Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO QUARTO

    PARTE QUARTA.


    CAPITOLO 1.

    Quando  vediamo  morire  un  animale,  l'orrore si impadronisce di noi
    perché dinanzi ai nostri occhi si annienta,  cessa di esistere ciò che
    siamo  noi  stessi,  ciò  che  costituisce l'essenza stessa del nostro
    essere. Ma quando muore una creatura umana, quando muore l'uomo amato,
    allora,   oltre  all'orrore  di  fronte  all'annientarsi  della  vita,
    sentiamo  uno  strappo,  una  ferita  morale che,  simile a una ferita
    fisica, talora uccide, talora riesce a guarire,  ma che duole sempre e
    teme qualsiasi esasperante contatto esterno.
    Dopo la morte del principe Andréj,  Natascia e la principessina Màrija
    provavano tutto questo nel medesimo modo. Esse,  moralmente abbattute,
    tenendo  gli  occhi socchiusi dinanzi alla minacciosa nube della morte
    incombente su di loro,  non osavano guardare in faccia  la  vita.  Con
    cura difendevano da qualsiasi contatto doloroso la loro ferita aperta.
    Tutto,  una carrozza che passava di corsa per la strada, il ricordo di
    un pranzo,  la domanda di una cameriera a proposito  di  un  abito  da
    preparare   o,   peggio   ancora,   una  parola  insincera  di  debole
    partecipazione,  tutto irritava dolorosamente la loro  ferita,  pareva
    quasi  un'offesa  e  turbava quel silenzio necessario nel quale le due
    donne cercavano di ascoltare il coro grave,  terribile che nella  loro
    immaginazione  non  taceva  ancora  e  che  impediva  loro di guardare
    profondamente nella lontananza infinita che  per  un  momento  si  era
    aperta dinanzi alla loro mente.
    Soltanto  quando  erano  insieme  e  sole  non  si  sentivano offese e
    sofferenti.  Parlavano poco tra di loro,  o se parlavano,  si trattava
    sempre   di  argomenti  insignificanti.   L'una  e  l'altra  evitavano
    qualsiasi accenno che si riferisse all'avvenire.
    Ammettere la  possibilità  di  un  avvenire  qualsiasi  sembrava  loro
    un'offesa  alla  memoria  di  lui.  Con  una  cautela  anche maggiore,
    evitavano nella conversazione tutto ciò che aveva qualche rapporto con
    lo scomparso,  come se ciò che avevano vissuto e sentito  non  potesse
    essere   espresso  a  parole;   come  se  qualsiasi  rievocazione  dei
    particolari della vita di lui violasse la  maestà  e  la  santità  del
    mistero che si era svolto sotto i loro occhi.
    Quelle continue reticenze nei loro discorsi,  quel continuo sforzo per
    evitare tutto ciò che poteva condurre a  una  parola  su  di  lui,  le
    continue  interruzioni  al  limite di ciò che non poteva essere detto,
    rivelava alla loro mente con maggior purità e chiarezza ciò  che  esse
    sentivano.
    Ma  una  pena  pura  e assoluta è impossibile quanto una pura assoluta
    gioia.  La principessina Màrija,  data la sua condizione  di  unica  e
    indipendente padrona della propria vita,  di tutrice ed educatrice del
    nipotino,  fu la prima a essere strappata da quel mondo di dolore  nel
    quale  era  vissuta durante le prime due settimane.  Ricevette lettere
    dai parenti alle quali bisognava rispondere;  la cameretta assegnata a
    Nikòluska  era  umida  ed egli cominciava a tossire;  Alpatyc' venne a
    Jaroslàvl con il rendiconto degli  affari  e  con  la  proposta  e  il
    consiglio di ritornare a Mosca, nella casa di via Vozdvizenka la quale
    era  rimasta intatta ed esigeva soltanto piccole riparazioni.  La vita
    non si fermava,  bisognava vivere.  Per quanto fosse doloroso  per  la
    principessina  Màrija uscire da quel mondo di solitaria contemplazione
    nel quale era sino allora vissuta,  per quanto le dispiacesse e  quasi
    si  vergognasse  al  pensiero di lasciar Natascia sola,  le cure della
    vita esigevano la sua partecipazione ed  essa,  suo  malgrado,  vi  si
    dedicò.  Verificò i conti di Alpatyc', si consigliò con Desalles circa
    il nipotino,  diede disposizioni e iniziò i  preparativi  per  il  suo
    ritorno a Mosca.
    Natascia  rimaneva  sola,  e  da  quando la principessina Màrija aveva
    preso a occuparsi dei preparativi per la partenza,  cercava persino di
    evitarla.
    La  principessina Màrija pregò la contessa di permettere a Natascia di
    partire con lei per Mosca. La madre e il padre della fanciulla diedero
    con gioia il loro consenso,  avendo notato come di giorno in giorno le
    forze  fisiche  della figliuola deperissero,  e sperando che potessero
    giovarle il cambiamento d'aria e le cure dei medici di Mosca.
    - Non andrò in nessun luogo  -  rispose Natascia a quella proposta.  -
    Vi prego soltanto di lasciarmi in pace  -  aggiunse, e fuggì nella sua
    camera, trattenendo a fatica le lacrime, che erano non tanto di dolore
    quanto di dispetto e di irritazione.
    Dopo che si era sentita abbandonata dalla principessina Màrija e  sola
    nel suo dolore,  Natascia passava la maggior parte del tempo nella sua
    camera,  distesa sul divano,  lacerando o spiaccicando qualcosa tra le
    dita  sottili  e  nervose  e  tenendo  ostinatamente  fisso  lo guardo
    sull'oggetto sul quale si erano posati i suoi occhi.  Quell'isolamento
    la stancava,  la tormentava, ma le era necessario. Non appena qualcuno
    entrava nella camera, ella si alzava in fretta,  mutando atteggiamento
    ed espressione,  prendeva in mano un libro o un ricamo e aspettava con
    evidente impazienza che chi l'aveva disturbata uscisse.
    Le pareva sempre di essere sul punto di capire e di penetrare  ciò  su
    cui,  con  un'interrogazione  terribile  e  non adatta alle sue forze,
    teneva fisso il suo sguardo interiore.
    Un giorno, verso la fine di dicembre, Natascia, in abito di lana nera,
    con i capelli in disordine,  pallida e  magra,  sedeva  con  le  gambe
    appoggiate   a   un   angolo  del  divano,   gualcendo  e  sciogliendo
    nervosamente i capi della cintura e fissando un angolo  della  camera.
    Guardava  "là",  dov'egli  se  n'era  andato  verso  l'altra  vita.  E
    quell'altra vita,  alla quale essa prima non  pensava  mai  e  che  le
    pareva  così  lontana  e  irreale,  ora  le  sembrava più vicina e più
    comprensibile di quanto non lo fosse la  vita  presente,  in  cui  non
    vedeva che vuoto e distruzione, sofferenze e offese.
    Guardava là,  dove sapeva che egli era;  ma non poteva vederlo diverso
    da come era stato qui.  Lo vedeva di  nuovo  come  era  a  Mitisci,  a
    Tròjtza, a Jaroslàvl. Ne vedeva il viso, ne udiva la voce, ripeteva le
    parole  di lui e quelle che lei stessa gli aveva detto e qualche volta
    inventava per sé e per lui parole nuove che  avrebbero  potute  essere
    dette allora.
    Ecco,  egli  è  seduto in poltrona con la sua corta giacca foderata di
    pelliccia,  con il capo appoggiato alla mano pallida e scarna.  Ha  il
    petto  terribilmente  incavato  e  le  spalle  alzate.  Le labbra sono
    strettamente serrate,  gli occhi brillano,  e sulla fronte  bianca  si
    nota  appena  un  rapido  tremore.  Natascia sa che egli lotta con una
    sofferenza atroce.  "Che cos'è questa sofferenza?  E perché?  Che cosa
    sente?   Quanto  gli  fa  male!",   pensa  Natascia.  Egli  ha  notato
    l'attenzione di lei,  ha alzato gli occhi e,  senza  sorridere,  si  è
    messo a parlare.
    "Una  cosa  sola è terribile",  aveva detto;  "legarsi per sempre a un
    uomo che soffre è un eterno tormento".  E l'aveva guardata  con  occhi
    scrutatori.  Natascia,  come sempre,  gli aveva risposto prima di aver
    avuto il tempo di riflettere su quanto gli diceva.  Aveva detto:  "Non
    può continuare così, voi guarirete, vi rimetterete completamente".
    Ora lo rivedeva e riviveva tutto ciò che aveva provato in quei giorni.
    Ricordò lo sguardo prolungato,  triste, severo che aveva fissato su di
    lei a queste parole e comprese il rimprovero  e  la  disperazione  che
    quel lungo sguardo esprimeva.
    "Io  avevo  ammesso",  si  diceva  ora  Natascia,  "che  sarebbe stato
    terribile se egli fosse rimasto per sempre sofferente. Allora lo dissi
    soltanto perché sarebbe stato terribile "per lui", ma egli lo comprese
    in modo diverso.  Egli pensò che sarebbe  stato  terribile  "per  me"!
    Allora,  lui voleva ancora vivere,  aveva paura della morte.  E io gli
    parlai in modo così sciocco, così rude! Ma non pensavo questo, pensavo
    tutt'altra cosa. Se avessi espresso ciò che avevo in cuore,  gli avrei
    detto che egli poteva morire, morire a poco a poco sotto i miei occhi,
    e che io sarei stata felice in confronto a quello che sono ora. Ora...
    Non c'è più nulla,  non c'è più nessuno per me. Lo sapeva lui? No, non
    lo sapeva e non lo saprà mai. E non sarà più possibile rimediare,  mai
    più!".  Ed  egli  le  diceva  di  nuovo  quelle stesse parole,  ma ora
    Natascia,  nella sua immaginazione,  gli rispondeva con altre  tenere,
    amorose parole che avrebbe potuto dirgli allora.  "Ti amo... ti amo...
    ti amo...",  ripeteva,  torcendosi le mani e serrando i denti  in  uno
    sforzo disperato.
    E una dolce tristezza si impadroniva di lei,  gli occhi le si empivano
    di lacrime,  ma ecco che tutto a un tratto si domandava: "A  chi  dico
    queste cose?  Dov'è,  chi è "lui" adesso?". E di nuovo tutto si velava
    nella sua  mente;  e  di  nuovo,  aggrottando  le  sopracciglia,  ella
    guardava laggiù,  dov'egli si trovava.  Ed ecco...  ecco... ancora una
    volta credeva di essere  sul  punto  di  penetrare  il  mistero...  Ma
    proprio   nel   momento   in   cui   le  parve  che  le  si  rivelasse
    l'incomprensibile,  lo scatto rumoroso della  maniglia  dell'uscio  le
    colpì dolorosamente l'orecchio.  A passi rapidi, senza alcuna cautela,
    entrò nella camera Dunjascia con aria spaventata.
    - Favorite subito dal vostro papà...   -  disse Dunjascia con un  viso
    agitato e diverso dal solito.   -  Una disgrazia...  Pëtr Ilìc'... una
    lettera...  -  esclamò singhiozzando.


    CAPITOLO 2.

    Oltre che a un generico senso di isolamento da tutti, Natascia in quel
    periodo  provava  un  particolare  isolamento  dai  membri  della  sua
    famiglia.  Tutti  i suoi,  il padre,  la madre,  Sònja,  le erano così
    vicini e così consueti che tutte le loro parole e i loro sentimenti le
    parevano una specie di offesa  per  quel  mondo  nel  quale  ella  era
    vissuta negli ultimi mesi, e non solo li trattava con indifferenza, ma
    li guardava in modo quasi ostile. Udì Dunjascia parlare di Pëtr Ilìc',
    di una disgrazia accaduta, ma non capì.
    "Che  disgrazia può loro capitare?  Che disgrazia li può colpire?  Per
    loro tutto procede sempre nello stesso modo abituale e tranquillo", si
    disse mentalmente Natascia.
    Quando entrò nel salone,  suo padre  stava  uscendo  in  fretta  dalla
    camera  della contessa.  Aveva il viso stravolto e bagnato di lacrime.
    Era evidente che fuggiva in un'altra camera per dar  libero  sfogo  ai
    singhiozzi  che  lo  soffocavano.  Vedendo  Natascia,  fece  un  gesto
    disperato con le braccia e scoppiò in un pianto  doloroso  e  convulso
    che gli deformò il viso mite e rotondo.
    - Pé...  Pétja...  va', va'... va' da lei, ti chiama...  -  E intanto,
    singhiozzando come un bambino, movendo in fretta le gambe senza forza,
    si avvicinò a una sedia e quasi vi cadde a sedere,  coprendosi il viso
    con le mani.
    Di  colpo  fu  come  se una scarica elettrica scotesse con violenza il
    corpo di Natascia,  un terribile dolore la colpì al cuore,  provò  una
    sofferenza atroce,  come se qualcosa le si spezzasse dentro e le parve
    di morire.  Ma dopo quel dolore avvertì subito un senso di liberazione
    da quella specie di ostacolo a vivere che pesava su di lei.  Al vedere
    il padre e all'udire attraverso la porta le grida terribili e convulse
    della madre,  dimenticò immediatamente se stessa e il proprio  dolore.
    Corse  verso  suo  padre ma egli,  con un debole gesto della mano,  le
    indicò ancora la porta della camera della contessa.  La  principessina
    Màrija,  pallida,  con  il  mento che le tremava,  uscì dalla camera e
    prese per mano Natascia,  dicendole  qualche  cosa.  Natascia  non  la
    vedeva e non l'ascoltava.  A passo rapido varcò la soglia, si fermò un
    attimo come se lottasse con se stessa, poi si slanciò verso la madre.
    La contessa giaceva distesa su una  poltrona  e,  agitandosi  in  modo
    strano,  batteva  la  testa contro la parete.  Sònja e la cameriera la
    trattenevano per le braccia.
    - Natascia! Natascia!  -  gridava la contessa.  -  Non è vero... non è
    vero... Egli mente! Natascia!  -  continuava a gridare scostando da sé
    coloro che la circondavano.  -  Andate via tutti, non è vero!  L'hanno
    ucciso... Ah... ah... non è vero!
    Natascia  appoggiò un ginocchio sulla poltrona,  si chinò sulla madre,
    l'abbracciò e con una forza di cui non sembrava capace le girò il viso
    verso di sé e si strinse a lei.
    - Mammina!  Cara!  Mammina!  Sono qui,  sono  io,  mammina!    -    le
    sussurrava, senza mai smettere un istante.
    Non   la   lasciava   andare,   lottava  affettuosamente  per  tenerla
    abbracciata, chiedeva che le portassero dei guanciali, dell'acqua,  le
    sbottonava e le strappava di dosso il vestito.
    -  Anima  mia,  cara...  Mammina  cara...    -   mormorava senza posa,
    baciandole la testa,  le mani,  il viso  e  sentendo  le  sue  proprie
    lacrime  scorrere senza freno,  a rivoli,  solleticandole il naso e le
    guance.
    La contessa strinse la mano della figlia,  chiuse gli occhi e si calmò
    per un momento.  A un tratto, con una rapidità inattesa si sollevò, si
    guardò attorno con gli occhi spalancati e, vista Natascia,  le strinse
    il  capo  con quanta forza aveva nelle mani;  poi volse verso di sé il
    viso di lei sconvolto dal dolore e a lungo lo fissò.
    -  Natascia, tu mi vuoi bene  -  mormorò con un tono pieno di fiducia.
    -  Natascia, tu non mi inganni, vero? Mi dirai tutta la verità?
    Natascia la guardava con gli occhi  colmi  di  lacrime.  Il  suo  viso
    implorava soltanto perdono e amore.
    -  Cara,  mammina  mia   -  ripeteva,  tendendo tutte le forze del suo
    amore per liberare in qualche modo  la  madre  e  prendere  su  di  sé
    l'eccesso di sofferenze che la opprimeva.
    E di nuovo,  in una vana lotta contro la realtà,  la madre, rifiutando
    di credere alla  possibilità  di  vivere  ora  che  il  suo  figliuolo
    adorato, fiorente e pieno di vita, era stato ucciso, sfuggiva a questa
    realtà, rifugiandosi nel mondo della follia.
    Natascia  non  ricordò mai come passassero quel giorno,  la notte,  il
    giorno seguente e la notte seguente.  Non dormì  e  non  si  allontanò
    dalla madre.  L'amore di Natascia,  ostinato,  paziente,  non come una
    spiegazione,  non come un conforto,  ma come un appello alla  vita,  a
    ogni istante,  da ogni parte circondava la madre.  La terza notte,  la
    contessa si calmò per qualche minuto,  e  Natascia,  appoggiata  a  un
    bracciuolo della poltrona,  si assopì.  Il letto scricchiolò, Natascia
    aprì gli occhi. La contessa era seduta sul letto e parlava sommessa.
    - Come sono contenta che tu sia venuto! Sei stanco, vero?  Vuoi il tè!
    -  Natascia le si avvicinò.   -  Ti sei fatto più bello, sei diventato
    più uomo  -  proseguiva la contessa, prendendo la figlia per mano.
    - Mammina, che dite?
    - Natascia, egli non c'è più, non c'è più...
    E, abbracciando la figlia,  per la prima volta,  la contessa si mise a
    piangere.


