    espresse dalla statistica. In che cosa dunque consiste, di fronte alla
    società,  la responsabilità dell'uomo,  la cui  conoscenza  scaturisce
    dalla coscienza della libertà? Ecco il problema del diritto.
    Le azioni dell'uomo dipendono dall'indole datagli dalla natura e dalle
    cause  che  influiscono  su  tale  indole.  Che  cosa  sono  dunque la
    coscienza, la cognizione del bene e del male delle nostre azioni,  che
    scaturiscono  dalla  consapevolezza  della  libertà?  Ecco il problema
    dell'etica.
    L'uomo,  legato com'è alla vita comune del  genere  umano,  ci  appare
    soggetto  alle  leggi  che  determinano questa vita.  Ma questo stesso
    uomo,  indipendentemente  da  tale  legame,  ci  appare  libero.  Come
    dev'essere   dunque   considerata   la   vita  passata  dei  popoli  e
    dell'umanità?  Dobbiamo considerarla come  un  prodotto  dell'attività
    libera  o  di  quella  non  libera  dell'uomo?  Ecco il problema della
    storia.
    Soltanto in questi nostri presuntuosi  tempi  di  volgarizzazione  del
    sapere,  grazie all'arma più forte dell'ignoranza, la diffusione della
    stampa,  il problema del libero arbitrio è portato su un  terreno  sul
    quale non è nemmeno più possibile porlo.
    Nel  nostro tempo la maggioranza dei cosiddetti uomini di avanguardia,
    una folla cioè di ignoranti ha considerato i lavori  dei  naturalisti,
    che  si occupano di un solo lato del problema,  come la risoluzione di
    tutto il problema.
    Non esistono l'anima né il libero arbitrio,  giacché la vita dell'uomo
    si  esprime  in  un  movimento  di  muscoli condizionato dall'attività
    nervosa; l'anima e il libero arbitrio non possono esistere giacché, in
    un'epoca remota,  siamo derivati dalle  scimmie,  dicono,  scrivono  e
    stampano, senza lontanamente sospettare che già migliaia di anni fa da
    tutte le religioni e da tutti i pensatori non solo fu riconosciuta, ma
    non fu mai negata quella stessa legge di necessità che ora,  con tanti
    sforzi,  essi cercano di dimostrare per mezzo della fisiologia e della
    zoologia  comparata.  Essi  non vedono che in questo problema il ruolo
    delle scienze naturali consiste soltanto nel servire da strumento  per
    illuminare un aspetto del problema. Giacché il fatto che, dal punto di
    vista  dell'osservazione,  la  ragione  e  la  volontà  non  siano che
    secrezioni  ("sécrétions")  del  cervello,  e  il  fatto  che  l'uomo,
    seguendo  una legge generale,  possa essersi sviluppato,  in un ignoto
    periodo di tempo da animali inferiori,  illumina  soltanto,  sotto  un
    diverso aspetto, una verità riconosciuta già da un migliaio di anni da
    tutte  le  religioni e da tutte le teorie filosofiche,  la verità cioè
    che dal punto di vista dell'intelletto l'uomo soggiace alla  legge  di
    necessità, il che non fa progredire neppure di un capello la soluzione
    del  problema  che  ha un altro lato opposto,  fondato sulla coscienza
    della libertà.
    Che gli uomini in uno sconosciuto  periodo  di  tempo  siano  derivati
    dalle  scimmie  è un'ipotesi altrettanto incomprensibile quanto quella
    secondo la quale essi sono derivati, in un periodo conosciuto,  da una
    manciata di terra (nel primo caso l'incognita,  la x,  è il tempo; nel
    secondo è l'origine),  e il problema del modo  con  cui  la  coscienza
    della  libertà  dell'uomo si concilii con la legge di necessità,  alla
    quale egli è sottomesso,  non può essere  risolto  con  la  fisiologia
    comparata  e  la  zoologia,  perché  nella rana,  nel coniglio e nella
    scimmia noi possiamo notare soltanto un'attività muscolare  e  nervosa
    mentre nell'uomo,  oltre a tale attività, noi possiamo osservare anche
    la coscienza.
    I naturalisti e i loro ammiratori,  che ritengono di risolvere  questo
    problema, sono simili a stuccatori incaricati di stuccare un lato solo
    della  parete  di  una  chiesa  e che,  approfittando dell'assenza del
    direttore dei lavori,  in un eccesso  di  zelo,  avessero  coperto  di
    stucco anche le finestre,  le immagini sacre, le travature e le pareti
    non ancora consolidate, e si rallegrassero, dal loro punto di vista di
    stuccatori, per il fatto di vedere tutto liscio e uniforme.


    CAPITOLO 9.

    La soluzione del problema della libertà e  della  necessità  ha  nella
    storia    -  in confronto alle altre branche della scienza nelle quali
    esso è stato posto  -  il vantaggio che, riguardo alla storia,  non si
    riferisce   all'essenza   stessa   della   volontà   umana,   ma  alla
    considerazione della manifestazione di essa nel  passato  e  in  certe
    condizioni.
    Per la soluzione di questo problema, la storia si trova di fronte alle
    altre  scienze  nella stessa situazione in cui le scienze sperimentali
    si trovano di fronte a quelle speculative.
    La storia ha per oggetto  non  la  volontà  stessa  dell'uomo,  ma  la
    rappresentazione che noi ce ne facciamo.
    E perciò per la storia non esiste, come per la teologia, per l'etica e
    per la filosofia, il mistero insolubile dell'unione della libertà alla
    necessità.  La  storia considera un aspetto della vita dell'uomo,  nel
    quale l'unione di queste due termini contraddittori è già compiuta.
    Nella vita reale ogni  evento  storico,  ogni  azione  dell'uomo  sono
    compresi  con  molta  chiarezza  e  molto  ben definiti,  senza che si
    avverta la sensazione di una sia  pur  minima  contraddizione  sebbene
    ogni  evento  si  rappresenti  in  parte  come  libero,  in parte come
    necessario.
    Per la soluzione del problema di come avvenga la fusione tra libertà e
    necessità e che cosa costituisca l'essenza di questi due concetti,  la
    filosofia  della  storia  può e deve procedere per una via contraria a
    quella per cui sono procedute le altre scienze.
    Anziché,  dopo aver definito i concetti di  libertà  e  di  necessità,
    collocare  sotto  queste definizioni i fenomeni della vita,  la storia
    deve trarre,  dalla quantità innumerevole dei  fenomeni  che  le  sono
    soggetti  e  che  sempre  vengono  rappresentati dipendenti dal libero
    arbitrio e  dalla  necessità,  i  concetti  stessi  di  libertà  e  di
    necessità.
    In  qualsiasi modo noi osserviamo la rappresentazione dell'attività di
    un solo uomo o di molti uomini, non possiamo intenderla se non come il
    prodotto in parte della libertà dell'uomo,  in parte  della  necessità
    delle leggi.
    Sia  che  parliamo  della  migrazione  dei  popoli  o  delle invasioni
    barbariche,  sia  che  parliamo  dei  decreti  di  Napoleone  Terzo  o
    dell'azione  di un uomo (compiuta un'ora fa) che consiste nel fatto di
    aver scelto, tra le molte possibili,  la direzione di una passeggiata,
    noi  non  vi  scorgiamo  la  più piccola contraddizione.  La misura di
    libertà e di necessità che ha guidato le azioni di questi uomini è per
    noi chiaramente definita.
    Molto spesso il concetto della maggiore o minore libertà è  diverso  a
    seconda  della  diversità  del  punto  di vista dal quale esaminiamo i
    fenomeni; ma ogni atto umano ci appare sempre come una certa unione di
    libertà e di necessità.  In ogni atto che consideriamo,  noi scorgiamo
    sempre una parte di libertà e una parte di necessità e sempre,  quanto
    maggiore è la parte di libertà che noi vediamo,   -  di qualsiasi atto
    si tratti  -  tanto minore è quella della necessità e viceversa.
    Il rapporto tra libertà e necessità diminuisce o aumenta a seconda del
    punto  di  vista dal quale il fatto viene considerato,  ma il rapporto
    rimane sempre inversamente proporzionale.