    CAPITOLO 3.

    La  principessina  Màrija  rimandò  la  partenza.  Sònja  e  il  conte
    cercavano di sostituire Natascia, ma non potevano.  Si rendevano conto
    che lei sola riusciva a trattenere la madre da una folle disperazione.
    Per  tre settimane Natascia visse continuamente accanto alla contessa:
    dormiva in una poltrona nella camera di lei,  le dava  da  bere  e  da
    mangiare  e  le  parlava  continuamente,  perché soltanto la sua voce,
    dolce e affettuosa, la calmava un po'.
    La ferita nell'anima della madre non poteva rimarginarsi.  La morte di
    Pétja le aveva strappato una metà della vita.  Un mese dopo la notizia
    della morte di Pétja,   -  che l'aveva colpita quando era una donna di
    cinquant'anni, ancora fresca e robusta - essa uscì dalla camera simile
    a una vecchia,  più morta che viva, incapace di partecipare alla vita.
    Ma quella stessa ferita che aveva  quasi  ucciso  la  contessa,  nuova
    ferita per Natascia, richiamò alla vita la fanciulla.
    La  ferita  morale,  prodotta  da  uno  strappo della parte spirituale
    dell'essere,  per quanto strano possa  apparire,  a  poco  a  poco  si
    rimargina tal quale una ferita fisica. Dopo che lo strappo profondo si
    è chiuso e i margini paiono essersi ricongiunti, la ferita spirituale,
    come  quella  fisica,  guarisce  soltanto dall'interno sotto la spinta
    rigeneratrice delle forze vitali.
    Così si rimarginò anche la ferita di Natascia.  Ella aveva creduto che
    la sua esistenza fosse finita,  ma a un tratto l'amore per la madre le
    dimostrò che l'essenza della sua vita  l'amore  -  era ancor  viva  in
    lei. Si risvegliò l'amore e, con l'amore, si risvegliò la vita.
    Gli ultimi giorni del principe Andréj avevano avvicinato Natascia alla
    principessina  Màrija.  La  nuova  sventura  le unì ancora di più.  La
    principessina Màrija rimandò la partenza e nelle ultime tre  settimane
    curò Natascia come una bimba malata.  Quelle tre settimane,  trascorse
    dalla fanciulla nella camera della madre,  avevano annientato  le  sue
    forze fisiche.
    Una  volta,  verso mezzogiorno,  la principessina Màrija si avvide che
    Natascia tremava,  scossa da brividi di febbre;  la condusse in camera
    sua  e  la  fece  sdraiare sul letto.  Natascia si coricò ma quando la
    principessina Màrija,  dopo aver abbassato  la  tenda,  si  avviò  per
    uscire, la fanciulla la chiamò a sé.
    - Non ho voglia di dormire, Marie, resta un po' qui con me.
    - Ma tu sei stanca, cerca di riposare...
    - No, no! Perché mi hai condotta via? Adesso mi chiamerà...
    - La contessa sta molto meglio.  Oggi parlava così bene  -  rispose la
    principessina.
    Natascia stava coricata  sul  letto  e  nella  penombra  della  stanza
    osservava il viso della principessina Màrija.
    "Assomiglia  a  lui?",   si  chiedeva.   "Gli  assomiglia  e  non  gli
    assomiglia. Ma lei è diversa, tutta particolare, è del tutto nuova.  E
    mi vuol bene.  Che c'è nel suo animo?  Soltanto cose buone,  certo. Ma
    come? Che cosa pensa? Sì, è veramente buona!".
    -  Mascia    -    disse,  traendo  timidamente  a  sé  la  mano  della
    principessina.  -  Mascia, non credere che io sia cattiva. No! Mascia,
    mia  cara,  sapessi  quanto  ti  voglio bene!  Vogliamo essere amiche,
    veramente amiche?
    E Natascia, abbracciandola, cominciò a baciare le mani e il viso della
    principessina Màrija,  vergognosa e al tempo stesso felice  di  quella
    dimostrazione di affetto di Natascia.
    Da  quel  giorno si stabilì tra le due fanciulle una di quelle tenere,
    appassionate amicizie che nascono soltanto tra donne. Si abbracciavano
    spesso,  si dicevano parole  affettuose  e  trascorrevano  insieme  la
    maggior parte del tempo. Se una usciva, l'altra era inquieta e cercava
    di  raggiungerla al più presto.  Quando erano vicine,  si sentivano in
    accordo tra di loro più di quanto ciascuna  lo  fosse  con  se  stessa
    quando  erano  divise.  Si  era  stabilito tra quelle due fanciulle un
    sentimento più forte dell'amicizia:  il  sentimento  di  poter  vivere
    soltanto l'una in presenza dell'altra.
    A volte tacevano per ore intere;  a volte, già a letto, cominciavano a
    parlare e parlavano sino  al  mattino.  E  parlavano  soprattutto  del
    lontano   passato.   La  principessina  Màrija  raccontava  della  sua
    infanzia, di sua madre, di suo padre, dei suoi sogni, e Natascia,  che
    un  tempo  con  tranquilla  incomprensione  disdegnava  quella vita di
    dedizione,  di sottomissione,  vera poesia di  cristiana  abnegazione,
    ora,  che  si  sentiva  legata dall'affetto alla principessina Màrija,
    amava il passato di lei e capiva quel lato della vita che un giorno le
    era incomprensibile. Essa non pensava di far guidare la sua vita dalla
    sottomissione e dal sacrifizio,  perché era abituata a  cercare  altre
    gioie,  ma capì e amò in un'altra quelle virtù che prima non capiva. E
    alla principessina Màrija,  che ascoltava i racconti di Natascia sulla
    sua infanzia e la sua adolescenza,  si rivelava un lato dell'esistenza
    che le era stato sino allora incomprensibile: la  fede  nella  vita  e
    nelle gioie della vita.
    Come  già  prima,  non parlavano mai di "lui" per non profanare con le
    parole  -  così a loro pareva  -  quel  sublime  sentimento  racchiuso
    nel  loro  animo,  e questo silenzio attorno a "lui" faceva sì che,  a
    poco a poco, senza rendersene conto, esse lo dimenticassero.
    Natascia era smagrita,  si era fatta pallida e fisicamente così debole
    che tutti si preoccupavano e parlavano continuamente della sua salute,
    e questo le faceva piacere.  Ma qualche volta,  inaspettatamente,  era
    colta non soltanto dalla paura della morte,  ma dalla paura del male e
    della  prostrazione,  dalla  paura  di  perdere  la bellezza e,  senza
    volerlo,  si sorprendeva talora a osservare attentamente la  sua  mano
    nuda, meravigliandosi che fosse così magra, o la mattina a trattenersi
    a  lungo  davanti  allo  specchio  scrutando  il  suo viso smunto che,
    secondo lei suscitava pietà.  Le pareva che così dovesse  essere,  pur
    tuttavia provava ugualmente spavento e tristezza.
    Un  giorno  salì in fretta le scale e il respiro le si fece affannoso.
    Involontariamente, pensò subito a qualcosa da fare al piano terreno, e
    di là corse di nuovo di sopra per provare le proprie forze.
    Un'altra volta, chiamando Dunjascia,  la voce le tremò.  E sebbene già
    sentisse  i  passi di lei che veniva,  continuò a chiamarla con quella
    voce di petto con cui cantava, e si ascoltò.
    Essa non lo sapeva,  non lo avrebbe creduto,  ma dallo strato di  limo
    che le aveva avvolto l'anima e che a lei pareva impenetrabile, stavano
    già  spuntando  i  primi,  teneri  fili  dell'erba  novella che doveva
    mettere radici e coprire con i suoi getti vitali tutto il  dolore  che
    era in lei e che presto nessuno avrebbe più visto e notato.  La ferita
    si stava rimarginando dall'interno.
    Alla fine di gennaio,  la principessina Màrija partì per  Mosca  e  il
    conte insisté perché Natascia partisse con lei per consultare i medici
    della capitale.


    CAPITOLO 4.

    Dopo lo scontro di Vjazma, dove Kutuzòv non riuscì a trattenere le sue
    truppe dal desiderio di sbaragliare, di tagliar fuori il nemico e così
    via,  il  successivo  movimento dei Francesi che fuggivano e dei Russi
    che li inseguivano,  proseguì senza battaglie sino a Kràsnoe.  La fuga
    dei  Francesi  era  così  precipitosa  che  l'esercito  russo,  che li
    inseguiva,   non  riusciva  a  tener  loro   dietro,   e   i   cavalli
    dell'artiglieria  e  della  cavalleria  dovevano  fermarsi cosicché le
    notizie sui movimenti del nemico non corrispondevano mai alla realtà.
    Gli uomini dell'esercito russo erano così  stremati  da  questa  corsa
    senza soste di quaranta verste al giorno,  da non essere assolutamente
    in grado di aumentare la velocità.
    Per capire sino a che punto  fosse  sfinito  l'esercito  russo,  basta
    soltanto rendersi chiaramente conto del fatto che,  non avendo perduto
    tra morti e feriti durante la marcia di  Tarùtino  più  di  cinquemila
    uomini,  e  non  avendo  perduto che qualche centinaio di prigionieri,
    questo esercito,  che aveva lasciato Tarùtino  con  centomila  uomini,
    giunse a Kràsnoe con cinquantamila.
    La rapida marcia dei Russi all'inseguimento dei Francesi dissolveva il
    nostro  esercito  così  come  la  fuga dissolveva quello francese.  La
    differenza consisteva soltanto in questo,  che  i  Russi  si  movevano
    liberamente,   senza   la   minaccia   di  distruzione  che  incombeva
    sull'esercito francese e nel fatto  che  i  malati  francesi,  rimasti
    indietro,  cadevano  nelle mani del nemico,  mentre gli ammalati russi
    rimanevano in casa propria.  La principale  causa  dell'assottigliarsi
    dell'esercito  di Napoleone era la velocità del suo movimento e,  come
    indubbia  dimostrazione  di  questo  fatto,  serve  il  corrispondente
    assottigliarsi dell'esercito russo.
    Tutta  l'attività  di Kutuzòv,  come già era accaduto sotto Tarùtino e
    sotto Vjazma, era volta soltanto  -  per quanto stava in suo potere  -
    all'unico scopo di  non  ostacolare  quel  movimento  rovinoso  per  i
    Francesi  (come  invece  avrebbero  voluto  a Pietroburgo e i generali
    russi),  ma piuttosto di contribuirvi e  di  facilitare  quello  delle
    nostre truppe.
    Ma  oltre  alla  stanchezza e alle enormi perdite verificatesi dopo un
    certo tempo  nell'esercito,  a  causa  della  velocità  della  marcia,
    un'altra  ragione  spingeva  Kutuzòv  a  ritardare  le  sue  mosse e a
    temporeggiare.  Lo scopo dell'esercito russo  era  l'inseguimento  dei
    Francesi.  La  via  che  questi  avrebbero  percorsa era sconosciuta e
    perciò, quanto più da presso i nostri tallonavano i nemici,  tanto più
    strada essi percorrevano.  Soltanto seguendoli a una certa distanza si
    potevano tagliare,  per la via più breve,  i giri a zig zag fatti  dai
    Francesi.   Tutte   le  abili  manovre  che  i  generali  suggerivano,
    comportavano altri movimenti delle truppe, un aumento del numero delle
    tappe,   mentre  l'unico  fine  sensato  consisteva  precisamente  nel
    diminuirle.  E  a  questo scopo,  durante tutta la campagna da Mosca a
    Vilna,   fu  rivolta  l'attività  di  Kutuzòv,   non   a   caso,   non
    temporaneamente,  ma  in modo così coerente che egli non vi venne meno
    neppure una volta.
    Kutuzòv, non per mezzo dell'intelligenza e della scienza, ma con tutta
    la sua natura di uomo russo,  sapeva e sentiva quello che sentiva ogni
    soldato: che i Francesi erano sconfitti,  che i nemici fuggivano e che
    bisognava inseguirli; ma nello stesso tempo sentiva con i suoi soldati
    tutto il peso di quella marcia a una velocità senza precedenti.
    Ma ai generali e,  soprattutto,  a quelli che non erano  russi  e  che
    desideravano distinguersi,  stupire qualcuno, prendere prigionieri per
    chissà quale ragione un qualsiasi duca o un qualsiasi re,  pareva ora,
    proprio  quando  ogni combattimento sarebbe stato vile e assurdo,  che
    fosse il momento giusto  per  dar  battaglia  e  vincere.  Kutuzòv  si
    limitava  a  stringersi  nelle  spalle quando,  uno dopo l'altro,  gli
    venivano presentati piani per  una  campagna  di  guerra  nella  quale
    avrebbero  dovuto  combattere  quei  soldati calzati malamente,  senza
    pellicce,  semiaffamati,  i quali,  in un solo mese,  senza  una  sola
    battaglia,  si  erano ridotti alla metà e con i quali,  nelle migliori
    condizioni  della  fuga  che  continuava,   bisognava  raggiungere  la
    frontiera percorrendo una distanza maggiore di quella già percorsa.
    Questa  frenesia  di distinguersi,  di manovrare,  di sbaragliare e di
    accerchiare,  si manifestava in  modo  particolare  quando  l'esercito
    russo si imbatteva in quello francese.
    Così  accadde a Kràsnoe,  dove i nostri credevano di trovare una delle
    tre colonne francesi e dove si imbatterono  in  Napoleone  in  persona
    alla  testa di sedicimila uomini.  Nonostante tutti i mezzi tentati da
    Kutuzòv per evitare questo combattimento disastroso e per  risparmiare
    i suoi soldati, per tre giorni durò a Kràsnoe il massacro delle truppe
    francesi in rotta e stremate per opera dell'esercito russo.
    Toll   aveva   tracciato  l'ordine  del  giorno:  "Die  erste  Kolonne
    marschiert..." [1.  La prima colonna  marcerà...]  eccetera.  E,  come
    sempre,  nulla  avvenne  secondo  le  disposizioni  date.  Il principe
    Eugenio di Württemberg sparava da un'altura su torme francesi in  fuga
    ed  esigeva dei rinforzi che non arrivavano.  I Francesi,  cercando di
    sfuggire di notte ai Russi,  si sparpagliavano e si  nascondevano  nei
    boschi, e ciascuno fuggiva il più lontano possibile.
    Miloràdovic',  il  quale  dichiarava  di  non  voler saper nulla degli
    affari  amministrativi  del  suo  corpo  di  truppe,  che  era  sempre
    introvabile quando c'era bisogno di lui,  "chevalier sans peur et sans
    reproche" [2. cavaliere senza macchia e senza paura], come gli piaceva
    definirsi e che amava parlamentare con i Francesi,  inviava messaggeri
    ad  esigere  la resa,  perdeva tempo e non faceva nulla di ciò che gli
    era ordinato.
    - Ragazzi, quella colonna è per voi  -  diceva,  cavalcando dinanzi ai
    suoi  soldati  di cavalleria e indicando loro i soldati francesi.  E i
    cavalieri,  incitando con gli speroni e le  sciabole  i  cavalli,  che
    procedevano  a  mala  pena,  dopo sforzi inauditi,  movevano al trotto
    verso la colonna offerta  loro  in  dono,  cioè  verso  una  tomba  di
    Francesi intirizziti e affamati; e la colonna donata gettava le armi e
    si arrendeva, come da un pezzo desiderava fare.
    A  Kràsnoe  furono  catturati  26000  prigionieri,  cento cannoni e un
    bastone di maresciallo.  Ci furono le solite  discussioni  su  chi  si
    fosse  distinto  in  modo particolare,  con soddisfazione di molti,  i
    quali però si rammaricavano di non aver catturato Napoleone  o  almeno
    un eroe qualsiasi,  un maresciallo; si rimproveravano a vicenda, ma il
    rimprovero era diretto in modo particolare a Kutuzòv.
    Questi uomini,  trascinati dalle loro passioni,  non erano che  ciechi
    esecutori  della  tristissima  legge  della  necessità;   tuttavia  si
    consideravano eroi e pensavano che ciò che avevano fatto fosse l'opera
    più nobile e più degna che  si  potesse  immaginare.  Essi  accusavano
    Kutuzòv  e  dicevano che,  sin dall'inizio della campagna,  egli aveva
    impedito loro di  vincere  Napoleone,  che  egli  pensava  soltanto  a
    soddisfare  le  proprie passioni e che non voleva uscire da Polotnjàne
    Zavodi perché là stava tranquillo;  che a Kràsnoe aveva  arrestato  la
    loro  marcia perché,  venuto a conoscenza della presenza di Napoleone,
    si era del tutto smarrito;  che si poteva persino  supporre  che  egli
    fosse d'accordo con Napoleone al quale si era venduto, e così via (3).
    E come se non bastasse che i contemporanei, trascinati dalla passione,
    si  esprimessero  così,  i  posteri  e  la storia hanno dichiarato che
    Napoleone fu "grand",  mentre Kutuzòv fu giudicato dagli stranieri  un
    vecchio cortigiano astuto,  debole e corrotto; e dai Russi fu definito
    una specie di fantoccio dalla figura piuttosto vaga e  utile  soltanto
    per il suo nome russo...