    Un uomo sul punto di affogare che si afferra a un altro e lo  trascina
    con  sé,  o  una  madre  affamata  ed esausta perché sta allattando un
    bambino, che ruba un po' di cibo, o un uomo addestrato alla disciplina
    che,  costretto ad ubbidire,  uccide un uomo indifeso,  appaiono  meno
    colpevoli,  ossia meno liberi e più soggetti alla legge di necessità a
    colui che conosca le condizioni in cui questi  individui  si  trovano,
    più  liberi  a  colui  che ignori che il primo uomo stava sul punto di
    annegare, che la madre era affamata, che il soldato era nell'esercizio
    delle sue funzioni eccetera.
    Precisamente allo stesso modo un uomo,  che vent'anni  addietro  abbia
    commesso un omicidio e sia poi vissuto tranquillamente e senza nuocere
    ad alcuno, in mezzo alla società, appare assai meno colpevole e la sua
    azione  maggiormente  soggetta  alla  legge  di  necessità a colui che
    esamini il suo gesto a distanza di  vent'anni,  e  più  libero  a  chi
    esamini  quello  stesso  gesto il giorno successivo a quello in cui il
    gesto stesso è stato compiuto.  E così  accade  sempre  che  qualsiasi
    azione  compiuta  da  un  pazzo,  da  un  ubriaco o da un individuo in
    condizione di forte eccitazione appare meno libero e più necessario  a
    chi conosca lo stato d'animo della persona che ha commesso l'azione, e
    più libero e meno necessario a chi lo ignori.  In tutti questi casi si
    allarga  o  si  restringe  il  concetto  di  libero  arbitrio  e,   in
    proporzione,  aumenta  o  diminuisce  quello di necessità,  secondo il
    punto di vista dal  quale  l'atto  viene  esaminato.  Cosicché  quanto
    maggiore  è  la  necessità,  tanto  minore  è  il  libero  arbitrio  e
    viceversa.
    La religione, il buon senso del genere umano, la scienza del diritto e
    la storia stessa comprendono parimenti questo rapporto tra necessità e
    libertà.
    Tutti i casi,  senza eccezione,  nei quali  aumenta  o  diminuisce  il
    nostro  concetto  della  libertà  e della necessità hanno soltanto tre
    basi:
    1) Il rapporto dell'uomo che ha compiuto l'atto con il mondo esterno;
    2) con il tempo;
    3) con le cause che hanno prodotto l'atto.

    1) La prima base è data dal rapporto più o meno visibile dell'uomo con
    il mondo esterno,  la comprensione più o meno  chiara  di  quel  posto
    definito  che  ciascun  uomo occupa in rapporto a tutto ciò che esiste
    contemporaneamente in lui.  E' questa la base in  seguito  alla  quale
    riesce  evidente  che  un  uomo  che sta affogando è meno libero e più
    soggetto alla necessità di un uomo che si trovi sulla terraferma; è la
    base grazie alla quale le azioni  di  un  uomo  che  viva  in  stretti
    rapporti  con altri uomini in un luogo densamente popolato,  le azioni
    di un uomo legato dalla famiglia, dall'impiego,  dagli affari appaiono
    senza dubbio meno libere e più soggette alla necessità delle azioni di
    un uomo che viva solo e privo di legami.
    Se noi consideriamo un uomo isolatamente, che non abbia alcun rapporto
    con tutto ciò che lo circonda, ogni sua azione ci appare libera. Ma se
    noi  avvertiamo  un  qualsiasi  rapporto  tra  quell'uomo e ciò che lo
    circonda,  se notiamo un suo legame  con  qualsivoglia  cosa,  con  la
    persona  che gli parla,  con il libro che sta leggendo,  con il lavoro
    che egli compie,  e persino con l'aria che lo circonda e con  la  luce
    che cade sugli oggetti che gli stanno dattorno,  ci rendiamo conto che
    ciascuna di queste condizioni esercita su di lui il proprio influsso e
    guida almeno una parte della sua attività.  E  quanto  più  avvertiamo
    questi  influssi,  tanto  più si restringe il concetto che ci facciamo
    della sua libertà,  mentre aumenta quello della necessità  alla  quale
    egli obbedisce.
    2) La seconda base è il maggiore o minor rapporto di tempo che si vede
    tra un uomo e il mondo,  o il più o meno chiaro concetto del posto che
    l'azione di un uomo occupa nel tempo.  Questa è la  base  per  cui  la
    caduta  del  primo  uomo,  che ha avuto come conseguenza l'origine del
    genere umano,  si presenta evidentemente meno libera che il matrimonio
    di  un  nostro  contemporaneo.  E'  questa  la  base per cui la vita e
    l'opera degli uomini,  vissuti secoli or sono e legati a me nel tempo,
    non  possono apparirmi liberi come la vita contemporanea di cui ancora
    ignoro le conseguenze.
    La gradualità del concetto che ci facciamo  sulla  maggiore  o  minore
    libertà  e  necessità di questo rapporto dipende dal maggiore o minore
    lasso di tempo che intercorre tra l'atto compiuto e il giudizio che di
    esso viene dato.
    Se io considero un'azione da me compiuta  un  minuto  fa,  all'incirca
    nelle  stesse  condizioni  in  cui  mi trovo ora,  la mia azione mi si
    presenta, senza ombra di dubbio, libera.  Ma se considero un'azione da
    me  compiuta  un  mese  fa,  trovandomi  io ora in condizioni diverse,
    riconosco, mio malgrado, che se quell'azione non fosse stata compiuta,
    molte cose utili, piacevoli e anche necessarie, da essa derivate,  non
    ci  sarebbero  state.  Se  mi  trasporto con il pensiero a considerare
    un'azione compiuta più indietro nel tempo,   -  dieci anni e anche più
    -   le conseguenze della mia azione mi appariranno ancora più evidenti
    e mi riuscirebbe difficile immaginare che  cosa  sarebbe  accaduto  se
    quella tale azione non fosse stata compiuta. E quanto più indietro nel
    tempo  mi  porterò  con il ricordo o,  il che è lo stesso,  quanto più
    avanti mi trasferirò nel futuro con il  mio  giudizio,  tanto  più  mi
    apparirà dubbia la libertà di quell'atto.
    Questa  stessa  progressione  di  convinzioni sulla partecipazione del
    libero arbitrio negli avvenimenti  umani  collettivi,  noi  ritroviamo
    nella  storia.  Il  compimento di un avvenimento contemporaneo ci pare
    senza alcun dubbio opera di tutti gli  uomini  conosciuti;  ma  di  un
    avvenimento  più lontano noi già scorgiamo le conseguenze inevitabili,
    oltre alle quali non possiamo immaginare niente altro.  E  quanto  più
    con  la  memoria  ci trasportiamo indietro nel tempo e ne consideriamo
    gli eventi, tanto meno questi ci appaiono arbitrari.
    La guerra austro-prussiana  ci  appare  con  certezza  la  conseguenza
    dell'astuta opera di Bismarck.  Le guerre napoleoniche,  seppur con un
    certo dubbio,  ci appaiono ancora come conseguenza  della  volontà  di
    eroi; ma nelle Crociate scorgiamo già un avvenimento che occupa un suo
    posto  ben definito e senza il quale sarebbe impensabile la successiva
    storia  dell'Europa,   benché  ai  cronisti  delle   Crociate   quegli
    avvenimenti   apparissero  soltanto  opera  della  volontà  di  alcuni
    personaggi.  Quando la faccenda riguarda le migrazioni dei  popoli,  a
    nessuno  oggigiorno  viene  in  mente che dalla volontà di Attila (24)
    dipendesse il rinnovamento del mondo  europeo.  Quanto  più  è  remoto
    l'avvenimento  storico,  oggetto della nostra osservazione,  tanto più
    incerta ci appare la libertà degli uomini che hanno preso  parte  alla
    vicenda e tanto più evidente la legge di necessità.
    3)  La  terza  base  è  la  maggiore  o  minore possibilità per noi di
    cogliere  l'infinita  concatenazione  delle  cause   che   costituisce
    un'insopprimibile  esigenza  dell'intelletto e in cui ogni fenomeno  -
    e perciò ogni azione dell'uomo   -    deve  avere  un  suo  posto  ben
    definito  come  conseguenza  degli  avvenimenti  precedenti e causa di
    quelli futuri.