    CAPITOLO 5.

    Negli  anni  1812  e 1813 Kutuzòv fu apertamente accusato di tutti gli
    errori che aveva commesso. L'imperatore era scontento di lui. E in una
    storia scritta di recente per ordine dello stesso imperatore, leggiamo
    che Kutuzòv fu un cortigiano astuto e bugiardo,  che  aveva  paura  al
    solo  udire  il  nome  di  Napoleone e che,  con gli errori commessi a
    Kràsnoe e alla Beresinà,  privò l'esercito russo della gloria  di  una
    completa vittoria su quello francese.
    Tale  è  la  sorte  non  dei  grandi uomini,  del "grand homme" che la
    mentalità russa non  riconosce,  ma  di  quegli  uomini  rari,  sempre
    isolati,  i  quali,  dopo  aver  compreso  i voleri della Provvidenza,
    sottomettono a questa la loro volontà personale. L'odio e il disprezzo
    della folla puniscono questi uomini colpevoli di aver intuito le leggi
    superiori.
    Per gli storici russi (è strano e penoso a dirsi ), Napoleone,  questo
    infimo  strumento  della storia che mai in nessun luogo  -  neppure in
    esilio  -  diede prova di virile dignità,  è oggetto  di  entusiastica
    ammirazione, per loro Napoleone è "grand". Kutuzòv, invece, l'uomo che
    dall'inizio  sino  alla fine della sua attività nel 1812,  da Borodinò
    sino a Vilna, non venne mai meno a se stesso né con un'azione,  né con
    un  gesto,  l'uomo  che  è  nella  storia  un esempio straordinario di
    dedizione e di prescienza dell'importanza degli avvenimenti futuri,  è
    rappresentato  dagli  storici  come  un essere impreciso e meschino e,
    quando parlano di lui e del 1812,  si ha  l'impressione  che  essi  lo
    facciano sempre con un certo senso di vergogna.
    Eppure  è  difficile immaginare un personaggio storico la cui attività
    sia stata diretta verso un unico scopo con maggior perseveranza, scopo
    che è difficile poter pensare più nobile  e  più  in  accordo  con  la
    volontà  di  tutto il popolo.  Ed è ancora più difficile trovare nella
    storia un altro esempio in cui  il  fine  propostosi  dal  personaggio
    storico sia stato così compiutamente raggiunto come quello che Kutuzòv
    si assegnò nel 1812.
    Kutuzòv  non  parlò mai di quaranta secoli che lo guardavano dall'alto
    delle Piramidi,  o dei sacrifizi che egli faceva alla patria o di  ciò
    che intendeva compiere o che aveva già compiuto; in genere non parlava
    di sé, non recitava alcuna parte, appariva sempre come il più semplice
    e  più comune degli uomini e diceva le cose più semplici e più comuni.
    Scriveva lettere alle sue figliuole e a  "madame"  de  Staël,  leggeva
    romanzi,  amava  la  compagnia  delle  belle  donne,  scherzava  con i
    generali, con gli ufficiali e con i soldati e non contraddiceva mai le
    persone che  volevano  dimostrargli  qualcosa.  Quando  sul  ponte  di
    Jasùsk,  il conte Rastopcìn galoppò verso di lui chiedendogli, in tono
    di rimprovero,  a chi fosse da imputare  la  colpa  dell'abbandono  di
    Mosca  e  gli  disse:  "Come mai avevate promesso di non lasciar Mosca
    senza dare battaglia?",  Kutuzòv rispose: "Infatti non la  abbandonerò
    senza  dare  battaglia",  benché  Mosca  fosse  già stata abbandonata.
    Quando Arakceev,  presentatosi a lui  da  parte  dell'imperatore,  gli
    disse  che  bisognava  nominare  Ermolov  comandante dell'artiglieria,
    Kutuzòv rispose: "Sì, sì, l'ho detto anch'io proprio poco fa", sebbene
    un minuto prima avesse detto tutt'altro.  Che cosa poteva importare  a
    lui,  il solo che in mezzo alla folla di dissennati che lo circondava,
    capisse l'importanza degli avvenimenti,  che cosa  poteva  importargli
    che il conte Rastopcìn imputasse a se stesso o a lui la sventura della
    capitale?  E  ancora  meno  lo interessava chi dovesse essere nominato
    comandante dell'artiglieria.
    Non soltanto in casi del genere,  ma sempre,  questo vecchio,  portato
    dall'esperienza  della  vita  al  convincimento che né le idee,  né le
    parole che servono ad  esprimerle  possono  essere  le  motrici  delle
    azioni  degli uomini,  diceva parole assolutamente prive di senso,  le
    prime che gli venivano in mente.
    Eppure questo stesso uomo, che tanto disdegnava le proprie parole, non
    ne pronunziò mai  una  durante  tutta  la  sua  attività  che  non  si
    accordasse  con  l'unico  fine per raggiungere il quale si adoperò dal
    principio al termine della guerra.  Senza dubbio suo malgrado e con la
    penosa  certezza  di  non  essere  compreso,   parecchie  volte  e  in
    circostanze  diverse,  egli  espresse  il  suo  pensiero.   Sin  dalla
    battaglia  di Borodinò,  dalla quale datò il suo disaccordo con quanti
    gli stavano attorno,  egli solo affermava  che  quella  battaglia  era
    stata una vittoria e lo ripeté a voce, nei rapporti e nelle relazioni,
    sino  alla morte.  Egli solo disse che "la perdita di Mosca non era la
    perdita della Russia". E, rispondendo a Lauriston che gli proponeva la
    pace,  dichiarò che "la pace era impossibile perché il popolo  non  la
    voleva";  egli  solo,  durante  la ritirata dei Francesi,  affermò che
    "tutte  le  nostre  manovre  erano   inutili,   che   tutto   accadeva
    spontaneamente,  meglio di quanto si potesse desiderare, che al nemico
    bisogna offrire ponti d'oro,  che né  la  battaglia  di  Tarùtino,  né
    quella di Vjazma, né quella di Kràsnoe erano necessarie, che occorreva
    arrivare con un certo numero di uomini alla frontiera, e che per dieci
    Francesi non avrebbe dato un solo russo".
    Ed  egli  solo,  l'uomo  che ci viene descritto come il cortigiano che
    mentisce ad Arakceev allo scopo di adulare l'imperatore, egli solo, il
    cortigiano, a Vilna, si guadagnò l'ostilità del sovrano affermando che
    "sarebbe  stato  inutile  e  dannoso  portare  la  guerra   oltre   la
    frontiera".
    Ma  le sue sole parole non sarebbero sufficienti a dimostrare che egli
    aveva già allora compreso tutta l'importanza degli avvenimenti. Le sue
    azioni  -  tutte, senza la minima eccezione-  erano tese a un medesimo
    triplice scopo: 1) impiegare ogni sua forza per combattere il  nemico;
    2)  sconfiggerlo;  3) scacciarlo dalla Russia e alleviare,  per quanto
    possibile, le miserie della nazione e dell'esercito.
    Lui, il temporeggiatore Kutuzòv,  il cui motto era "pazienza e tempo",
    il nemico delle azioni decisive,  impegna la battaglia di Borodinò con
    preparativi di una solennità senza precedenti.  Lui,  quel Kutuzòv che
    alla  battaglia  di Austerlitz aveva detto,  prima che essa iniziasse,
    che sarebbe stata perduta,  a Borodinò,  malgrado la  convinzione  dei
    generali  che  quella era una battaglia perduta,  malgrado  -  esempio
    inaudito nella storia  che l'esercito  vittorioso  fosse  costretto  a
    ritirarsi,  egli solo,  contro tutti,  sostenne sino alla morte che la
    battaglia di Borodinò fu una vittoria.  Lui  solo,  durante  tutta  la
    ritirata insisté nel non volere dare battaglie ormai inutili,  nel non
    voler cominciare una nuova guerra e nel non voler varcare la frontiera
    russa.
    Comprendere  adesso  l'importanza  dell'avvenimento,   purché  non  si
    vogliano  attribuire  all'azione  delle  masse  scopi  che esistettero
    soltanto nella mente di una  diecina  di  persone,  non  è  difficile,
    giacché l'intera vicenda ci sta davanti con tutte le sue conseguenze.
    Ma  come  mai,  quel  vecchio,  solo contro l'opinione di tutti,  poté
    allora indovinare l'importanza che la vicenda ebbe per il popolo,  con
    tale  sicurezza  da  non  dubitare mai di se stesso neppure una volta,
    durante tutto il corso della sua attività?
    La fonte di questa così straordinaria perspicacia stava nello  spirito
    nazionale  che  egli  portava  in  sé,  in tutta la sua forza e la sua
    purezza. Soltanto perché aveva riconosciuto in lui questo spirito,  il
    popolo, per vie così strane, fu portato a scegliere, contro la volontà
    dello  zar,  questo  vecchio  caduto  in disgrazia come rappresentante
    della guerra  nazionale.  E  soltanto  il  sentimento  popolare  elevò
    Kutuzòv a quella suprema altezza umana dalla quale egli, generalissimo
    dell'esercito,  diresse  tutte le sue energie non già ad uccidere e ad
    annientare degli uomini, ma a salvarli e a compiangerli.
    Questa figura semplice,  modesta  e,  proprio  per  questo,  veramente
    maestosa,  non  poteva  assumere la forma menzognera dell'eroe europeo
    che si crede abbia guidato gli uomini e che non è, in realtà,  che una
    invenzione della storia.
    Non esiste un grand'uomo per il suo servitore, perché un servitore ha,
    della grandezza, un suo particolare concetto.


    CAPITOLO 6.

    Il  5  novembre  fu  il  primo  giorno  della  cosiddetta battaglia di
    Kràsnoe.  Prima di sera,  quando dopo molte discussioni ed  errori  da
    parte  dei generali che si recavano là dove non si doveva,  dopo invii
    di aiutanti di campo latori di contrordini,  fu evidente che il nemico
    era  in  fuga  da  ogni parte e che non poteva esserci,  né ci sarebbe
    stata una battaglia,  Kutuzòv uscì da Kràsnoe e si diresse  a  Dòbroe,
    dove quel giorno era stato trasferito il quartier generale.
    Era  una  giornata  serena,  gelida.  Kutuzòv con un enorme séguito di
    generali insoddisfatti che mormoravano contro di lui,  cavalcava verso
    Dòbroe sulla sua ben nutrita giumenta bianca. Lungo tutta la strada si
    affollavano,  scaldandosi  accanto  ai  fuochi,  gruppi di prigionieri
    francesi catturati quel giorno (ne erano stati presi  settemila).  Non
    lontano  da Dòbroe,  una folla enorme di altri prigionieri stracciati,
    fasciati, avvolti alla meglio in un qualsiasi indumento loro capitato,
    parlavano rumorosamente, accalcati accanto a una lunga fila di cannoni
    francesi,  da cui erano stati staccati i cavalli.  All'avvicinarsi del
    generalissimo,  le  voci  tacquero,  e tutti gli occhi si fissarono su
    Kutuzòv che,  con il berretto bianco  orlato  di  rosso,  il  cappotto
    foderato  di  pelliccia  che  gli faceva una gobba sulle spalle curve,
    procedeva lentamente lungo  la  strada.  Uno  dei  generali  riferì  a
    Kutuzòv  dove  e  come erano stati presi i cannoni e fatti prigionieri
    gli uomini.
    Pareva che Kutuzòv, preoccupato per qualche cosa, non udisse le parole
    del generale.  Socchiudeva con aria scontenta gli occhi e guardava con
    attenta  fissità  le  figure  dei  prigionieri  che avevano un aspetto
    singolarmente miserevole.  La maggior parte dei soldati francesi erano
    deturpati dal naso e dalle guance congelate, e quasi tutti avevano gli
    occhi infiammati, gonfi e cisposi.
    Un  gruppo  di prigionieri era fermo presso la strada e due soldati  -
    il viso di uno di essi era coperto di piaghe  -    laceravano  con  le
    mani  un  pezzo  di  carne  cruda.  Un  non  so  che di terribile e di
    animalesco apparve nello sguardo rapido che essi gettarono  su  coloro
    che stavano giungendo e nell'espressione rabbiosa del soldato dal viso
    piagato che,  dopo aver lanciato una rapida occhiata a Kutuzòv,  voltò
    la testa dall'altra parte e proseguì nella sua operazione.
    Kutuzòv fissò a lungo e con attenzione i due uomini,  aggrottò di  più
    il viso,  socchiuse gli occhi e scosse pensieroso il capo. In un altro
    punto notò un soldato russo che, ridendo e dando colpetti sulle spalle
    di un francese,  gli diceva qualcosa  di  affettuoso.  Con  la  stessa
    espressione pensierosa di poco prima Kutuzòv scosse il capo.
    -  Che  dici?    -  domandò al generale che continuava a fargli il suo
    rapporto e richiamava l'attenzione del  generalissimo  sulle  bandiere
    catturate   ai   Francesi   e  allineate  sul  fronte  del  reggimento
    Preobrazenskij.
    - Ah,  le bandiere!   -  esclamò Kutuzòv,  strappandosi  con  evidente
    sforzo   dall'oggetto   che  occupava  i  suoi  pensieri.   Si  guardò
    distrattamente attorno. Migliaia di occhi lo fissavano,  in attesa che
    egli parlasse.
    Dinanzi  al  reggimento  Preobrazenskij,  Kutuzòv si fermò,  trasse un
    profondo sospiro e chiuse gli occhi.  Qualcuno  del  séguito  fece  un
    cenno  affinché i soldati che reggevano le bandiere si avvicinassero e
    si ponessero con le aste attorno al generalissimo.  Kutuzòv tacque per
    qualche  minuto e poi,  con evidente malavoglia,  sottomettendosi alla
    necessità della situazione, alzò il capo e prese a parlare.  Una folla
    di  ufficiali lo attorniava.  Girò sul gruppo uno sguardo attento e ne
    riconobbe alcuni.
    - A tutti il mio grazie!   -  disse,  rivolgendosi ai soldati e poi di
    nuovo  agli  ufficiali.  Nel  silenzio  che  regnava  attorno a lui si
    udivano nitide e precise le parole pronunziate  con  lentezza.  -    A
    tutti il mio grazie per il vostro duro e fedele servizio.  La vittoria
    è completa, e la Russia non vi dimenticherà.  Gloria a voi nei secoli!
    -  E tacque, guardandosi attorno.  -  Abbassale, abbassale la testa  -
    disse  a un soldato che reggeva un'aquila francese e,  distrattamente,
    l'aveva inclinata davanti alla bandiera del reggimento.   -  Più  giù,
    più giù...  ecco,  così. Urrà, ragazzi!  -  esclamò infine, volgendosi
    ai soldati con un rapido moto del mento.
    - Urr-ra-a!  -  gridarono migliaia di voci.
    Mentre i soldati gridavano, Kutuzòv, chinandosi sulla sella,  curvò la
    testa e i suoi occhi brillarono di una luce dolce, quasi ironica.
    - Ecco, figliuoli...  -  riprese, quando il silenzio fu ristabilito.
    E ad un tratto la sua voce e l'espressione del suo volto mutarono: non
    era  più  il generalissimo che parlava,  ma un vecchio,  semplice uomo
    che, evidentemente, desiderava comunicare qualcosa di molto importante
    ai suoi compagni.
    Nella folla degli ufficiali e  tra  le  file  dei  soldati  vi  fu  un
    movimento per udire meglio ciò che egli stava per dire.
    -  Ecco  dunque,  figliuoli.  Lo so che è duro per voi,  ma che si può
    fare? Abbiate pazienza: non c'è più da aspettare molto.  Quando avremo
    accompagnato  fuori  di  casa  i  nostri ospiti,  ci potremo riposare.
    L'imperatore non dimenticherà i vostri servigi. E' duro, lo so, ma voi
    siete a casa vostra;  mentre loro,  lo vedete a che punto sono ridotti
    -    disse,  indicando  i  prigionieri.   -  Peggio dei più miserevoli
    mendicanti.  Finché erano forti,  non li abbiamo risparmiati,  ma  ora
    possiamo  averne  pietà.  Sono  anch'essi creature umane.  Non è così,
    ragazzi?
    Volse gli occhi attorno e negli sguardi attenti, rispettosamente fissi
    su di lui, lesse il consenso alle sue parole; il suo viso andò via via
    illuminandosi di un dolce sorriso senile che gli increspava  di  rughe
    gli  angoli  delle labbra e gli occhi.  Tacque e chinò il capo,  quasi
    fosse perplesso.
    - Ma,  a dire la verità,  chi li ha chiamati qui da noi?  Ben gli sta,
    figli di...   -  esclamò a un tratto,  sollevando il capo. E, agitando
    il frustino, per la prima volta nel corso della campagna, si allontanò
    al galoppo dai soldati che ridevano allegramente e  gridavano  "urrà",
    rompendo le file.
    Le  parole  pronunziate  da  Kutuzòv  sono  state  capite dai soldati?
    Nessuno  avrebbe  saputo  riferire  il  contenuto  del  discorso   del
    feldmaresciallo,   solenne  all'inizio  e  di  una  bonaria  e  senile
    semplicità alla fine;  però il senso cordiale  di  quelle  parole  non
    soltanto fu compreso,  ma quello stesso sentimento di maestoso trionfo
    unito alla pietà verso i nemici e alla coscienza  della  verità  delle
    proprie ragioni espressa da quella bonaria invettiva di vecchio,  quel
    sentimento era in fondo al cuore di ogni soldato e si manifestava  con
    grida  gioiose  che  risonarono a lungo.  Quando,  più tardi,  uno dei
    generali chiese al generalissimo se non ordinasse  di  far  venire  la
    carrozza,  Kutuzòv  gli  rispose,  evidentemente  in  stato  di grande
    commozione, con la voce rotta da un singhiozzo.


    CAPITOLO 7.

    L'8 novembre,  ultimo giorno della battaglia di Kràsnoe,  già scendeva
    il  crepuscolo  quando  le  truppe  raggiunsero  il posto di tappa per
    passare la notte. Durante tutta la giornata, freddissima e calma,  era
    caduta la neve, rada e leggera; verso sera si era avuta una schiarita.
    Attraverso  il  nevischio  si  scorgeva il cielo stellato,  di un cupo
    violaceo mentre il giallo si faceva più intenso.
    Il reggimento dei moschettieri, che era uscito da Tarùtino con tremila
    uomini e ne contava ora novecento,  giunse tra i  primi  al  posto  di
    tappa  stabilito,  un  villaggio  sulla  strada  maestra.  I  furieri,
    recatisi incontro al reggimento, informarono che tutte le "izbe" erano
    occupate dai malati e dai morti francesi,  dai soldati di cavalleria e
    dai  comandi  militari.  Ne  restava  una  sola  per il comandante del
    reggimento.
    Il comandante del reggimento andò verso il suo alloggio.  E i soldati,
    percorso  il  villaggio,  accanto alle ultime "izbe",  misero fucili a
    fascio.
    Simile a un immane  animale  dalle  molte  membra,  il  reggimento  si
    accinse a prepararsi il covile e il cibo.  Una parte dei soldati,  con
    la neve sino al ginocchio,  si sparpagliò per un bosco di betulle  che
    sorgeva  a  destra  del villaggio e subito risonarono tra gli alberi i
    colpi delle scuri e delle daghe, lo scricchiolio dei rami schiantati e
    un allegro vociare;  un'altra parte si diede da fare attorno al centro
    delle  salmerie  e  dei  cavalli  del  reggimento raggruppati insieme,
    tirando fuori marmitte e gallette e dando il  foraggio  agli  animali;
    una  terza  parte  infine si sparse per il villaggio per preparare gli
    alloggi per  gli  ufficiali,  rimuovere  i  cadaveri  dei  nemici  che
    giacevano nelle "izbe",  asportare tavole,  legname secco e paglia dai
    tetti per accendere i fuochi e costruirsi dei ripari.
    Una quindicina di soldati,  all'estremità del villaggio,  con  allegre
    grida, scotevano l'alto graticciato di una rimessa, alla quale era già
    stato portato via il tetto.
    -  Su,  su,  forza,  tutti  insieme!    -   gridavano varie voci e nel
    silenzio della notte, l'enorme graticcio coperto di neve oscillava;  i
    pali inferiori scricchiolavano sempre di più e finalmente il graticcio
    si rovesciò,  trascinando con sé i soldati che cercavano di smuoverlo.
    Grida allegre e sguaiate risate risonarono all'interno.
    - Prendetelo in due! Fate forza da questa parte, ecco, così... Ma dove
    vai?
    - Su, tutti insieme... Fermi, ragazzi! A tempo!
    Tutti tacquero e una voce non forte,  dolcemente vellutata intonò  una
    canzone.  Alla  fine  della  terza  strofa,  insieme  con lo spegnersi
    dell'ultima nota venti voci gridarono insieme:
    - Uù-uù... Si muove! Forza, ragazzi, tutti insieme!
    Ma, nonostante gli sforzi riuniti, il graticcio si spostò appena e nel
    silenzio che seguì si udì soltanto il respiro ansimante degli uomini.
    - Ehi, voi della sesta compagnia!  Diavoli...  demoni,  venite a darci
    una mano. Anche noi vi aiuteremo...
    Una ventina di uomini della sesta compagnia,  che stavano entrando nel
    villaggio,  unirono i loro sforzi a quelli dei compagni che  tentavano
    di  trascinare  il  graticcio lungo più di dieci metri e alto uno,  il
    quale piegandosi al centro,  pesando e segando le spalle  dei  soldati
    che ansimavano, fu così portato avanti lungo la via del villaggio.
    - Va' avanti, su! Attento a non cadere... Perché ti fermi?
    Allegre e volgari imprecazioni continuavano a farsi sentire.
    -  Ehi,  che  fate?   -  si levò a un tratto la voce autoritaria di un
    sergente che si era imbattuto nei compagni che portavano il graticcio.
    - Ci sono i signori, qui nell'"izbà", con il generale, e voi maledetti
    demoni...  Ve lo farò vedere io!   -  gridò il sergente e colpì con un
    pugno  la  schiena  del  primo soldato che gli capitò a tiro.   -  Non
    potete fare a meno di gridare tanto?
    I soldati  tacquero.  Quello  che  era  stato  colpito  dal  sergente,
    emettendo  di tanto in tanto un lamento cominciò ad asciugarsi il viso
    che, urtando contro il graticcio, si era scorticato a sangue.
    - Accidenti, come picchia quello! Mi ha spellato il muso  -  disse con
    voce timida, quando il sergente se ne fu andato.
    - Non ti piace, eh?  -  rispose una voce ridente: abbassando il tono i
    soldati proseguirono il cammino. Oltrepassato che ebbero il villaggio,
    ripresero a parlare ad alta voce, infiorando il discorso con le stesse
    stupide parolacce.
    Nell'"izbà", davanti alla quale erano passati i soldati, erano riuniti
    gli ufficiali superiori i quali, mentre prendevano il tè, discorrevano
    animatamente della giornata trascorsa e delle operazioni previste  per
    il  giorno  dopo;  si  presumeva  una  marcia  laterale a sinistra per
    tagliare la strada al viceré e catturarlo.
    Allorché arrivarono i soldati trascinando il graticcio, da varie parti
    erano già stati accesi i  fuochi  delle  cucine  da  campo.  La  legna
    crepitava,  cadeva  la  neve e le ombre nere dei soldati andavano su e
    giù sul bianco tappeto calpestato nello spazio occupato dal bivacco.
    Scuri e daghe lavoravano a tutta forza.  I soldati facevano ogni  cosa
    senza  attendere  ordini.  Portavano  provviste di legna per la notte,
    preparavano  baracchette  per  gli  ufficiali,   facevano  bollire  le
    marmitte, ripulivano i fucili e riordinavano le munizioni.
    Il graticcio trascinato dall'ottava compagnia fu collocato dalla parte
    di settentrione, disposto a semicerchio, sostenuto da pezzi di legno e
    proprio  davanti  fu  preparato  un falò.  Suonò la ritirata,  si fece
    l'appello. I soldati cenarono e si sistemarono per la notte accanto al
    fuoco; chi prese a rattopparsi le scarpe,  chi a fumare la pipa,  chi,
    messosi completamente nudo, si liberava intanto dai pidocchi.


    CAPITOLO 8.