    E' la base grazie alla  quale  le  azioni  nostre  e  degli  altri  ci
    appaiono  da  un  lato  tanto più libere e meno soggette alla legge di
    necessità quanto più note ci sono le leggi fisiologiche,  psicologiche
    e  storiche  alle quali l'uomo è soggetto e quanto più attento è stato
    il nostro  studio  sulla  causa  psicologica,  fisiologica  o  storica
    dell'azione;   dall'altro   lato,   quanto  più  semplice  è  l'azione
    osservata,  tanto meno sono complessi il  carattere  e  l'intelligenza
    dell'uomo che la compie.
    Quando  noi  comprendiamo  assolutamente  le  cause di un'azione,  non
    importa che si tratti di un delitto,  di un'opera  buona  o  anche  di
    un'azione indifferente quanto al bene e al male, noi vi avvertiamo una
    massima  dose  di  libertà.  Nel  caso  di  un  delitto,  noi esigiamo
    soprattutto che il gesto malvagio sia punito;  nel  caso  di  un'opera
    buona  ne  apprezziamo  soprattutto  il  valore  morale.  Nel caso che
    l'azione non tenda ad alcuno scopo né buono, né cattivo,  riconosciamo
    di  essa  l'individualità,  la  personalità  e  la libertà espresse al
    massimo grado.  Ma basta che una sola  delle  innumerevoli  cause  che
    hanno  dato  origine all'azione ci sia nota perché noi vi riconosciamo
    una parte maggiore di necessità e sentiamo con minor forza  l'esigenza
    che il delitto sia punito,  e apprezziamo meno la bontà dell'azione, e
    riconosciamo meno libertà nell'atto che ci era sembrato originale.  Il
    fatto  che un delinquente sia cresciuto in un ambiente di delinquenti,
    diminuisce già la gravità della sua colpa.  Il sacrificio di un padre,
    di  una madre,  il sacrificio che può avere una ricompensa,  ci riesce
    più comprensibile di un sacrificio compiuto  senza  motivo,  e  perciò
    appare meno meritevole di simpatia,  meno libero.  Il fondatore di una
    setta o di un partito, l'inventore, destano meno la nostra ammirazione
    quando sappiamo come e da che cosa è stata preparata la loro opera. Se
    possediamo una lunga serie di esperienze,  se la nostra osservazione è
    sempre rivolta alla ricerca delle relazioni tra causa ed effetto nelle
    azioni  degli  uomini,  esse  ci appaiono tanto più necessarie e tanto
    meno libere quanto maggiore è la sicurezza con cui noi colleghiamo  le
    cause  con  gli  effetti.  Se  le  azioni prese in considerazione sono
    semplici e noi ne abbiamo avuto a nostra disposizione un gran  numero,
    la  loro  necessità ci appare ancora più evidente.  L'azione disonesta
    del figlio di un padre disonesto,  la cattiva condotta  di  una  donna
    caduta  in  un  certo  ambiente,  il  ritorno  all'ubriachezza  di  un
    alcoolizzato eccetera,  sono azioni che tanto meno ci appaiono  libere
    quanto  più  ce  ne  sono  evidenti  i  motivi.  Se  poi l'uomo di cui
    osserviamo le  azioni,  sta  sul  più  basso  gradino  dello  sviluppo
    intellettuale,  come il bambino, il pazzo, lo scemo, noi conoscendo le
    cause dell'azione e la  semplicità  del  carattere  e  dello  sviluppo
    intellettuale,  vediamo  già  una parte così grande di necessità e una
    parte così piccola di libertà che,  non appena ci è nota la causa  che
    deve determinare l'atto, noi possiamo già prevederlo.
    Soltanto  su  queste tre basi si fondano il concetto,  riconosciuto da
    tutte le leggi,  della irresponsabilità nel delitto,  e  quello  delle
    circostanze  attenuanti.  La  responsabilità  appare maggiore o minore
    secondo la conoscenza maggiore o minore delle condizioni  nelle  quali
    venne  a trovarsi la persona della quale si giudica l'azione,  secondo
    il tempo più o meno lungo trascorso dal compimento dell'azione sino al
    momento in cui essa viene giudicata,  secondo  la  maggiore  o  minore
    comprensione delle cause che hanno determinato l'azione stessa.


    CAPITOLO 10.

    E  così il nostro concetto della libertà e della necessità si dilata e
    si restringe gradatamente, secondo il legame più o meno stretto con il
    mondo esterno,  secondo  la  maggiore  o  minore  distanza  del  tempo
    trascorso  e  la  maggiore o minore dipendenza dalle cause nell'ambito
    delle quali noi esaminiamo il fenomeno della vita umana.
    Cosicché, se esaminiamo un uomo in una situazione in cui il suo legame
    con il mondo esterno sia meglio conosciuto e sia più lungo il  periodo
    trascorso  dal tempo del compimento dell'azione al momento in cui essa
    viene giudicata,  e siano  più  comprensibili  le  cause  che  l'hanno
    originata,  noi riceviamo l'impressione di una necessità maggiore e di
    una  minore  libertà.   Se  invece  esaminiamo  un  uomo  nella  minor
    dipendenza  possibile  dalle  condizioni  esterne,  se la sua azione è
    stata compiuta in un tempo vicinissimo e le cause che l'hanno motivata
    ci sfuggono, riceviamo l'impressione di una minor parte di necessità e
    di una maggior parte di libertà.
    Ma sia nell'uno,  sia nell'altro caso,  per quanto noi possiamo mutare
    il  nostro  punto di vista,  per quanto cerchiamo di rendere chiaro il
    legame che unisce l'uomo al mondo  esterno  o  questo  legame  non  ci
    appaia  comprensibile,  per  quanto si allunghi o si abbrevi il tempo,
    per quanto chiare o incomprensibili ci appaiano le cause,  non potremo
    mai rappresentarci né una completa libertà, né una completa necessità.
    1)  Per  quanto ci figuriamo un uomo escluso dalle influenze del mondo
    esterno,  non riusciremo mai ad avere il concetto della libertà  nello
    spazio.  Ogni  azione dell'uomo è condizionata inevitabilmente dal suo
    stesso corpo e da ciò che lo circonda.  Io alzo una mano e la abbasso.
    La  mia  azione mi appare libera,  ma se mi chiedo: potevo io alzar la
    mano in qualsiasi direzione?  osservo che l'ho alzata nella  direzione
    in  cui  il  mio gesto incontrava meno ostacoli,  sia nei corpi che mi
    circondano, sia nella struttura del mio corpo stesso.  Se tra tutte le
    possibili direzioni ne ho scelta una, l'ho scelta perché in essa mi si
    opponeva  un  minore  numero  di  ostacoli.  Perché  la mia azione sia
    libera, è necessario che non incontri ostacolo alcuno. Per immaginarsi
    un  uomo  libero,   dobbiamo  pensarlo  fuori  dallo  spazio  il  che,
    evidentemente, è impossibile.
    2)  Per  quanto ravviciniamo il momento del nostro giudizio al momento
    dell'azione,  non avremo mai il concetto della libertà nel  tempo.  Se
    infatti  considero  un'azione  compiuta  un secondo fa,  devo tuttavia
    riconoscere la non libertà dell'azione,  giacché essa è legata a  quel
    momento del tempo nel quale è stata compiuta. Posso alzare la mano? La
    alzo, ma mi domando: avrei potuto non alzarla in quel momento di tempo
    ormai trascorso? Per persuadermi di ciò, nel momento che segue, io non
    la  alzo.  Ma  io  non  l'ho  alzata in quel preciso momento in cui mi
    chiedevo se fossi libero.  E' passato l'attimo di  tempo  che  io  non
    avevo  il  potere  di  trattenere,  e  la  mano  che ho alzato allora,
    quell'aria nella quale ho compiuto quel gesto,  non sono  già  più  la
    stessa  aria  che  ora mi circonda e quella mano non è più la mano che
    adesso non muovo.  L'attimo in cui è stato compiuto il primo movimento
    non  torna più,  e in quell'attimo io potevo fare un movimento solo e,
    qualsiasi movimento io abbia fatto,  non poteva essere che quello.  Il
    fatto che,  nel momento successivo,  io non abbia alzato la mano,  non
    prova che io non potessi alzarla.  E poiché il  mio  movimento  poteva
    essere  uno solo in un solo momento del tempo,  esso evidentemente non
    poteva essere  un  altro.  Per  immaginarlo  libero,  bisogna  che  lo
    immagini  nell'attimo presente,  al limite tra il passato e il futuro,
    ossia fuori del tempo, cosa quindi impossibile.