    Parrebbe  che  nelle  penose  e quasi intollerabili condizioni di vita
    nelle quali si trovavano  in  quel  periodo  i  soldati  russi,  senza
    stivali pesanti,  senza pellicce,  senza un tetto che li riparasse, in
    mezzo alla neve con 18 gradi sotto zero,  senza sufficienti razioni di
    viveri,  parrebbe,  dico,  che  quei  soldati dovessero offrire il più
    triste e miserevole spettacolo.
    E invece mai, neppure nelle migliori condizioni materiali,  l'esercito
    offrì  uno  spettacolo più allegro e più animato.  Ciò accadeva perché
    ogni  giorno  si  erano  eliminati  automaticamente  gli  uomini   che
    cominciavano  a  perdersi  d'animo o che erano troppo deboli,  i quali
    nottetempo erano rimasti indietro;  restava quindi  soltanto  il  fior
    fiore dei soldati, forti fisicamente e moralmente
    Nell'ottava  compagnia,  che  si  era  costruita col graticcio un buon
    riparo, si erano riuniti molti soldati. Due sergenti stavano seduti in
    mezzo agli uomini dell'ottava e il loro fuoco divampava più vivo degli
    altri. Avevano preteso che, per avere il diritto di ripararsi sotto il
    loro graticcio, portassero nuova legna.
    - Ehi, Makeev,  che fai?  Dove ti sei cacciato?  O ti hanno divorato i
    lupi?  Porta  legna,  su!   -  gridava un soldato,  rosso di viso e di
    capelli, che socchiudeva gli occhi e sbatteva le palpebre per il fumo,
    ma che non si scostava dal fuoco.  -  Va' tu,  cornacchia,  e porta un
    po'  di  legna   -  aggiunse poi,  rivolto a un altro.  Il soldato dai
    capelli rossi non era né un sottufficiale, né un graduato,  ma un uomo
    forte  robusto,  che  perciò si permetteva di dare ordini a quelli che
    erano più deboli di lui.  Il soldato  piccolino,  magro,  dal  nasetto
    aguzzo,  che  era  stato  chiamato cornacchia,  si alzò e si mosse per
    eseguire l'ordine;  ma in quel momento,  alla luce  della  fiamma,  si
    delineò la svelta e bella sagoma di un giovane con un carico di legna.
    - Porta qui. Questa va bene...
    Alcuni uomini spezzarono la legna,  l'ammucchiarono,  vi soffiarono su
    con la bocca e con le falde dei cappotti e una bella fiammata  divampò
    crepitando. I soldati si avvicinarono e accesero la pipa. Il giovane e
    bel militare,  che aveva portato la legna,  cominciò,  tenendo le mani
    sui fianchi,  a battere ritmicamente a terra con agilità e sveltezza i
    piedi intirizziti.
    "Ah,  mamma  mia,  la  rugiada  è  fredda,  ma  è  pur  bella  per  il
    moschettiere...",  canterellava,  come se a ogni parola della  canzone
    emettesse un singhiozzo.
    - Ehi,  stai perdendo le suole!  -  gli gridò il rosso, osservando che
    una suola del ballerino ciondolava.  -  Bel gusto ballare!
    Il giovane si fermò, strappò il pezzo di cuoio ciondolante e lo sbatté
    nel fuoco.
    - Poco male, fratello!  -  rispose e, sedutosi,  trasse dallo zaino un
    pezzo  di panno turchino francese e con quello cominciò a fasciarsi il
    piede.  -  E' il vapore che stacca le suole  -  aggiunse, allungando i
    piedi verso il fuoco.
    - Presto ci distribuiranno stivali nuovi.  Dicono che quando li avremo
    battuti definitivamente, ci daranno tutto doppio.
    -  Ma vedi un po'...  Quel figlio di cane di Petròv è rimasto indietro
    -  disse il sergente.
    - Da un pezzo lo tenevo d'occhio...  -  disse un altro.
    - Be', ma quello era un soldatuccio da due soldi...
    - Mi hanno detto che ieri, nella terza compagnia ne sono mancati nove.
    - Ma giudica un po' tu: come puoi andare avanti  quando  hai  i  piedi
    assiderati?
    - Chiacchiere...  -  osservò il sergente.
    -  Hai voglia di provare ad averceli anche tu?   -  domandò un vecchio
    soldato,  rivolgendosi in tono di rimprovero a quello che aveva  detto
    di avere i piedi intirizziti.
    - Ma tu cosa credi?    -   sbottò tutto a un tratto, con voce stridula
    e tremante, spuntando da dietro il fuoco, il soldatino dal naso aguzzo
    che chiamavano cornacchia.  -  Chi è grasso diventa magro, chi è magro
    muore.  Io non ho più forze  -  disse in tono deciso,  rivolgendosi al
    sergente.    -    Fammi mandare all'ospedale,  sono sfinito dai dolori
    reumatici... Tanto non ce la farei ad andare avanti...
    - Suvvia basta, basta!  -  disse con calma il sergente.
    Il soldatino tacque e la conversazione proseguì.
    - Oggi di Francesi ne abbiamo presi mica pochi; ma quanto a stivali, a
    dirla franca,  non ne ho visto uno che dello stivale  avesse  qualcosa
    più del nome  -  intervenne un soldato, cambiando argomento.
    -  Ci hanno arraffato tutto i cosacchi.  Sono andati a pulire l'"izbà"
    del comandante e li hanno portati tutti via.  Era una pena  guardarli,
    ragazzi!   -  disse il ballerino.  -  Come li hanno rivoltati! Uno che
    era ancora vivo borbottava non so che cosa nella sua lingua...
    - E' gente pulita,  sapete,  ragazzi  -  disse il primo.   -  Bianchi,
    bianchi,  come betulle sono,  e ce n'è anche, dicono, di valorosi e di
    nobili.
    - E cosa credi? Ne hanno presi da tutte le classi...
    - Non capiscono niente della nostra lingua  -   osservò  il  ballerino
    con  aria stupita.   -  Gli chiedo: "Di che paese sei?" e lui borbotta
    qualcosa a modo suo. Strana gente!
    - Ma quello che è davvero strano, ragazzi,  -  intervenne colui che si
    stupiva che fossero così bianchi  -   è  che  a  Mozaisk,  dicevano  i
    contadini,  quando  hanno  cominciato  a  raccogliere  i morti dov'era
    avvenuta la battaglia,  e dove,  figurati,  erano rimasti  più  di  un
    mese...  sai  che mi hanno detto?  I loro morti,  rimasti lì più di un
    mese erano bianchi come la carta e non puzzavano per niente.
    Tutti tacevano.
    - Dipende dal cibo  -  disse il sergente.   -  Mangiavano da  signori,
    quelli...
    Nessuno fece obiezioni.
    -  Mi ha anche detto,  quel contadino là a Mozaisk,  dove c'è stata la
    battaglia,  che li hanno fatti venire da dieci villaggi  e  per  venti
    giorni  hanno  continuato  a  portarne via e mica li hanno portati via
    tutti, quei morti... E i lupi... diceva...
    - Quella è stata per davvero una battaglia   -    osservò  il  vecchio
    soldato.    -   Ce n'è di cose da raccontare,  ma dopo...  non è stato
    altro che un torturare la gente.
    - Dici bene,  nonnino.  L'altro giorno gli siamo  piombati  addosso  e
    quelli,  senza  neppure aspettare che ci si avvicini,  si affrettano a
    buttar via i fucili e a mettersi in ginocchio.  E dicono "Pardon!".  E
    questo  è  soltanto  un esempio.  Dicono che Platov ha preso due volte
    "Polione" (4) in persona.  Ma ignorava la parola magica.  L'ha  preso,
    sì,  l'ha  preso  ma ecco che quello nelle sue mani si trasforma in un
    uccello e vola via, vola via. E non riesce neppure ad ammazzarlo.
    - Come sei bravo, Kissilev, a raccontare fandonie! Ti sto ammirando...
    - Fandonie, dici? E' la pura verità.
    - Se fosse capitato a me di acchiapparlo,  lo avrei  sotterrato  e  ci
    avrei  piantato  sopra un pioppo.  Ne ha mandato della gente all'altro
    mondo!
    - Ma una fine ci sarà,  e la smetterà anche lui  di  andare  in  giro-
    disse sbadigliando il vecchio soldato.
    La conversazione si interruppe, i soldati si prepararono a dormire.
    -  Vedi  quante stelle?  E come splendono!  Dimmi,  non ti pare che le
    donne abbiano steso la tela?   -  osservò un  soldato,  guardando  con
    ammirazione la Via Lattea.
    - Questo, ragazzo, preannunzia una buona annata.
    - Ci vorrebbe ancora un po' di legna...
    - Ti scaldi la schiena e ti si gela la pancia.
    - Oh, Signore Iddio!
    - Perché spingi? Credi che il fuoco sia tutto per te? Ma guarda un po'
    come si è sdraiato quello...
    Il  silenzio  che si era fatto fu interrotto dal russare di coloro che
    si erano già addormentati;  gli  altri  si  rigiravano  da  un  fianco
    all'altro,  per scaldarsi,  e di tanto in tanto si scambiavano qualche
    parola.  Da un altro fuoco,  distante cento passi,  giunse una  risata
    allegra e cordiale.
    - Senti?  Alla quinta compagnia se la ridono!   -  disse un soldatino.
    -  E quanta gente c'è!
    Un soldato si alzò e andò a raggiungere la quinta compagnia.
    - C'è davvero di che divertirsi!  -  riferì, tornando.  -  Ci sono due
    che fanno la guardia: uno è tutto congelato, ma l'altro è un tipo così
    spavaldo che non ti dico. E canta...
    - Oh!  Andiamo  a  dare  un'occhiata...    -    E  alcuni  soldati  si
    avvicinarono alla quinta compagnia.


    CAPITOLO 9.

    La  quinta  compagnia  era  accampata al margine del bosco.  Un enorme
    fuoco divampava allegramente in mezzo alla  neve  illuminando  i  rami
    degli alberi appesantiti dalla brina.
    A  metà notte i soldati della quinta udirono nel bosco rumori di passi
    e di rami schiantati.
    - Ragazzi, un orso...  -  disse un soldato.  Tutti sollevarono il capo
    e tesero l'orecchio; dal fitto del bosco, illuminati dalla vivida luce
    del fuoco,  sbucarono due figure umane vestite in modo strano,  che si
    sorreggevano a vicenda.
    Erano due soldati francesi che si erano nascosti nel bosco.  Con  voce
    rauca dicevano qualcosa in una lingua che i soldati non comprendevano,
    e  intanto  si  avvicinavano  al  fuoco.  Uno,  di alta statura con il
    berretto da ufficiale, pareva non avere più forze. Quando fu presso al
    fuoco volle sedersi,  ma cadde a terra.  L'altro,  un soldato piccolo,
    tarchiato,  con  le  guance  fasciate da un fazzoletto,  pareva più in
    gamba. Aiutò il compagno a rialzarsi e, accennando alla propria bocca,
    disse qualcosa. I soldati circondarono i due francesi, stesero a terra
    un cappotto per l'ammalato e portarono per entrambi un po' di "kascia"
    e di vodka.
    L'ufficiale sfinito era Ramballe; il soldato dalle guance fasciate era
    Maurel, il suo attendente.
    Quando Maurel ebbe bevuto la vodka e mangiato una gavetta di "kascia",
    fu colto a un tratto da un'allegria morbosa e cominciò a parlare senza
    interrompersi con i soldati che non lo capivano.  Ramballe rifiutò  il
    cibo e, silenzioso, rimase coricato davanti al fuoco, appoggiandosi su
    un  gomito  e  guardando  con  occhi rossi e vuoti i soldati russi.  A
    tratti mandava un gemito prolungato,  poi  di  nuovo  taceva.  Maurel,
    toccandosi le spalle,  cercava di far capire ai soldati che quello era
    un ufficiale e che bisognava riscaldarlo. Un ufficiale russo,  che era
    passato  accanto  al fuoco,  mandò a chiedere al colonnello se volesse
    accogliere nell'"izbà" l'ufficiale francese perché si  riscaldasse,  e
    quando  il  messaggero  ritornò  dicendo  che il colonnello aveva dato
    ordine  di  trasportare  l'ufficiale  nell'"izbà",   fu  comunicato  a
    Ramballe  che  poteva  andare.  Egli si alzò e tentò di camminare,  ma
    barcollava e sarebbe caduto se il soldato che gli  stava  accanto  non
    l'avesse sorretto.
    -  Ma  come?  Non  ci  vuoi andare?   -  domandò un soldato ammiccando
    ironicamente, rivolto a Ramballe.
    - Imbecille! Perché parli così? Sei proprio un contadino, uno zoticone
    -  dissero diverse voci,  in tono di rimprovero al soldato  che  aveva
    scherzato.  Ramballe fu sollevato da due uomini che,  reggendolo sulle
    mani intrecciate,  lo portarono nell'"izbà".  Egli  circondò  il  loro
    collo e, durante il tragitto, disse con voce lamentosa:
    - "Oh,  mes braves, oh, mes bons, mes bons amis! Voilà des hommes! Oh,
    mes braves, mes bons amis!" [5. Oh, miei bravi, miei buoni amici! Ecco
    dei veri uomini.  Oh,  miei bravi miei buoni amici!]  -   e,  come  un
    bambino, piegò la testa sulla spalla di uno dei soldati.
    Intanto  Maurel  stava seduto nel posto migliore,  in mezzo ai soldati
    che gli si stringevano attorno.
    Maurel,  un piccolo  francese  tarchiato,  dagli  occhi  infiammati  e
    lacrimosi,  con il fazzoletto legato al modo delle donne sul berretto,
    indossava una pelliccetta femminile. Evidentemente alticcio,  cingendo
    con  le  braccia  un  soldato  che  gli stava accanto con voce rauca e
    spezzata,  cantava una canzone francese.  I soldati,  guardandolo,  si
    tenevano i fianchi dal gran ridere.
    - Suvvia,  suvvia, insegnamela. Io la imparo subito. Com'è?  -  diceva
    l'allegro soldato, quello che Maurel cingeva con un braccio.
    - "Vive Henri quatre
    Vive ce roi vaillant!" [6.  "Viva Enrico Quarto,  viva  quel  valoroso
    re!"]  -  cantò Maurel ammiccando.
    "Ce diable à quatre..." [7. "Quel vero demonio!"].
    -  "Vivarikà!  Vif Seruvarù!  Sidiablakà!..."  -  ripeteva il soldato,
    agitando la mano e cogliendo il motivo.
    - Bravo,  sei in gamba!  Oooh!  Oooh!   -  E allegre,  rozze risate si
    levarono da ogni parte. Maurel, ammiccando, rideva...
    - Su, forza, ancora, ancora!
    "Qui eut le triple talent,
    De boire, de battre
    Et  d'être  un vert galant..." [8.  "Che ebbe il triplice talento,  di
    bere, di combattere e di essere un dongiovanni in gamba..."] (8 a).
    - Bella anche questa... Provaci, tu, Zaletaev!
    - Kiù...  -  pronunziò Zaletaev, a fatica.  -  Kiùuu...  -  tentava di
    ripetere spalancando  la  bocca.    -    "Letripleta  ...debu  deba  i
    detravagala!".
    - Magnifico!  Proprio come un francese!  Ah ah.  ah! Bene, vuoi ancora
    mangiare?
    - Dagli un po' di "kascia";  con quella fame che aveva in corpo non si
    sazierà tanto presto!
    Gli offrirono di nuovo la "kascia";  Maurel, ridendo, diede fondo alla
    terza gavetta.  Lieti sorrisi illuminavano i visi dei giovani  soldati
    che  guardavano  Maurel.  I  vecchi,  che  consideravano  sconveniente
    occuparsi di simili sciocchezze, stavano sdraiati dall'altra parte del
    fuoco,  ma di tanto in tanto,  sollevandosi  sul  gomito,  osservavano
    Maurel e sorridevano.
    -  Anche  loro  sono  uomini    -   disse uno di essi avvolgendolo nel
    cappotto.
    - Anche l'assenzio cresce sulla sua radice.
    - Oh,  Signore,  Signore!  Quante stelle!  Segno di gelo...   -  tutto
    tacque.
    Le stelle,  quasi sapessero che ora nessuno le avrebbe più vedute,  si
    accesero più vive nel cielo nero. Ora ravvivandosi,  ora impallidendo,
    ora  tremolando  bisbigliavano  tra  loro affaccendate,  comunicandosi
    qualcosa di lieto e di misterioso.


    CAPITOLO 10.