    3) Per quanto si accresca la difficoltà di comprendere le  cause,  non
    giungeremo mai a rappresentarci una totale libertà, ossia una completa
    mancanza  di  cause.  Per  quanto  ci  sia incomprensibile la causa di
    un'espressione della volontà in qualsiasi atto nostro o di  altri,  la
    prima  esigenza  dell'intelletto è la supposizione e la ricerca di una
    causa senza la quale è impossibile qualsiasi fenomeno. Io alzo la mano
    per compiere un atto indipendente da qualsiasi causa,  ma il fatto che
    io voglia compiere un atto che non abbia alcuna causa,  è già la causa
    del mio atto.
    Ma anche se,  immaginandoci un uomo  totalmente  libero  da  qualsiasi
    influenza,  limitandoci a esaminare un suo atto del momento presente e
    supponendo  che  esso  non  sia  provocato  da   alcuna   causa,   noi
    ammettessimo un infinitesimale residuo di necessità,  pari a zero, non
    giungeremo tuttavia alla concezione della  totale  libertà  dell'uomo;
    giacché  un essere che non subisca alcuna influenza dal mondo esterno,
    che si trovi fuori dal tempo e che sia indipendente da ogni  sorta  di
    cause, non è più un uomo.
    Così  pure  non  potremmo  mai  immaginarci un'azione di un uomo,  che
    avvenga senza la partecipazione  della  volontà  e  che  sia  soggetta
    unicamente alla legge della necessità.
    1)  Per  quanto  si dilati la nostra conoscenza delle condizioni dello
    spazio nelle quali un uomo si trova,  questa conoscenza non può essere
    totale,  poiché il numero di tali condizioni è infinito, come infinito
    è lo spazio. E perciò,  poiché non tutte le condizioni e non tutti gli
    influssi che agiscono sull'uomo sono definiti,  non esiste un'assoluta
    necessità, ma in essa c'è pur sempre una certa parte di libertà.
    2) Per quanto si allunghi il periodo di  tempo  tra  il  fenomeno  che
    stiamo  osservando  e  il  momento  del giudizio,  questo periodo sarà
    sempre finito, mentre il tempo è infinito; e perciò in questo rapporto
    non ci potrà mai essere un'assoluta necessità.
    Ma oltre a ciò,  pur ammettendo il residuo minimo di  libertà  pari  a
    zero,  se riconoscessimo in qualsiasi caso, per esempio in un uomo che
    sta per morire,  in un idiota,  in un embrione,  l'assoluta assenza di
    libertà,  noi  distruggeremmo  il concetto stesso dell'uomo che stiamo
    esaminando giacché, non appena la libertà viene a mancare, cessa anche
    di esistere l'uomo.  E perciò la rappresentazione di un'azione  umana,
    soggetta  alla  sola  legge  di necessità,  senza il minimo residuo di
    libertà,  è altrettanto  impossibile  quanto  la  rappresentazione  di
    un'azione umana pienamente libera.
    Così, per figurarci l'azione di un uomo soggetto alla sola legge della
    necessità,  senza  libertà,  dobbiamo  ammettere  la  conoscenza di un
    "infinito" numero di condizioni nello spazio, in un "infinito" periodo
    di tempo per un'"infinita" serie di cause.
    Per raffigurarci un uomo pienamente libero,  non soggetto  alla  legge
    della necessità,  dobbiamo raffigurarcelo "fuori dallo spazio", "fuori
    dal tempo" e "fuori" da qualsiasi dipendenza da qualsiasi causa.
    Nel primo caso, se fosse possibile la necessità senza la libertà,  noi
    giungeremmo alla definizione della legge della necessità attraverso la
    necessità stessa, ossia ad una forma senza contenuto.
    Nel  secondo  caso,  se fosse possibile la libertà senza la necessità,
    noi giungeremmo ad una libertà incondizionata, fuori dallo spazio, dal
    tempo,  dalle  cause,  la  quale,   per  il  fatto  stesso  di  essere
    incondizionata e non limitata in alcun modo,  non sarebbe altro che un
    contenuto senza forma.
    Giungeremmo, in conclusione,  alle due basi sulle quali poggia l'umana
    concezione  del  mondo:  all'inconcepibile  essenza  della vita e alle
    leggi che tale essenza definiscono.
    La ragione dice: 1) lo spazio,  con tutte le forme  con  le  quali  la
    materia  ce  lo  rende  percettibile,  è  infinito  e  non  può essere
    concepito diversamente; 2) il tempo è un moto continuo senza un attimo
    di pausa,  e non può essere concepito in altro modo;  3) la  relazione
    tra cause ed effetti non ha inizio e non può aver fine.
    La  coscienza  dice:  1)  Io  sono  solo,  e  tutto  ciò  che esiste è
    costituito dal mio io; di conseguenza comprendo in me lo spazio; 2) io
    misuro il tempo che fugge con l'immobilità dell'attimo  presente,  nel
    quale solo mi riconosco vivente perciò io sono fuori dal tempo;  3) io
    sono fuori da qualsiasi causa giacché sento di  essere  io  stesso  la
    causa di qualsiasi manifestazione della mia vita.
    La  ragione  esprime  le  leggi della necessità.  La coscienza esprime
    l'essenza della libertà.
    La libertà,  che non è limitata da alcunché,  è l'essenza  della  vita
    nella  coscienza dell'uomo.  La necessità senza contenuto è la ragione
    umana nelle sue tre forme.
    La libertà è ciò che viene esaminato.  La necessità è chi esamina.  La
    libertà è il contenuto. La necessità è la forma.
    Soltanto  con  il  disgiungimento delle due sorgenti della conoscenza,
    che stanno l'una all'altra come la forma al contenuto, si acquisiscono
    i concetti di libertà e di necessità che, considerati isolatamente, si
    escludono a vicenda e riescono incomprensibili.
    E soltanto congiungendoli otteniamo una chiara rappresentazione  della
    vita dell'uomo.
    Fuori   da   questi   due  concetti,   che,   uniti,   si  determinano
    reciprocamente,   -  come la forma e il contenuto  -    è  impossibile
    alcuna idea della vita umana.
    Tutto  ciò  che  sappiamo del mondo esterno della natura è soltanto un
    certo rapporto tra libertà e necessità,  ossia tra la coscienza  leggi
    della ragione.
    Tutto  ciò  che  sappiamo del mondo esterno della natura è soltanto un
    certo rapporto tra le forze della natura e  la  necessità,  ossia  tra
    l'essenza della vita e le leggi della ragione.
    Le  forze  vitali  della natura sono al di fuori di noi,  e noi non ne
    abbiamo coscienza: le definiamo  gravitazione,  energia,  elettricità,
    forza  animale  eccetera;  della forza vitale dell'uomo abbiamo invece
    coscienza, e la definiamo libertà.
    Ma come la forza di gravitazione,  sebbene avvertita da ogni uomo,  ci
    riesce  di per sé incomprensibile e la comprendiamo soltanto in quanto
    conosciamo le leggi della necessità alle quali  essa  soggiace,  dalla
    prima  conoscenza  che  tutti  i corpi sono pesanti sino alla legge di
    Newton (25), così la forza della libertà, di per sé incomprensibile ma
    di cui ognuno ha coscienza,  ci riesce  comprensibile  solo  per  quel
    tanto  di  cui  ci  sono  note  le leggi di necessità che la governano
    (cominciando da quella per  cui  ogni  uomo  deve  morire,  sino  alla
    conoscenza delle più complesse leggi della economia e della storia).
    Ogni  conoscenza  non  è che la sottoposizione dell'essenza della vita
    alle leggi della ragione.
    La libertà dell'uomo si distingue da ogni altra forza per il fatto che
    di essa l'uomo ha coscienza,  ma per la ragione essa non differisce in
    nulla  da  qualsiasi  altra  forza.  La forza di gravitazione,  quelle
    dell'elettricità o delle affinità chimiche si distinguono tra di  loro
    soltanto perché sono definite in modo diverso dalla ragione. Così pure
    la forza della libertà dell'uomo si differenzia, per la ragione, dalle
    forze  della  natura  soltanto  per  la  definizione che di essa dà la
    ragione.  Ma la libertà senza necessità,  ossia senza le  leggi  della
    natura  che  la  definiscono,   non  si  differenzia  in  nulla  dalla
    gravitazione, dal calore o dalla forza vegetativa; per la ragione essa
    non è che una momentanea, indefinita sensazione della vita.