    Le truppe francesi si scioglievano come neve al sole, regolarmente, in
    progressione matematica,  e il famoso passaggio  della  Beresinà,  sul
    quale  tanto  si  è  scritto,  fu  una  delle  tappe della distruzione
    dell'esercito napoleonico e non fu per nulla l'episodio decisivo della
    campagna. Se tanto si scrisse e si scrive sul passaggio della Beresinà
    da parte francese,  ciò è dovuto al fatto che sul  ponte  rovinato  di
    quel fiume,  le sventure sopportate dall'esercito di Napoleone,  prima
    distanziate in modo regolare,  risultarono  ora  riunite  formando  un
    tragico  spettacolo  che  rimase  impresso nella memoria di tutti.  Da
    parte dei Russi si è parlato e  si  è  scritto  tanto  sulla  Beresinà
    soltanto  perché a Pietroburgo,  lontano dal teatro della guerra,  era
    stato ideato un  piano  (da  Pfuhl)  per  attirare  Napoleone  in  una
    trappola  strategica,  situata  appunto  su  quel  fiume.  Tutti erano
    convinti che ogni cosa sarebbe avvenuta come prevista in quel piano, e
    perciò tutti si ostinarono ad affermare che fu  proprio  il  passaggio
    della  Beresinà a causare la rovina definitiva dell'esercito francese.
    In realtà,  il risultato del passaggio della Beresinà  fu  molto  meno
    disastroso  per i Francesi dal punto di vista della perdita di cannoni
    e di uomini,  che non la battaglia di Kràsnoe,  come le cifre stanno a
    dimostrare.
    L'unica importanza del passaggio della Beresinà sta nel fatto che esso
    dimostra con innegabile evidenza come fossero errati tutti i piani che
    miravano  a tagliare la strada a Napoleone e come fosse saggio l'unico
    piano d'azione possibile,  voluto da Kutuzòv,  che consisteva soltanto
    nell'inseguimento del nemico.
    Le  torme  francesi  fuggivano  con  una rapidità sempre crescente con
    tutte le energie tese a raggiungere lo scopo.  Esse fuggivano come  un
    animale  ferito,  e  non  era  possibile  tagliar  loro la strada.  Lo
    dimostrò,  non tanto il modo con il quale fu organizzata la traversata
    del fiume, quanto il movimento sui ponti. Allorché i ponti crollarono,
    i soldati disarmati, gli abitanti di Mosca, le donne con i bambini che
    si  trovavano nel convoglio francese,  tutti,  per effetto della forza
    d'inerzia,  non si arrendevano ma continuavano a  correre  in  avanti,
    sulle barche, nell'acqua gelata.
    Questa fuga precipitosa era ragionevole.  La condizione di chi fuggiva
    e di chi inseguiva era ugualmente  penosa.  Ognuno,  rimanendo  con  i
    suoi,  sperava di trovare,  nella sventura,  l'aiuto dei compagni,  di
    avere, in mezzo a loro, un posto anche per sé.  Arrendendosi invece ai
    Russi,  dal  punto  di  vista  delle sventure,  tutti rimanevano nella
    stessa condizione,  ma scendevano a un livello più  basso  per  quanto
    riguardava  la soddisfazione dei più necessari bisogni della vita.  Ai
    soldati francesi non occorrevano informazioni sicure  per  sapere  che
    metà  dei  prigionieri  -  dei quali i Russi non sapevano che fare per
    quanto desiderassero salvarli  -    morivano  di  fame  e  di  freddo;
    sentivano  che non poteva essere diversamente.  I comandanti russi più
    pietosi e più benevoli verso i  Francesi  e  gli  stessi  Francesi  al
    servizio  della Russia,  non potevano far nulla per i prigionieri.  La
    miseria in cui si trovava l'esercito russo li uccideva.  Non si poteva
    togliere  ai  soldati il pane e gli indumenti indispensabili per darli
    ai prigionieri,  non  pericolosi,  non  odiati  e  non  colpevoli,  ma
    semplicemente  inutili.   Alcuni  facevano  anche  questo,   ma  erano
    eccezioni.
    Alle spalle la rovina sicura;  davanti la speranza.  I vascelli  erano
    stati bruciati;  non esisteva altra salvezza all'infuori della fuga in
    massa e proprio a questa  fuga  in  massa  tendevano  tutte  le  forze
    francesi.
    Quanto più essi andavano innanzi,  quanto più miserabili erano i resti
    del loro esercito  -  soprattutto dopo la  Beresinà  sulla  quale,  in
    seguito  al  piano di Pietroburgo si fondavano particolari speranze  -
    tanto più si infiammavano le passioni dei capi militari russi,  che si
    accusavano l'un l'altro e che, soprattutto, accusavano Kutuzòv.
    Supponendo  che  l'insuccesso  del piano pietroburghese sulla Beresinà
    sarebbe stato imputato a  lui,  il  malcontento,  il  disprezzo  e  le
    canzonature   si   accanivano   sempre   di   più  contro  il  vecchio
    feldmaresciallo. Il malcontento e il disprezzo,  si capisce,  venivano
    espressi  in  una  forma  rispettosa,  in modo che Kutuzòv non potesse
    neppure domandare di che cosa e perché lo accusassero. Nessuno con lui
    parlava seriamente; chi gli faceva un rapporto o richiedeva un ordine,
    fingeva di compiere un penoso dovere, e intanto alle sue spalle ognuno
    ammiccava e cercava di ingannarlo quanto più poteva.
    Tutta quella  gente,  proprio  perché  non  poteva  comprenderlo,  era
    convinta  che  con quel vecchio non c'era nulla da fare,  che egli non
    avrebbe mai capito quanto fossero profondi i loro piani,  che  avrebbe
    risposto  con  le sue solite frasi (pareva a loro che fossero soltanto
    frasi) sul ponte d'oro da offrire al nemico! sull'assurdità di varcare
    la frontiera con una folla di cenciosi e così via. Cose queste che già
    gli avevano sentito dire.  E quanto egli diceva,  come,  per citare un
    esempio,  che era necessario aspettare i viveri,  che gli uomini erano
    senza scarpe,  era così semplice,  mentre ciò che essi proponevano era
    così  complesso  e astuto da risultare evidente che il vecchio era uno
    sciocco ed essi erano abili comandanti, ma privi del potere.
    Questa corrente di opinioni e  i  pettegolezzi  dello  stato  maggiore
    raggiunsero   il   culmine   specialmente   dopo   il   congiungimento
    dell'esercito  del  brillante  ammiraglio  ed  eroe  di   Pietroburgo,
    Wittgenstein,  con  quello di Kutuzòv.  Kutuzòv se ne avvedeva,  ma si
    limitava a stringersi nelle spalle e a sospirare. Una volta sola, dopo
    la Beresinà, andò in collera e a Bennigsen,  che mandava per suo conto
    rapporti al sovrano, scrisse la seguente lettera:
    "A  causa degli attacchi del vostro male,  vogliate,  alta eccellenza,
    appena ricevuta la presente,  recarvi a Kaluga  e  aspettare  colà  le
    ulteriori  istruzioni e la nomina a una nuova destinazione da parte di
    sua maestà imperiale".
    Ma dopo l'allontanamento di Bennigsen,  ritornò il granduca ereditario
    Costantino Pàvlovic',  che aveva partecipato all'inizio della campagna
    e che era stato allontanato dall'esercito da Kutuzòv. Ora il granduca,
    raggiunto l'esercito,  informò Kutuzòv del malcontento del sovrano per
    gli  scarsi  successi  delle  nostre  truppe  e  per la lentezza delle
    operazioni. L'imperatore,  inoltre,  aveva l'intenzione di raggiungere
    l'esercito da un giorno all'altro.
    Il  vecchio Kutuzòv,  esperto nelle faccende di Corte quanto in quelle
    militari,  l'uomo che nell'agosto di  quello  stesso  anno  era  stato
    eletto  generalissimo contro la volontà del sovrano,  l'uomo che aveva
    allontanato dall'esercito il granduca ereditario,  colui  che  con  un
    gesto   di   autorità   e  contro  la  volontà  dell'imperatore  aveva
    abbandonato Mosca,  quel vecchio Kutuzòv capì subito che il suo  tempo
    era  finito,  che  era finita la parte da lui recitata e che più nulla
    rimaneva del suo immaginario potere.  E non lo capì soltanto dai  suoi
    rapporti  con la Corte.  Da un lato vedeva che la guerra,  nella quale
    aveva sostenuto la sua parte,  era finita,  e sentiva di aver compiuto
    la  sua  missione;  dall'altro,  proprio in quel tempo,  cominciava ad
    avvertire nel suo vecchio corpo la stanchezza fisica e la necessità di
    riposo.
    Il 29 novembre,  Kutuzòv entrò in Vilna,  nella sua buona Vilna,  come
    egli soleva dire,  di cui già due volte,  durante il suo servizio, era
    stato generale governatore. Nella ricca Vilna, rimasta intatta,  oltre
    alle comodità della vita domestica, delle quali era privo già da tanto
    tempo,   Kutuzòv  trovò  vecchi  amici  e  vecchi  ricordi.  Ed  egli,
    sbarazzandosi da  un  giorno  all'altro  di  tutte  le  preoccupazioni
    militari e politiche, riprese la sua vita calma e metodica (per quanto
    glielo consentivano le passioni che gli ribollivano attorno),  come se
    tutto ciò che si compiva allora, e stava per compiersi nel mondo della
    storia, non lo riguardasse affatto.
    Ciciagòv, uno dei più ferventi sostenitori di quel piano di operazioni
    che tendeva a tagliar la strada  e  sbaragliare  l'esercito  francese,
    Ciciagòv,  che  dapprima  voleva fare una diversione in Grecia e poi a
    Varsavia,  ma che non voleva mai andare dove gli  veniva  ordinato  di
    andare,  Ciciagòv,  noto  per l'ardire con cui parlava all'imperatore,
    Ciciagòv considerava Kutuzòv un suo beneficato perché quando nel  1811
    era  stato mandato a concludere la pace con la Turchia all'insaputa di
    Kutuzòv,  egli,  persuaso che la pace  era  già  conclusa,  riconobbe,
    davanti al sovrano, che il merito spettava a Kutuzòv; quel Ciciagòv fu
    il  primo  ad accogliere Kutuzòv a Vilna,  davanti al castello dove il
    generalissimo  doveva  alloggiare.   Ciciagòv  in  bassa  uniforme  di
    ammiraglio,  con  lo  spadino al fianco e il berretto sotto l'ascella,
    offrì al generale in capo il quadro della forza effettiva e le  chiavi
    della  città.   I  rapporti  rispettosamente  sprezzanti  dei  giovani
    generali verso il vecchio  rimbambito,  si  manifestavano  al  massimo
    grado nel contegno di Ciciagòv, che era al corrente delle accuse mosse
    a Kutuzòv.
    Discorrendo  con  Ciciagòv,  Kutuzòv  gli disse,  tra l'altro,  che le
    carrozze contenenti il vasellame che gli erano  state  portate  via  a
    Bosìssovo, erano intatte e che gli sarebbero state restituite.
    - "C'est pour me dire que ie n'ai pas sur quoi manger...  Je puis,  au
    contraire,  vous fournir de tout dans le cas  même  où  vous  voudriez
    donner des dîners" [9.   E' per dirmi che non ho su che mangiare... Al
    contrario, posso fornirvi di tutto, anche nel caso che voleste offrire
    dei  pranzi]    -    rispose,  eccitato,  Ciciagòv  che,   desiderando
    dimostrare  con  ogni sua parola di aver ragione,  pensava che Kutuzòv
    avesse  la  stessa  preoccupazione.  Kutuzòv  sorrise  del  suo  fine,
    perspicace sorriso e, stringendosi nelle spalle, rispose:
    -  "Ce  n'est  que pour vous dire ce que je vous dis" [10.  Non voglio
    dire che quello che vi ho detto].
    A Vilna, diversamente dal volere dell'imperatore, Kutuzòv fece fermare
    la maggior parte delle truppe russe e,  come si sa dalle  persone  che
    gli stavano vicine,  durante la sua permanenza in quella città, deperì
    notevolmente sia dal lato morale,  sia da quello fisico.  Si occupava,
    ma senza zelo,  delle questioni riguardanti l'esercito, lasciando fare
    tutto ai suoi generali e,  in attesa  dell'imperatore,  conduceva  una
    vita vuota e distratta.
    Il 7 dicembre, l'imperatore, accompagnato dal suo séguito  -  il conte
    Tolstòj,  il  principe  Volkonskij,  Arakceev  e  altri    -    lasciò
    Pietroburgo e il giorno 11 arrivò a Vilna,  in slitta da viaggio e  si
    recò  direttamente  al  castello.  Presso  il castello,  nonostante il
    freddo gelido,  erano riuniti un centinaio di generali e di  ufficiali
    dello  stato  maggiore  in  grande  uniforme  e la Guardia d'onore del
    reggimento Semënovskij.
    Un corriere, giunto al galoppo al castello, su una "tròika" di cavalli
    coperti di sudore, precedeva il sovrano gridando: "Sta arrivando!".
    Konovnicyn si precipitò nel vestibolo per avvertire Kutuzòv, che stava
    in attesa nella stanzetta del portiere.
    Un minuto dopo,  l'alta e grossa figura del  vecchio  in  uniforme  di
    parata,  con  il  petto  coperto  di decorazioni e una sciarpa che gli
    cingeva il ventre, comparve, dondolandosi, in cima alla scala. Kutuzòv
    si era messo il berretto ben  diritto,  aveva  i  guanti  in  mano  e,
    scendendo con difficoltà i gradini, arrivò in basso e prese in mano il
    foglio che conteneva il rapporto preparato per l'imperatore.  Ci fu un
    grande andirivieni,  si  udì  un  rapido  bisbigliare,  passò  a  volo
    un'altra  "tròjka"  e  tutti  gli  occhi si fissarono sulla slitta che
    arrivava al  galoppo  e  nella  quale  già  si  scorgevano  le  figure
    dell'imperatore e di Volkonskij.
    Tutto  ciò,  per  un'abitudine  di quasi cinquant'anni,  produceva una
    profonda impressione sul vecchio generale;  con  aria  preoccupata  si
    esaminò rapidamente,  si aggiustò sul capo il berretto e,  proprio nel
    momento in cui il sovrano,  scendendo dalla slitta,  volgeva gli occhi
    su di lui, facendosi animo e irrigidendosi sulla persona, gli porse il
    rapporto e cominciò a parlare con la sua voce misurata e insinuante.
    L'imperatore squadrò rapidamente Kutuzòv dalla testa ai piedi, corrugò
    per  un  attimo  la fronte ma subito,  dominandosi,  gli si accostò e,
    spalancando le braccia, abbracciò il vecchio generale. E di nuovo, per
    un'abituale  impressione,   legata  ai  suoi  più   intimi   pensieri,
    quell'abbraccio agì,  come al solito,  su Kutuzòv,  ed egli scoppiò in
    singhiozzi.
    L'imperatore salutò gli ufficiali,  la Guardia d'onore del  reggimento
    Semënovskij  e,  stretta ancora una volta la mano al vecchio generale,
    entrò con lui nel castello.
    Rimasto a tu per tu con il feldmaresciallo,  l'imperatore gli espresse
    il  proprio  malcontento  per  la lentezza dell'inseguimento,  per gli
    errori commessi a Kràsnoe e alla Beresinà e gli espose le sue opinioni
    sulla  futura  campagna  oltre  frontiera.  Kutuzòv  non  fece  alcuna
    obiezione   né   alcuna  osservazione.   Aveva  sul  volto  la  stessa
    espressione docile e attonita con cui,  sette anni prima sul campo  di
    Austerlitz, aveva ascoltato gli ordini dell'imperatore.
    Quando,  uscito  dallo studio del sovrano con il suo passo dondolante,
    attraversava a capo chino la sala, udì una voce che lo chiamò.
    - Altezza serenissima!  -  aveva chiamato qualcuno.
    Kutuzòv alzò la testa e per un pezzo fissò il conte Tolstòj che, ritto
    davanti a lui,  gli presentava sopra un vassoio d'argento  un  piccolo
    oggetto. Pareva che il vecchio generale non capisse che cosa si voleva
    da lui.
    Tutt'a  un  tratto,  fu  come  se si risvegliasse: sulla grassa faccia
    carnosa passò l'ombra di un sorriso  ed  egli,  chinandosi  con  gesto
    rispettoso,  prese  l'oggetto posato sul vassoio.  Era la croce di San
    Giorgio di prima classe.


    CAPITOLO 11.

    Il giorno seguente, il feldmaresciallo offrì un pranzo e un ballo, che
    l'imperatore onorò della sua  presenza.  Kutuzòv  era  stato  decorato
    dell'ordine  di  San  Giorgio di prima classe: il sovrano lo insigniva
    del massimo onore,  ma nessuno ignorava il malcontento dell'imperatore
    verso  il generalissimo.  Si osservavano le convenienze e l'imperatore
    ne dava, per primo, l'esempio,  ma tutti erano convinti che il vecchio
    generale  era  colpevole  e  quando,  ormai  inetto  a qualsiasi cosa,
    durante il ballo,  secondo una vecchia usanza del tempo  di  Caterina,
    Kutuzòv  ordinò che all'entrare del sovrano nella sala fossero deposte
    ai suoi piedi le bandiere tolte al nemico, l'imperatore a questa vista
    aggrottò le sopracciglia con  espressione  seccata  e  mormorò  alcune
    frasi tra le quali alcuni credettero di udire: "vecchio comandante".
    Il  malcontento  dell'imperatore  contro  Kutuzòv  aumentò,  a  Vilna,
    specialmente perché il generalissimo evidentemente non  voleva  o  non
    poteva capire l'importanza della futura campagna.
    Quando il mattino successivo l'imperatore disse agli ufficiali riuniti
    presso di lui: "Voi non avete salvato soltanto la Russia,  ma l'Europa
    intera", tutti compresero che la guerra non era finita.
    Il solo Kutuzòv non lo  voleva  capire  ed  esprimeva  francamente  la
    propria   opinione:   una  nuova  guerra  non  avrebbe  migliorato  la
    situazione né procurato maggior gloria  alla  Russia,  ma  ne  avrebbe
    peggiorato  le  condizioni  e avrebbe diminuito l'altissima gloria che
    attualmente la circondava.  Egli cercava di dimostrare  all'imperatore
    l'impossibilità  di  arruolare  nuove  truppe;  parlava  delle  penose
    condizioni della popolazione,  della  possibilità  di  una  sconfitta,
    eccetera.
    In   tale   disposizione   d'animo   il   feldmaresciallo   costituiva
    evidentemente un ostacolo e un freno per la guerra imminente.
    A evitare discussioni con il vecchio si presentò quasi da sé  una  via
    d'uscita.  Consisteva, come già era stato ad Austerlitz e al principio
    della campagna con Barclay, nel togliere gradatamente al comandante in
    capo,  senza avvertirlo  e  senza  turbarlo,  il  potere  di  cui  era
    investito per trasferirlo all'imperatore in persona.
    A  questo  scopo  lo  stato  maggiore fu a poco a poco trasformato: la
    forza principale dello stato  maggiore  di  Kutuzòv  fu  disgregata  e
    trasferita presso l'imperatore.  Toll, Konovnicyn, Ermolov ricevettero
    nuoci incarichi. Tutti dicevano chiaramente che il feldmaresciallo era
    ormai debolissimo e che la sua salute era in condizioni precarie.
    Occorreva, perché lasciasse il proprio posto a colui che doveva essere
    il  suo  successore,   che  le  sue  condizioni  fisiche  risultassero
    realmente  malferme.  Ed  effettivamente il vecchio generale era assai
    debole.
    Con la stessa naturalezza e la stessa semplicità con cui  Kutuzòv,  al
    suo ritorno dalla Turchia,  era comparso gradatamente alla Corte delle
    finanze di Pietroburgo per arruolare  la  milizia  prima,  e  per  poi
    mettersi  a  capo dell'esercito quando era diventato necessario,  così
    con la stessa naturalezza e la stessa semplicità,  a grado a grado era
    comparso,  ora che la sua parte era finita, il nuovo attore che doveva
    prendere il suo posto e che le circostanze richiedevano.
    La guerra del 1812, oltre al suo significato nazionale,  caro al cuore
    del popolo russo,  doveva averne uno europeo.  Al movimento dei popoli
    da occidente a oriente doveva succedere  un  movimento  di  popoli  da
    oriente a occidente, e per questa nuova guerra occorreva un uomo nuovo
    che  avesse  qualità e vedute diverse da quelle di Kutuzòv,  e diversi
    impulsi per le sue azioni.
    L'imperatore Aleksàndr era l'uomo necessario per  lo  spostamento  dei
    popoli  dall'oriente  verso  occidente  e  per il ristabilimento delle
    frontiere, così come era stato necessario Kutuzòv per la salvezza e la
    gloria della Russia.
    Kutuzòv non capiva  che  cosa  significassero  l'Europa,  l'equilibrio
    europeo,  Napoleone.  Non  lo  poteva  capire.  Per  l'uomo  che aveva
    rappresentato il popolo russo,  dal momento in cui il nemico risultava
    sconfitto  e  in  cui  la  Russia era liberata e giunta al sommo della
    gloria, all'uomo russo, come tale, non restava nulla da fare.  A colui
    che  aveva  rappresentato  la  guerra  nazionale,  non rimaneva se non
    morire. Ed egli morì.


    CAPITOLO 12.

    Come avviene nella maggior parte dei casi,  Pierre  risentì  tutto  il
    peso  delle  privazioni  e  delle  fatiche fisiche sofferte durante la
    prigionia  soltanto  quando  quelle  privazioni   e   quelle   fatiche
    cessarono.  Dopo la liberazione, egli si recò a Orël e tre giorni dopo
    il suo arrivo,  mentre si preparava a partire per Kiev,  cadde malato;
    per tre mesi fu costretto a rimanere a letto.  Era stato colpito, come
    dicevano i medici,  da una febbre  biliare.  Nonostante  le  cure  dei
    medici, i salassi e le medicine che essi gli ordinarono, guarì.
    Di  tutto  ciò  che  gli  era accaduto dal momento della liberazione a
    quello in cui si  era  ammalato,  non  era  rimasta  a  Pierre  alcuna
    impressione.  Ricordava  soltanto  il  tempo  grigio,  scuro,  ora  di
    pioggia,  ora di neve,  ricordava un malessere fisico interno,  dolori
    alle gambe e ai fianchi;  ricordava una impressione generale della sua
    infelicità e delle sofferenze degli uomini;  ricordava  il  turbamento
    che  gli  procurava la curiosità degli ufficiali e dei generali che lo
    interrogavano,  e quanto aveva dovuto tribolare per trovare carrozza e
    cavalli,  ma soprattutto ricordava, di quel periodo, la sua incapacità
    a pensare e a sentire.  Il giorno della liberazione  aveva  veduto  il
    cadavere di Pétja Rostòv.  In quello stesso giorno aveva saputo che il
    principe Andréj era rimasto in  vita  per  più  di  un  mese  dopo  la
    battaglia di Borodinò e che era morto recentemente a Jaroslàvl,  nella
    casa dei Rostòv.  Sempre in quello stesso  giorno  Denissov,  che  gli
    aveva comunicato questa notizia,  accennò per caso,  discorrendo, alla
    morte di Elen,  supponendo che Pierre ne  fosse  informato  da  tempo.
    Tutto  ciò era allora parso a Pierre solamente strano;  sentiva di non
    essere in grado di capire l'importanza  di  quelle  notizie.  In  quel
    periodo  era  ansioso  di  lasciare al più presto quei luoghi dove gli
    uomini si uccidevano l'un  l'altro,  per  trovare  qualche  tranquillo
    rifugio  dove  gli  fosse  stato  possibile  riprendersi,  riposare  e
    riflettere su tutte le cose strane e nuove di cui aveva avuto  notizia
    in quei giorni.  Ma appena arrivato a Orël si era ammalato.  Ritornato
    in sé dopo la malattia,  Pierre si vide attorno due dei suoi domestici
    venuti  da  Mosca    -    Terentij  e Vaska  -  e la più anziana delle
    principessine che viveva a Elétz,  in un possedimento di Pierre e che,
    venuta  a  conoscenza  della liberazione e della malattia di lui,  era
    accorsa per curarlo.
    Durante la convalescenza,  Pierre andò a poco a poco liberandosi dalle
    impressioni  che  gli  erano  divenute consuete negli ultimi mesi e si
    abituò all'idea che nessuno il giorno dopo lo  avrebbe  spinto  chissà
    dove, che nessuno lo avrebbe privato del suo letto caldo e che non gli
    sarebbero  mancati  il pranzo,  il tè,  la cena.  Ma in sogno continuò
    ancora per un pezzo a vedersi  nelle  condizioni  della  prigionia.  E
    similmente,  a  poco  a poco,  Pierre cominciò a capire il significato
    delle notizie apprese subito dopo la liberazione dalla  prigionia:  la
    morte  del  principe  Andréj,  la  morte  della  moglie e la sconfitta
    dell'esercito francese.  Il gioioso senso  della  libertà,  di  quella
    libertà assoluta, piena, innata, preziosa, e di cui per la prima volta
    aveva  fatto  esperienza alla prima tappa dopo l'uscita da Mosca,  gli
    riempiva l'animo durante la convalescenza.  Egli  si  stupiva  che  la
    libertà interiore,  indipendente dalle circostanze esterne,  fosse ora
    accompagnata anche  dalla  libertà  esteriore,  come  un  qualcosa  di
    sovrappiù.  Si  trovava solo,  in una città estranea,  nella quale non
    conosceva nessuno.  Nessuno esigeva niente da lui,  nessuno lo mandava
    più  in  alcun luogo.  Tutto ciò che desiderava lo poteva ottenere;  i
    pensieri che a causa di sua moglie lo avevano tanto  tormentato  prima
    non esistevano più, perché ella stessa non esisteva più.
    "Ah,  come si sta bene!  Che bellezza!", diceva a se stesso quando gli
    avvicinavano la tavola coperta da una candida tovaglia su  cui  posava
    la  tazza  del  brodo odoroso,  o quando si sdraiava nel morbido letto
    pulito o,  ancora,  quando gli tornava in mente che non esistevano più
    né  sua moglie,  né l'esercito francese.  "Ah,  come si sta bene!  Che
    bellezza!", e per una vecchia abitudine si domandava: "E poi? Che cosa
    farò poi?". Ma subito rispondeva a se stesso: "Niente. Vivrò. Ah,  che
    gioia!".
    Ciò  che  l'aveva  tanto tormentato nel passato,  ciò che aveva sempre
    cercato, lo scopo della vita, ora per lui non esisteva più,  e non per
    caso non esisteva più, o non esisteva solo momentaneamente, ma sentiva
    che non esisteva affatto,  che non poteva più esistere. Ed era appunto
    quella mancanza di scopo che gli dava la sensazione gioiosa e completa
    della libertà, che in quel periodo lo rendeva felice.
    Non poteva avere scopi perché ora aveva la fede,  non la fede in certe
    regole, in certe parole o in certe idee, ma la fede in un Dio vivente,
    che  sempre sentiamo presente.  Prima egli cercava Dio negli scopi che
    si prefiggeva.  La sua ricerca di uno scopo era soltanto la ricerca di
    Dio; e improvvisamente, durante la prigionia, aveva imparato non dalle
    parole,  non  dai ragionamenti,  ma da un sentimento immediato ciò che
    tanto tempo prima gli diceva la sua bambinaia: che, ecco,  Dio è qui e
    dappertutto. In prigionia aveva imparato che Dio era grande, infinito,
    incomprensibile  in  Karataev  più  che  nell'Architetto dell'universo
    riconosciuto dai massoni.  Provava il sentimento di chi si trova sotto
    i  piedi  ciò che cercava aguzzando la vista,  guardando lontano.  Per
    tutta la vita aveva guardato lontano,  chissà  dove,  oltre  le  teste
    degli  uomini che lo circondavano,  mentre non era necessario: bastava
    guardare davanti a sé.
    Prima di allora non aveva saputo vedere  in  alcuna  cosa  il  grande,
    l'infinito,  l'inaccessibile.  Aveva  soltanto  sentito che in qualche
    luogo esso doveva esistere e lo aveva cercato.  In tutto ciò  che  gli
    stava accanto e che poteva comprendere,  egli vedeva soltanto qualcosa
    di limitato, di piccolo, di assurdo.  Si era armato di un cannocchiale
    spirituale e aveva guardato lontano,  laggiù dove le piccole, limitate
    cose umane, occultate in una lontananza nebbiosa,  gli parevano grandi
    e infinite soltanto perché non le vedeva chiaramente. Così appunto gli
    si  presentavano  la  vita  europea,  la politica,  la massoneria,  la
    filosofia, la filantropia.  Ma anche allora,  in quei momenti che egli
    considerava  una  sua  debolezza,  la  sua  mente  penetrava in quella
    lontananza,  anche laggiù vedeva le  stesse  cose  piccole,  meschine,
    insensate.  Ora  invece aveva imparato a vedere in ogni cosa l'eterno,
    l'infinito, e per vederlo, per godere della sua contemplazione,  aveva
    naturalmente  gettato  via il cannocchiale con il quale,  sino allora,
    aveva guardato al di sopra delle teste  degli  uomini,  e  contemplava
    gioiosamente attorno a sé la vita eternamente grande, incomprensibile,
    infinita.  E  quanto  più  guardava vicino a sé,  tanto più si sentiva
    tranquillo e felice.  La terribile domanda che  un  tempo  distruggeva
    tutti i suoi ragionamenti  -  perché?   -  ora non esisteva più. Ora a
    quella domanda era sempre pronta nell'anima sua una semplice risposta:
    perché esiste Dio,  quel Dio senza la cui volontà non cade neppure  un
    capello dalla testa dell'uomo.


    CAPITOLO 13.