    E come l'indefinibile essenza della forza che muove i  corpi  celesti,
    l'indefinibile  essenza della forza del calore,  dell'elettricità o le
    forze  delle  affinità  chimiche  o  quelle  vitali  costituiscono  il
    contenuto    dell'astronomia,    della   chimica,    della   botanica,
    dell'astrologia  eccetera,  così  l'essenza  della  forza  del  libero
    arbitrio  costituisce  il  contenuto  della  storia.  Ma  proprio come
    l'oggetto  di  qualsiasi  scienza  è  una  manifestazione  di   questa
    conosciuta  essenza  della  vita,  questa stessa,  la quale può essere
    soltanto l'oggetto della  metafisica,  così  le  manifestazioni  della
    forza del libero arbitrio degli uomini,  considerato nello spazio, nel
    tempo e dipendente da una causa, costituiscono l'oggetto della storia;
    la libertà, invece, in sé e per sé è oggetto della metafisica.
    Nelle scienze sperimentali definiamo legge di necessità ciò che  ci  è
    conosciuto,  mentre definiamo energia vitale ciò che ci è sconosciuto.
    La forza vitale non è che l'espressione della parte ignota  di  quanto
    conosciamo dell'essenza della vita.
    La  stessa cosa accade nella storia: ciò che ci è noto chiamiamo legge
    di necessità, e chiamiamo libero arbitrio ciò che non conosciamo.
    Per la storia,  il libero arbitrio è soltanto l'espressione di  quello
    che ci resta ignoto di quanto sappiamo sulle leggi che reggono la vita
    umana.


    CAPITOLO 11.

    La  storia  studia  le manifestazioni della libertà dell'uomo nei suoi
    rapporti con il mondo esterno,  nel tempo  e  nella  dipendenza  dalle
    cause;  definisce  cioè la sua libertà secondo le leggi della ragione,
    perciò la storia è una scienza soltanto in  quanto  questa  libertà  è
    definita dalle suddette leggi.
    Per  la  storia il riconoscere la libertà dell'uomo come una forza che
    può influire sugli eventi storici,  che non  sia  cioè  dipendente  da
    leggi,  corrisponde a quello che è per l'astronomia il riconoscere una
    libera forza che muove i corpi celesti.
    Un riconoscimento del genere distrugge la  possibilità  dell'esistenza
    di  ogni legge,  ossia di qualsiasi forma di cognizione.  Se esiste un
    solo corpo celeste che si muova liberamente, non esistono più le leggi
    di Keplero (26) e di  Newton  e  non  esiste  più  la  possibilità  di
    rappresentare  il movimento dei corpi celesti.  Se esiste un solo atto
    libero dell'uomo,  non esiste più alcuna legge  storica,  e  manca  la
    possibilità di farci una qualsiasi idea sugli eventi storici.
    Per  la  storia  esistono  le linee del movimento delle volontà umane,
    delle quali un estremo si  nasconde  nell'ignoto,  mentre  all'estremo
    opposto  si  muove  nello  spazio,  nel  tempo e nella relazione delle
    cause, la coscienza del libero arbitrio nel presente.
    Quanto più, dinanzi ai nostri occhi, si dilata il campo del movimento,
    tanto più di tale movimento ci appaiono evidenti le leggi. Coglierle e
    definirle costituisce il compito della storia.
    Dal punto di vista dal quale la  scienza  studia  attualmente  il  suo
    oggetto,  dalla via che essa segue per ricercare le cause dei fenomeni
    nella libera volontà degli uomini,  non è possibile che  essa  formuli
    delle  leggi giacché,  per quanto si limiti il libero arbitrio,  basta
    che lo riconosciamo come una forza non soggetta  a  leggi  perché  sia
    impossibile l'esistenza di qualsiasi legge.
    Soltanto  limitando all'infinito questa libertà,  ossia considerandola
    una   quantità   infinitesimale,    noi    ci    convinceremo    della
    irraggiungibilità  delle  cause  e  allora,  anziché  occuparsi  della
    ricerca delle cause,  la storia si assumerà il compito  della  ricerca
    delle leggi. Già da gran tempo tale ricerca ha avuto inizio, e i nuovi
    procedimenti  del  pensiero  che  la storia deve fare propri,  vengono
    elaborati contemporaneamente all'auto-annientamento verso il quale  la
    vecchia storia è avviata, con lo sminuzzare sempre di più le cause dei
    fenomeni.
    Per  questa via sono andate innanzi tutte le scienze umane.  Giungendo
    all'infinitamente piccolo,  la matematica  -    la  più  esatta  delle
    scienze    -    abbandona  il  processo del frazionamento e ne usa uno
    nuovo,   quello  di  sommare  le  incognite   infinitamente   piccole.
    Rinunziando  al  concetto  di  causa,  la matematica ricerca la legge,
    ossia le proprietà comuni a tutti gli elementi  ignoti,  infinitamente
    piccoli.
    Sebbene  in  altra forma,  ma seguendo lo stesso cammino,  sono andate
    avanti le altre  scienze.  Quando  Newton  ha  scoperto  la  legge  di
    gravitazione,  egli  non  ha  detto che il sole o la terra avessero la
    proprietà di attrarre: ha detto che tutti i corpi,  dal più grosso  al
    più  piccolo,  hanno  la  proprietà  di  attirarsi  a vicenda;  ossia,
    lasciando in disparte la  questione  della  causa  del  movimento  dei
    corpi,  egli ha enunciato una proprietà comune a tutti i corpi,  dagli
    infinitamente grandi agli infinitamente piccoli.  La stessa cosa fanno
    le  scienze naturali: tralasciando il problema delle cause,  ricercano
    le leggi. Su questa stessa via procede anche la storia. E se la storia
    ha come oggetto di studio i movimenti dei popoli e dell'umanità,  essa
    non  deve  descrivere  gli  episodi  della  vita di alcune persone ma,
    trascurando il concetto di causa,  deve ricercare le  leggi  comuni  a
    tutti  gli  elementi  uguali  infinitamente piccoli e collegati tra di
    loro, della libertà.


    CAPITOLO 12.

    Da quando fu scoperto e  adottato  il  sistema  copernicano,  la  sola
    costatazione  che  non è il sole a muoversi ma la terra,  ha distrutto
    l'intera  cosmografia  degli  antichi.  Si  poteva,  respingendo  quel
    sistema.  mantenere  il  vecchio concetto sul movimento dei corpi;  ma
    pareva che,  senza averlo respinto,  non fosse possibile proseguire lo
    studio  dei mondi di Tolomeo (27),  Tuttavia anche dopo la scoperta di
    Copernico (28), i mondi di Tolomeo continuarono ad essere studiati per
    molto tempo ancora.
    Da quando fu detto e dimostrato che il  numero  delle  nascite  e  dei
    delitti  è  soggetto  a leggi matematiche e che particolari condizioni
    geografiche e politico-economiche  determinano  questa  o  quest'altra
    forma  di governo,  che certi rapporti tra la popolazione e il terreno
    sono la causa del movimento dei popoli, da allora furono, in sostanza,
    distrutte le basi sulle quali si edificava la storia.
    Era possibile,  rinnegando le  nuove  leggi,  mantenere  la  primitiva
    opinione  sulla  storia  ma,  non  avendole  rinnegate,  pare  non  si
    potessero proseguire gli  studi  storici  come  effetto  della  libera
    volontà  degli  uomini.  Giacché  se si è instaurata una data forma di
    governo o si è verificato un certo movimento di popoli  in  seguito  a
    date condizioni etnografiche o economiche, la volontà di quegli uomini
    che  ci  appaiono  come  i  fondatori  di  quella forma di governo o i
    promotori di quel movimento di popolo, non può venire considerata come
    una causa efficiente.
    E frattanto si continua a studiare la storia con  il  vecchio  sistema
    ossia  con le leggi della statistica,  della geografia,  dell'economia
    politica,   della  filologia  comparata  e  della  geologia,   che  ne
    contraddicono decisamente le asserzioni.
    Lunga  e  ostinata fu nella filosofia fisica la lotta tra i vecchi e i
    nuovi punti di  vista.  La  teologia  stava  a  difesa  della  vecchia
    opinione e accusava la nuova di distruggere la Rivelazione.  Ma quando
    la verità ebbe la vittoria,  la teologia  si  schierò  saldamente  sul
    nuovo terreno.
    Così continua ancor oggi,  lunga e ostinata, la lotta tra le vecchie e
    le nuove concezioni della storia, e,  proprio come prima,  la teologia
    si  erge  a  difesa  delle  vecchie  opinioni  e  accusa  le  nuove di
    distruggere la Rivelazione.
    Così, tanto nell'uno quanto nell'altro caso,  la lotta suscita da ambo
    le parti le passioni e soffoca la verità. Da un lato si manifestano la
    paura e il rammarico per tutto l'edificio eretto nel corso dei secoli;
    dall'altro lato si manifesta la passione distruggitrice.
    Agli  uomini  che  lottavano  contro  la  nuova verità della filosofia
    fisica pareva che,  se avessero riconosciuto  quella  verità,  sarebbe
    andata  distrutta  la  fede in Dio,  nella creazione,  nel miracolo di
    Giosuè (29).  Ai difensori delle leggi di Copernico  e  di  Newton,  a
    Voltaire,   per   esempio,   pareva   che   le  leggi  dell'astronomia
    distruggessero la religione,  e Voltaire si serviva,  come arma contro
    la religione, della gravitazione universale.
    Così  sembra anche adesso che basti ammettere la legge della necessità
    perché siano distrutti i concetti di anima,  di bene e di male  e  che
    insieme  vengano  distrutte le istituzioni dello Stato e della Chiesa,
    su tali concetti fondate.
    Così anche ora, come Voltaire ai suoi tempi, i difensori non richiesti
    della legge di necessità si servono di questa legge  come  di  un'arma
    contro  la  religione;  mentre  invece,    -  proprio come la legge di
    Copernico nell'astronomia  -  la legge di necessità nella  storia  non
    solo non distrugge ma fortifica, anzi, il terreno sul quale si fondano
    le istituzioni dello Stato e della Chiesa.
    Come  allora  nelle  questioni dell'astronomia,  così adesso in quelle
    della storia tutti i diversi punti di vista si basano sulla conoscenza
    o sulla non conoscenza di un'unità assoluta,  che serva da  misura  ai
    fenomeni sensibili.
    Come  per  l'astronomia  la difficoltà di ammettere il movimento della
    terra  consisteva  nel  fatto  di  dover  rinunziare  alla  sensazione
    assoluta della sua immobilità e alla sensazione, altrettanto assoluta,
    del  movimento  dei  pianeti,  così  per  la  storia  la difficoltà di
    ammettere la soggezione della personalità dell'uomo alle  leggi  dello
    spazio,  del  tempo  e  delle cause,  consiste nel rinunziare al senso
    immediato della indipendenza della propria personalità.  Ma  come  per
    l'astronomia la nuova teoria dichiarò: "E' vero, noi non avvertiamo il
    moto della terra ma, ammettendone l'immobilità, giungiamo all'assurdo,
    mentre  ammettendone  il  moto,  che  pur non avvertiamo,  giungiamo a
    formulare delle leggi", così per la storia,  la nuova teoria dice: "E'
    vero, noi non avvertiamo la nostra dipendenza ma, ammettendo la nostra
    libertà,  giungiamo  a  un  assurdo,  mentre  riconoscendo  la  nostra
    dipendenza  dal  mondo  esterno,   dallo  spazio  e  dalla  causalità,
    arriviamo a scoprire le leggi".
    Nel   primo   caso   era   necessario   rinunziare   alla   sensazione
    dell'immobilità nello spazio e accettare l'idea di  un  movimento  che
    non  avvertiamo;  nel caso presente è ugualmente necessario rinunziare
    al concetto di libertà e  ammettere  una  dipendenza  di  cui  non  ci
    rendiamo conto sensibilmente.








    NOTE.

    N.  1.  Edward  Gibbon  (1737-1794),  storico  inglese,  autore di una
    "Storia del declino e della  caduta  dell'impero  romano",  ostile  al
    Cristianesimo.
    N.  2. Henry Thomas Buckle (1821-1862), storico inglese, autore di una
    "Storia della civiltà in Inghilterra".
    N. 3.  Luigi Quattordicesimo il grande,  detto il Re Sole (1638-1715),
    figlio  di  Luigi  Tredicesimo  (1601-1643) e di Anna d'Austria (1601-
    1666).  Re a cinque anni governò per lui il cardinale Mazarino  (1602-
    1661) sotto la reggenza della regina Anna.  Morto il cardinale,  Luigi
    Quattordicesimo governò personalmente la Francia,  e fu re assoluto in
    tutta  l'estensione della parola,  facendo tutto piegare attorno a sé:
    nobiltà, parlamento,  clero,  borghesia.  Il suo regno fu una continua
    serie di guerre che coprirono la Francia di gloria,  ma la spopolarono
    e ne rovinarono le finanze (la qual cosa,  unitamente al fasto e  alla
    corruzione della Corte,  preparò la rovina della monarchia).  Il regno
    di Luigi Quattordicesimo fu per la Francia quello che  per  Atene  era
    stata  l'epoca di Pericle (492-429 avanti Cristo) e per Roma quella di
    Augusto (63 avanti Cristo-14 dopo Cristo).  Numerosissimi sono infatti
    i  grandi  uomini vissuti in quel tempo: Corneille,  Racine,  Molière,
    Lafontaine, Pascal, La Rochefoucauld e via dicendo.
    N.  4.  Luigi Diciottesimo (1755-1824),  fratello di Luigi Sedicesimo.
    Durante  i  Cento  giorni  si  rifugiò  a  Gand,  tornò  a Parigi dopo
    Waterloo.  Gli successe il fratello conte d'Artois,  con  il  nome  di
    Carlo Decimo ( 1757-1836).
    N.  5. Pierre Lanfrey (1828-1877) pubblicista e uomo politico francese
    repubblicano,  scrisse una "Storia di Napoleone",  assai severa  verso
    l'imperatore, che giudica nemico della libertà e del popolo.
    N.  6.  Georg Gottfried Gervinus (1805-1871),  storico e uomo politico
    tedesco.  Dopo aver insegnato nelle  università  di  Heidelberg  e  di
    Gottingen, venne eletto deputato al parlamento di Francoforte, dove fu
    uno dei capi dell'opposizione liberale.  Deluso,  abbandonò in seguito
    la vita pubblica e la carriera universitaria e dedicò il suo  tempo  a
    consolidare,  mediante  una  monumentale  "Storia  del  diciannovesimo
    secolo dopo i trattati di Vienna" (8  volumi)  il  prestigio  che  gli
    aveva già dato la "Storia della poesia nazionale tedesca".  Può essere
    considerato il fondatore della storia della letteratura in Germania.
    N.  7.  Friedrich Christoph Schlosser  (1776-1861),  storico  tedesco.
    Professore  di  storia  a  Heidelberg,  scrisse: "Storia universale in
    narrazione continua" (19 volumi) e "Storia dei secoli  diciottesimo  e
    diciannovesimo", opere ispirate alla filosofia kantiana.
    N. 8. Il più popolare degli antichi eroi della Grecia, figlio di Giove
    e  di  Alcmena,  noto  per la sua forza straordinaria,  per le "dodici
    fatiche" e per la partecipazione a numerosi altri  miti.  Il  mito  di
    Ercole  è  tra  i  soggetti  preferiti  della  letteratura e dell'arte
    classica.
    N. 9. Luigi Undicesimo (1423-1483), re dei Francesi dal 1461.  Lottò a
    lungo  contro i grandi Signori (Lega del Pubblico Bene) e contro Carlo
    il  Temerario  (1433-1477)  duca  di  Borgogna;  fu  despota  crudele,
    superstizioso, senza scrupoli. Dai Francesi è considerato come uno dei
    fondatori della loro unità nazionale.  Morì assistito da San Francesco
    di Paola (1416-1507),  che egli aveva fatto venire dall'Italia già  da
    qualche anno. Gli succedette il figlio Carlo Ottavo (1470-1498).
    N.  10.  Carlo Luigi Napoleone Bonaparte (1808-1873), nato a Parigi da
    Luigi  Bonaparte  (1778-1846),   re  di  Olanda,   e  da  Ortensia  di
    Beauharnais (1783-1837).  Dopo una gioventù avventurosa tentò nel 1836
    a Strasburgo e nel 1840 a  Boulogne  di  farsi  acclamare  imperatore,
    rovesciando Luigi Filippo (1773-1850). Condannato a prigionia perpetua
    in  seguito  a questi tentativi,  fu chiuso nel castello di Ham donde,
    travestito da muratore,  fuggì nel Belgio.  Nel 1848 tornò in  Francia
    dove  era  stata abbattuta la monarchia di Luigi Filippo,  e fu eletto
    presidente della nuova Repubblica francese.  Tre  anni  dopo,  con  il
    famoso colpo di stato del dicembre 1851,  dichiarava abolito il regime
    repubblicano e ristabiliva l'impero,  assumendo il nome  di  Napoleone
    Terzo. Dal 1852 al 1867 fu l'arbitro dell'Europa; la guerra d'Oriente,
    le  due spedizioni contro la Cina (1857 e 1860) e la guerra vittoriosa
    del 1859 in Italia posero un'altra volta la Francia alla  testa  degli
    stati  d'Europa.  Allorché  lo zar Nicola Primo (1796-1855) reclamò il
    protettorato  sugli  ortodossi  dei  Balcani,  Francia  e  Inghilterra
    sbarcarono  truppe  in Crimea,  alleandosi alla Turchia nella guerra a
    cui per volontà di Cavour,  partecipò anche il Piemonte.  Napoleone fu
    alleato del Piemonte,  dopo i patti di Plombières, in quella che fu la
    nostra seconda  guerra  di  indipendenza.  L'infelice  spedizione  nel
    Messico  (1862)  contro  il  repubblicano Benito Juarez e dove insediò
    come imperatore Massimiliano d'Asburgo  (1832-1867),  fucilato  poi  a
    Queretaro nel 1867;  gli insuccessi della sua politica d'intervento in
    Germania e Polonia e il malcontento dei partiti estremisti all'interno
    prepararono la sua caduta. Egli stesso l'affrettò,  dichiarando guerra
    alla  Prussia  che  da molti anni si preparava alla lotta e che,  dopo
    aver sconfitto più volte l'esercito francese, lo batté definitivamente
    a Sédan,  nel 1870.  L'imperatore stesso fu  fatto  prigioniero.  Dopo
    alcuni mesi fu liberato;  si ritirò in Gran Bretagna,  nel castello di
    Chislehurst, ove morì. Nel 1853 aveva sposato la bellissima Eugenia di
    Montijo (1826-1920).
    N. 11.  Ivàn Quarto,  detto il Terribile (1530-1584),  divenne zar a 3
    anni.  Fu  il  primo  principe  russo  ad  assumere  il  titolo di zar
    (Caesar).   Lottò   strenuamente   contro   i   boiardi,    affermando
    l'assolutismo  monarchico.  Per  dodici anni esercitò ii potere con la
    collaborazione di un  consiglio  privato;  questo  fu  un  periodo  di
    equilibrio,  caratterizzato  dall'azione  benefica  della  principessa
    Anastasia Romanòv che lo zar aveva sposato nel 1547.  Ivàn migliorò la
    giurisprudenza,  facendo  codificare i provvedimenti adottati dai suoi
    predecessori e riunì nel 1549 i primi siati Generali russi,  per mezzo
    dei quali organizzò un rudimento di amministrazione locale, formata da
    organi eletti dalla popolazione.  Costituì il primo nucleo di esercito
    permanente, il corpo degli "streltzy",  soldati che ricevevano in dono
    porzioni di terra in premio della loro fedeltà. Riorganizzò la Chiesa.
    Poi  iniziò  le grandi spedizioni verso l'esterno;  combatté contro la
    Svezia e la Polonia e iniziò la penetrazione russa in Siberia.
    N.  12.  Carlo Primo Stuart (1600-1649) fu dai suoi ministri Strafford
    (1593-1641)  e  soprattutto Buckingham ( 1592-1628) sospinto sulla via
    del dispotismo,  mettendosi così in continua lotta con  il  Parlamento
    che  condannò  Strafford  a morte.  Nel 1642 scoppiò la guerra civile:
    Carlo Primo fu sconfitto a Naseby,  condotto prigioniero qua e là  per
    il  regno  sino  a  che,   per  ordine  di  Cromwell  (1599-1658),  fu
    giustiziato.
    N. 13.  Carlo Decimo,  noto dapprima come conte di Artois (1757-1836),
    fu  re  di Francia dal 1824 al 1830.  Impopolarissimo per le ostentate
    concezioni assolutistiche, la leggerezza dei costumi e le folli spese,
    fautore della destra  reazionaria  e  clericale,  volle  riportare  la
    Francia  all'Ancien  Régime.  Dopo  il breve ministero semiliberale di
    Martignac,  nel  1829  lo  affidò  all'amico  Polignac,  che  incontrò
    l'immediata ostilità dell'opinione pubblica.  Poiché il 25 luglio 1831
    la Camera era stata rieletta  con  un'accresciuta  opposizione,  Carlo
    Decimo  emise  le  famose  "quattro  ordinanze  di  Saint-Cloud",  che
    sospendevano la  libertà  di  stampa  e  riducevano  il  numero  degli
    elettori.  Nonostante il successo di una spedizione in Algeria, Parigi
    insorse, alzò le barricate, cacciò il re e il suo ministro,  mentre il
    La  Fayette  (1754-1834)  offriva  la  reggenza  dello  stato  a Luigi
    Filippo, duca di Orléans.
    N.  14.  Figlio di Filippo di Orléans detto "Filippo  Egalité",  Luigi
    Filippo (1773-1850) fu re dei Francesi dal 1830 al 1848. Appena salito
    al  potere  dovette reprimere le insurrezioni repubblicane di Parigi e
    di Lione e, successivamente,  quella dei bonapartisti.  Consolidato il
    potere, si adoperò per mantenere la pace; sostenne la politica del non
    intervento;  portò  a  termine  la  conquista dell'Algeria e riconobbe
    l'indipendenza del Belgio.  Eletto re in seguito alla rivoluzione  del
    1830,  cadde  in  seguito  a  un'altra rivoluzione (febbraio 1848) che
    proclamò la cosiddetta Seconda Repubblica, e dovette fuggire.
    N. 15.  Denis Diderot (1713-1784),  filosofo.  fu ardente propugnatore
    delle  idee  filosofiche  rivoluzionarie del diciottesimo secolo e uno
    dei fondatori della famosa Enciclopedia.  Scrisse pure romanzi e opere
    di teatro.
    N.  16.  Pierre-Augustin Caron de Beaumarchais (1732-1799),  scrittore
    francese,  fu autore del "Barbiere di Siviglia" e del  "Matrimonio  di
    Figaro",  opere che ispirarono il genio di Paisiello,  di Rossini e di
    Mozart.
    N. 17. Andréj Michàjlovic' Kurbskij (1528-1583) fu consigliere di Ivàn
    Quarto  il  Terribile  sino  a  che  questi  regnò  sotto   l'influsso
    moderatore della moglie,  ma quando nel 1564 lo zar cominciò a lottare
    contro i boiardi per fondare uno stato assoluto,  il principe Kurbskij
    si  rifugiò  in Lituania da dove inviò al sovrano uno scritto pieno di
    accuse per le sue tendenze verso un dispotismo sanguinario.
    N.  18.  Goffredo di Buglione (1060-1100) partì nel 1096 per la  prima
    crociata  con  i  suoi fratelli Eustachio e Baldovino,  e il 15 luglio
    espugnò la santa  città.  Ricusò  il  titolo  di  re  di  Gerusalemme,
    offertogli  dai  Crociati,  dicendo essere sconveniente portare corona
    d'oro là dove Cristo l'aveva portata di spine e preferì il  titolo  di
    Difensore  del  Santo Sepolcro.  Morì di veleno propinatogli,  dicono,
    dall'emiro di Cesarea.
    N. 19. Si allude a Luigi Settimo (1120-1180),  re di Francia dal 1137,
    che  partecipò  alla  seconda  Crociata  per volontà di papa Celestino
    Secondo (1143-1144),  e a Luigi Nono il Santo  (1214-1270).  Nel  1248
    quest'ultimo  allestì  la  sesta  Crociata e sbarcò a Damietta,  ma fu
    sconfitto e fatto prigioniero. Liberato,  andò in Siria e in Palestina
    e  nel 1254 tornò in Francia,  dove attese al riordinamento del regno.
    Rafforzò l'autorità regia;  fece molte buone leggi;  abolì  il  duello
    giudiziario  e  fondò  la  Sorbona.  Nel  1270 intraprese la settima e
    ultima Crociata,  ma morì di peste  a  Tunisi  prima  di  giungere  in
    Terrasanta. Fu re piissimo, la sua virtù e la sua giustizia gli fecero
    guadagnare  la stima degli stessi mussulmani.  Fu canonizzato nel 1297
    da Bonifacio Ottavo.
    N. 20.  Pietro l'Eremita (1050?-1115),  monaco di Amiens,  predicò con
    Urbano  Secondo (1042-1099) la prima Crociata,  decisa dal concilio di
    Clermont (1095) e vi prese parte. Seguito da una turba disorganizzata,
    giunse nell'Anatolia,  poi ritornò a Costantinopoli dove,  con i pochi
    seguaci rimasti,  attese l'arrivo delle truppe dei baroni,  alle quali
    si unì.
    N.  21.  Iniziatore della Riforma,  patriarca del luteranesimo  e  del
    protestantesimo,  Martin  Lutero  (1483-1546) fu monaco agostiniano ad
    Erfurt dal 1505 e professore di teologia all'università di  Wittenberg
    dal 1508. Nel 1517 prese pretesto dalla pubblicazione delle indulgenze
    per  chi  avesse  aiutato  la fabbrica della Basilica di San Pietro in
    Roma per ribellarsi alla Chiesa.  pubblicando 95 tesi,  in cui  negava
    ogni  valore  alle  indulgenze,  alle  penitenze,  ai voti religiosi e
    all'intercessione dei Santi.  Scomunicato dal pontefice  Leone  Decimo
    (1475-1521) nel 1520, bruciò la bolla. L'anno dopo comparve alla Dieta
    di Worms per giustificarsi,  e fu condannato al bando dall'impero.  La
    sua dottrina fu una vera  rivoluzione  religiosa  e  sociale  che,  in
    breve,  poté  guadagnare tutta la Germania e i paesi scandinavi,  meno
    per l'opera  di  lui  che  per  le  condizioni  religiose,  sociali  e
    politiche dell'impero.  Nel clero secolare e regolare,  e molto più in
    tutte le altre classi della popolazione,  regnavano l'ignoranza  nelle
    cose  di  religione  e  la rilassatezza dei costumi.  Le ricchezze del
    clero facevano gola ai principi e ai signori; frequenti erano i litigi
    tra clero  e  magistrati  in  favore  dei  propri  diritti  insidiati,
    generale  l'avversione  alla  Santa  Sede.  Si aggiunga a tutto questo
    l'opera demolitrice degli umanisti,  notevolmente quella di Ulrico  di
    Hutten  (1487-1550)  e di Erasmo da Rotterdam (1466?-1536),  che sulla
    Chiesa,  sul Papato e sulle istituzioni monastiche versavano  a  piene
    mani  lo  scherno  e  la  calunnia.  La  predicazione del luteranesimo
    attizzò la guerra dei contadini e quella degli anabattisti e la  lunga
    guerra contro l'imperatore la quale,  dopo varie vicende,  terminò con
    la pace di Passavia (1552),  confermata da quella di  Augusta  (1555).
    Gli  ultimi  anni della vita di Lutero furono amareggiati dai dissensi
    scoppiati tra i suoi seguaci e dai disordini sopravvenuti nelle  nuove
    chiese.
    N.  22.  Guglielmo  Primo  (1791-1888),  re  di  Prussia  dal  1861  e
    imperatore di Germania dal 1871.
    N. 23.  Otto von Bismarck (1815-1898),  detto il Cancelliere di ferro.
    Presidente  dei  ministri  dal  1862,  si  adoperò  subito per attuare
    l'unità germanica sotto l'egemonia prussiana. Nel 1864,  alleatosi con
    l'Austria,  fece  guerra  alla  Danimarca  cui  tolse  lo  Schleswig e
    l'Holstein; nel 1866 combatté contro l'Austria (è la guerra cui qui si
    allude) e riportò la vittoria di Sadowa  che  diede  alla  Prussia  il
    primato sui popoli germanici;  nel 1870-71, con la guerra alla Francia
    di Napoleone Terzo,  tolse a questa l'Alsazia e la  Lorena.  Nel  1878
    iniziò  una politica coloniale,  occupando vasti territori nell'Africa
    orientale e occidentale.  Nel 1882,  infine,  riuscì a  concludere  il
    trattato  della  Triplice Alleanza (Prussia,  Italia,  Austria) con lo
    scopo di isolare la Francia. Venuto però a morte il vecchio imperatore
    Guglielmo Primo e,  dopo la breve apparizione di Federico Terzo (1831-
    1888),  salito  al trono Guglielmo Secondo (1859-1941) non tardarono a
    sorgere screzi e dissapori tra il  giovane  imperatore  e  il  vecchio
    cancelliere; costretto a dare le dimissioni (18 marzo 1890), si ritirò
    nella  sua  villa di Friedrichsruh,  dove attese a scrivere le proprie
    "Memorie", pubblicate postume (1898-1921).
    N. 24. Attila (395 circa  -  453),  re degli Unni,  volle unificare le
    varie  tribù  per  farne una forte nazione.  Verso il 430 comparve sul
    Reno come ausiliario dei Romani,  in  lotta  contro  i  Burgundi  e  i
    Visigoti.  Dal  441 al 447 devastò l'impero d'Oriente e ruppe guerra a
    Valentiniano Terzo (419-455),  imperatore  d'Occidente,  invadendo  le
    Gallie,   ma   fu  sconfitto  nella  sanguinosa  battaglia  dei  Campi
    Catalaunici da  Ezio,  generale  romano.  Nel  452  scese  in  Italia,
    distrusse Aquileia e occupò varie città dell'Italia settentrionale, ma
    poi  per riverenza al papa san Leone Primo (papa dal 440 al 461),  che
    gli si era mosso incontro, ripassò al di là delle Alpi. Morì poco dopo
    soffocato da un'emorragia al naso.  Nella leggenda  eroica  germanica,
    Attila  è a volte tiranno crudele e infido ("flagellum Dei");  a volte
    sovrano saggio e desideroso di pace.
    N.  25.  Isaac Newton  (1642-1727),  fisico,  matematico  e  astronomo
    inglese, fu lo scopritore della legge di gravitazione universale.
    N.  26.  Johannes  Keplero  (1571-1630) matematico e astronomo tedesco
    copernicano. Famose le sue tre leggi astronomiche che regolano il moto
    dei pianeti e che aprirono a Newton la via per definire  la  legge  di
    gravitazione universale.
    N.  27.  Tolomeo (138?-180? dopo Cristo) fu il più celebre astronomo e
    geografo dell'antichità.  Tra  le  sue  opere  ricordiamo  il  "Grande
    compendio di astronomia" in 13 libri, tradotto dagli Arabi con il nome
    di "Almagesto", nel quale Tolomeo espone il sistema astronomico che da
    lui  prese  il  nome  di  tolemaico e che dominò sino alla rivoluzione
    copernicana.
    N. 28.  Nicolò Copernico (1473-1543),  sommo astronomo polacco.  Nella
    sua opera "De revolutionibus orbium coelestium", dedicata al pontefice
    Paolo Terzo (1468-1549;  papa dal 1534),  espose la teoria che pone il
    sole come centro di tutto il  movimento  planetario  e  attribuisce  a
    ciascun  pianeta  due  movimenti,  quello  di  rotazione  e  quello di
    rivoluzione.  Galileo (1564-1642),  Keplero e  Newton  completarono  e
    perfezionarono le dottrine copernicane.
    N.  29.  Profeta  e  condottiero  del  popolo  ebreo,  luogotenente  e
    successore di Mosè,  condusse gli Ebrei nella Terra promessa.  Espugnò
    Gerico  e  in una battaglia contro cinque principi,  ordinò al sole di
    fermarsi per aver tempo di sfruttare la vittoria.  E' ritenuto autore,
    almeno in parte, dell'omonimo libro dell'Antico Testamento.


    Traduzione dal russo di Giacinta De Dominicis Jorio.