    Pierre   non   era  molto  mutato  nel  suo  comportamento  esteriore;
    apparentemente era in tutto e per tutto come  prima.  Come  prima  era
    distratto  e  pareva  occuparsi  non già di ciò che aveva davanti agli
    occhi, ma di qualcosa che lo riguardasse in modo particolare.  L'unica
    differenza tra il suo modo di essere di prima e quello attuale era che
    prima,  allorché  dimenticava le cose che gli stavano dinanzi,  quelle
    che gli dicevano,  egli aggrottava dolorosamente  la  fronte  come  se
    tentasse  e  non  riuscisse  a  vedere  qualcosa  di  lontano.  Adesso
    dimenticava sempre ciò che gli dicevano e ciò che gli  stava  dinanzi,
    ma   con   un   appena   percettibile  sorriso  canzonatorio  guardava
    attentamente  ciò  che  gli  stava  dinanzi  e  ascoltava  con  uguale
    attenzione ciò che gli veniva detto,  quantunque si capisse che vedeva
    e udiva qualcosa di assolutamente diverso.
    Prima egli appariva un uomo buono e sventurato,  e per questo la gente
    involontariamente si allontanava da lui; ora il sorriso della gioia di
    vivere  era  costantemente  sulle  sue labbra,  ora gli brillava negli
    occhi la simpatia per gli altri  esseri  umani  e  vi  si  leggeva  la
    domanda: "Sono essi contenti come me?". E la gente si compiaceva della
    sua presenza.
    Prima parlava molto e parlando si accalorava,  ma ascoltava poco;  ora
    si  lasciava  raramente  trascinare  dalla  conversazione   e   sapeva
    ascoltare in modo tale che gli altri gli confidavano volentieri i loro
    più intimi pensieri.
    La principessina, che non aveva mai voluto bene a Pierre e che nutriva
    per  lui  un sentimento particolarmente ostile sin da quando,  dopo la
    morte del vecchio conte,  era divenuta una  sua  beneficata,  con  suo
    dispetto  e stupore (dopo un breve soggiorno a Orël dove si era recata
    con   l'intenzione   di   dimostrare   a   Pierre   che,    nonostante
    l'ingratitudine   di   lui,   essa   riteneva   suo   dovere   curarlo
    premurosamente), aveva sentito ben presto di volergli bene. Pierre non
    cercava affatto la benevolenza della  principessina;  si  limitava  ad
    osservarla  con  curiosità.  Nel  passato  ella  si era sempre sentita
    guardare da lui con indifferenza beffarda e,  come le accadeva con  le
    altre  persone,  si  chiudeva in se stessa e lasciava apparire il lato
    battagliero della propria natura;  ora,  invece,  le pareva di sentire
    che  egli  indovinava  gli intimi segreti della sua vita,  e prima con
    diffidenza,  poi  con  riconoscenza,  cominciò  a  rivelargli  i  lati
    migliori del proprio carattere.
    L'uomo  più  scaltro  non  avrebbe  potuto cattivarsi più abilmente la
    fiducia della principessina,  evocando in lei i ricordi migliori della
    sua gioventù e dimostrandole molta simpatia.  E invece tutta l'astuzia
    di  Pierre  consisteva  soltanto  nel  cercare  il  proprio   piacere,
    suscitando  nella  principessina  inasprita,  arida e orgogliosa,  dei
    sentimenti umani.
    "Sì,  Pierre è buono,  molto buono quando non è sotto  l'influenza  di
    gente cattiva, ma di persone come me", si diceva la principessina.
    Il mutamento avvenuto in Pierre era stato notato a modo loro anche dai
    suoi  domestici  Terentij  e  Vaska,  i  quali  trovavano che egli era
    diventato molto più semplice.  Spesso Terentij,  dopo aver aiutato  il
    padrone a spogliarsi,  con le scarpe in mano,  l'abito sul braccio,  e
    dopo aver augurato la buona notte, indugiava ad andarsene,  aspettando
    che  il  signore  si  mettesse  a  discorrere  e  quasi sempre Pierre,
    accorgendosi  che  Terentij  aveva   voglia   di   chiacchierare,   lo
    tratteneva.
    - Raccontami,  dunque...  come facevate a procurarvi i viveri?  -  gli
    chiedeva.  E Terentij cominciava a parlare della distruzione di Mosca,
    del  defunto  conte  e  rimaneva  a lungo così con l'abito del padrone
    sulle braccia, parlando e talora ascoltando i racconti di Pierre;  poi
    se  ne  andava in anticamera con la gradevole sensazione della propria
    familiarità con il  padrone  e  della  benevolenza  di  lui  nei  suoi
    riguardi.
    Il  dottore  che curava Pierre e che lo visitava ogni giorno,  sebbene
    come tutti i medici ritenesse suo dovere darsi l'aria di un uomo i cui
    minuti  sono  preziosi  per  il  bene  dell'umanità   sofferente,   si
    tratteneva  ore  intere  presso Pierre a raccontargli le sue storielle
    preferite e le sue osservazioni  sulle  abitudini  degli  ammalati  in
    genere e delle signore in particolare.
    -  Ecco,  è piacevole discorrere con una persona come voi;  non è come
    qui da noi in provincia  -  diceva.
    A  Orël  si  trovavano   alcuni   ufficiali   dell'esercito   francese
    prigionieri  e  un giorno il dottore ne condusse uno da Pierre: era un
    giovane ufficiale italiano, il quale prese a frequentare Pierre,  e la
    principessina  rideva  degli  affettuosi sentimenti che l'italiano gli
    dimostrava.
    Il giovane ufficiale era  felice  soltanto  quando  poteva  andare  da
    Pierre a discorrere, a raccontargli del suo passato, della sua vita di
    famiglia, di un suo amore, esprimendogli spesso il suo sdegno contro i
    Francesi e specialmente contro Napoleone.
    - Se tutti i Russi vi somigliano almeno un po',   -  diceva il giovane
    italiano a Pierre  -  "c'est un sacrilège que de faire la guerre à  un
    peuple  comme  le vôtre" [11.  è un sacrilegio fare guerra a un popolo
    come il vostro].  Voi che avete tanto sofferto per opera dei Francesi,
    non sentite alcun rancore verso di loro!
    E Pierre si era guadagnato l'appassionato affetto del giovane italiano
    soltanto  perché aveva destato in lui i lati migliori della sua anima,
    e li ammirava.
    Nell'ultimo periodo del suo soggiorno  a  Orël,  Pierre  ricevette  la
    visita di un vecchio conoscente massone,  quel conte Villarski che nel
    1807 lo aveva fatto ammettere nella Loggia.  Il conte Villarski  aveva
    sposato  una  signora  russa molto ricca,  proprietaria di vaste terre
    nella provincia di Orël, e occupava in città un posto temporaneo negli
    uffici dell'approvvigionamento.
    Avendo saputo che Bezuchov si trovava a Orël,  Villarski,  sebbene non
    fosse mai stato in stretti rapporti di amicizia con lui,  era andato a
    trovarlo con quelle dimostrazioni di amichevole  e  cordiale  simpatia
    che  di solito si scambiano le persone che s'incontrano in un deserto.
    A Orël,  Villarski si annoiava,  ed era felice di aver incontrato  una
    persona  del  suo  ambiente  la quale,  secondo quanto egli supponeva,
    aveva i suoi medesimi interessi.
    Ma con suo grande stupore,  Villarski non tardò a costatare che Pierre
    era  rimasto  molto in ritardo relativamente alla vita del suo tempo e
    che era caduto  -    dal  suo  punto  di  vista    -    nell'apatia  e
    nell'egoismo.
    - "Vous vous encroûtez, mon cher" [12. Voi vi fossilizzate, mio caro!]
    -  gli diceva.
    Nonostante  questo,  Villarski  trovava ora la compagnia di Pierre più
    piacevole che nel passato e ogni giorno si recava a trovarlo.  Pierre,
    da  parte  sua,  osservando  e ascoltando Villarski,  trovava strano e
    incredibile di essere stato come lui, non molto tempo innanzi.
    Villarski era sposato, aveva famiglia,  si occupava degli affari della
    moglie   e  del  proprio  servizio.   Egli  considerava  tutte  queste
    occupazioni come altrettanti ostacoli alla  vita,  e  tutte  degne  di
    disprezzo  perché  avevano  come scopo il bene personale suo proprio e
    quello   della   propria   famiglia.   Le   considerazioni   militari,
    amministrative,  politiche  e massoniche occupavano di continuo la sua
    mente.  E Pierre,  senza cercare di fargli  mutare  opinione  e  senza
    biasimarlo,  contemplava  quello  strano  fenomeno a lui così noto con
    un'ironia sempre mite e gioiosa.
    Nei suoi rapporti con Villarski, con la principessina, con il dottore,
    con tutte le persone con le quali aveva a che  fare,  Pierre  rivelava
    ora  un nuovo tratto del suo carattere,  mediante il quale si attirava
    la simpatia di tutti: era la sua disposizione a  riconoscere  in  ogni
    uomo  la  possibilità  di  pensare,  di  sentire e di vedere le cose a
    proprio modo e l'impossibilità di mutare con le parole i convincimenti
    di un uomo. Questa legittima singolarità individuale,  che nel passato
    turbava  e  irritava  Pierre,  costituiva ora la base principale della
    simpatia  e  dell'interesse  che  egli  provava  per  gli  uomini.  La
    divergenza,  talora  l'assoluto contrasto tra le opinioni degli uomini
    con la loro vita e tra di loro,  divertivano Pierre e  provocavano  il
    suo mite, ironico sorriso.
    Negli  affari pratici,  Pierre aveva inaspettatamente sentito di avere
    un centro di gravità che prima gli mancava. Nel passato ogni questione
    di denaro e,  soprattutto,  le richieste di denaro che,  essendo  egli
    molto  ricco,  gli  venivano molto spesso rivolte,  gli avevano sempre
    cagionato un invincibile turbamento. "Dare o non dare?",  si domandava
    allora. "Io ne ho, e lui ne ha bisogno. Ma un altro ne ha più bisogno.
    Chi  ne  ha  più bisogno?  O forse mi ingannano entrambi".  Così,  non
    trovando via d'uscita a tutte queste supposizioni,  egli dava denaro a
    tutti  sino  a  che ne aveva.  Si trovava nell'identico imbarazzo ogni
    volta che,  trattandosi del suo patrimonio,  qualcuno gli  diceva  che
    bisognava agire in un modo e qualcuno in un altro.
    Ora,  con sua meraviglia, aveva scoperto di non aver più simili dubbi,
    né simili perplessità in questioni del genere. Si levava ora in lui un
    giudice che,  secondo certe  leggi  che  egli  stesso  non  conosceva,
    decideva che cosa dovesse fare o non fare.
    Come  già  prima,  era  indifferente alle questioni di denaro,  ma ora
    sapeva con certezza come bisognasse fare e non fare.  La  prima  volta
    che  applicò  questo nuovo criterio fu a causa della richiesta che gli
    fece un colonnello francese che  venne  a  trovarlo,  il  quale,  dopo
    avergli fatto molti racconti sulle sue prodezze, finì con l'esigere, o
    quasi,  che  Pierre  gli  desse  quattromila franchi per mandarli alla
    moglie e ai figli.  Pierre,  senza il minimo  sforzo  e  senza  alcuna
    difficoltà, glieli rifiutò, meravigliandosi poi di come fosse semplice
    e  facile fare una cosa che prima gli appariva come una insormontabile
    difficoltà.  E insieme,  proprio mentre rispondeva negativamente  alla
    richiesta   del  colonnello,   egli  decise  che  occorreva  ricorrere
    all'astuzia,  prima di partire da Orël,  per  costringere  l'ufficiale
    italiano  ad accettare del denaro che,  evidentemente,  gli occorreva.
    Un'altra  prova  del  suo  nuovo  modo  di  considerare  le  questioni
    pratiche,  Pierre  la  ebbe  dalla  risoluzione  che prese riguardo ai
    lavori di restauro delle case di Mosca e della villa fuori città.
    Il suo amministratore capo venne a Orël e insieme con lui Pierre  fece
    un  conto generale delle sue rendite che erano notevolmente diminuite.
    L'incendio   di   Mosca   gli   era   costato,   secondo   i   calcoli
    dell'amministratore, quasi due milioni di rubli. L'amministratore, per
    consolarlo  di  questa  perdita,  presentò a Pierre un conto dal quale
    risultava che,  nonostante tale  perdita,  le  entrate  non  solo  non
    sarebbero  diminuite,  bensì  aumentate  se  egli  avesse rifiutato di
    pagare i debiti lasciati dalla contessa  -  cosa alla quale non poteva
    essere obbligato - e se avesse rinunziato  a  restaurare  la  casa  di
    Mosca  e  la  villa  fuori città,  che costavano ogni anno ottantamila
    rubli e non rendevano niente.
    - Sì, sì, è vero  -  rispose Pierre, sorridendo allegramente.  Sì, sì,
    certo,  io non ho bisogno di tutta quella  roba.  Dalla  rovina  mi  è
    venuta una maggiore ricchezza.
    Ma in gennaio arrivò da Mosca Savelic', gli riferì sulle condizioni di
    Mosca e gli parlò del preventivo presentatogli dagli architetti per il
    restauro della casa e della villa, parlandone come di cosa già decisa.
    In  quello stesso periodo Pierre ricevette alcune lettere dal principe
    Vassilij e da altri conoscenti di Pietroburgo,  nelle quali si parlava
    dei   debiti   della   moglie.   E   Pierre  decise  che  il  progetto
    dell'amministratore,  che gli era tanto piaciuto,  non era attuabile e
    sentì  che  doveva  recarsi  a Pietroburgo a definire gli affari della
    moglie e che a Mosca doveva rifabbricare.  Perché occorresse fare così
    non  sapeva;  ma  sapeva,  senza  ombra  di  dubbio,  che  questo  era
    necessario. Le sue entrate,  in seguito a tale decisione,  diminuivano
    di  tre  quarti.  Ma  bisognava far così,  egli lo sentiva.  Villarski
    partiva per Mosca e stabilirono di fare il viaggio insieme.
    Durante tutto il periodo della sua convalescenza a Orël,  Pierre aveva
    provato  un continuo senso di gioia,  di libertà,  di vita,  e quando,
    durante il viaggio, si trovò all'aria aperta e vide centinaia di volti
    nuovi,  questa sensazione si fece ancora più  intensa.  Per  tutta  la
    durata  del  viaggio  provò  la gioia di uno scolaro in vacanza.  Ogni
    persona, il postiglione, il mastro di posta,  i contadini sulla strada
    o  nei  villaggi,  tutti  avevano  per  lui  un significato nuovo.  La
    presenza e le osservazioni di Villarski,  che lamentava  continuamente
    la  povertà,  l'arretratezza  della  Russia in confronto con l'Europa,
    contribuivano ad aumentare la  gioia  di  Pierre.  Là  dove  Villarski
    vedeva  la  morte,  Pierre  vedeva  un'eccezionale  forma di vitalità,
    quella forza che in mezzo alla neve,  in  quella  immensa  distesa  di
    terra,  sosteneva la vita di quel popolo particolare e unico. Egli non
    contraddiceva Villarski e quasi fosse d'accordo con lui (giacché  quel
    finto  consenso era il modo più sbrigativo per evitare una discussione
    che  non  poteva  approdare  a  nulla),   lo  ascoltava  e   sorrideva
    allegramente.


    CAPITOLO 14.

    Com'è difficile spiegare come, perché e dove si affrettino le formiche
    di  un  formicaio sconvolto,  le une fuggendone e trascinandosi dietro
    granelli,  uova  e  cadaveri,  le  altre  ritornandovi,  e  perché  si
    azzuffino,  si urtino a vicenda,  si rincorrano, altrettanto difficile
    sarebbe spiegare le cause che,  dopo la fuga  dell'esercito  francese,
    inducevano  i  Russi ad accalcarsi nel luogo che prima si era chiamato
    Mosca.  Ma allo stesso modo che,  osservando  le  formiche  agitantesi
    attorno  al  formicaio  distrutto  (benché la devastazione di esso sia
    totale)  si  nota,  dalla  tenacia,  dall'energia,  dall'incalcolabile
    numero  degli  insetti  in  agitazione,  che tutto è distrutto fuorché
    qualche cosa di indistruttibile,  di immateriale  che  costituisce  la
    forza del formicaio,  così anche Mosca nel mese di ottobre, quantunque
    non esistessero più né autorità, né chiese, né reliquie, né ricchezze,
    né case,  era la stessa Mosca del mese di agosto.  Tutto era distrutto
    all'infuori  di  quel  non  so  che  di  immateriale  che era tuttavia
    possente e indistruttibile.
    I moventi che spingevano da ogni parte la gente verso Mosca,  dopo che
    la  città  era  stata  abbandonata  dal  nemico,  erano svariatissimi,
    personali e,  nei primi tempi,  per lo più selvaggi e animaleschi.  Un
    solo movente era comune a tutti: quello che consisteva nell'andare là,
    in  quel  luogo che prima era chiamato Mosca,  per svolgervi ognuno la
    propria attività.
    Una settimana dopo vi erano già  a  Mosca  quindicimila  persone;  due
    settimane  dopo  ve ne erano venticinquemila e così via.  Questa cifra
    continuò a crescere e a crescere,  cosicché verso l'autunno  del  1813
    essa superò quella della popolazione del 1812.
    I  primi russi che ritornarono in Mosca furono i cosacchi del corpo di
    Wintzingerode,  i contadini dei villaggi vicini e  gli  abitanti  che,
    fuggiti  da  Mosca,  si  erano  nascosti  nei  dintorni.  I  Russi che
    entrarono  allora  in  Mosca  saccheggiata  si  diedero  anch'essi  al
    saccheggio.  E  continuarono  così  l'opera  dei  soldati  francesi: i
    carretti dei contadini venivano a Mosca per trasportare  nei  villaggi
    tutto  ciò  che  era stato abbandonato nelle case e nelle strade della
    città devastata.  I cosacchi portavano nei loro accampamenti  ciò  che
    potevano, i proprietari di casa si impadronivano di ciò che riuscivano
    a prendere nelle case altrui, con il pretesto che era roba loro.
    Dopo i primi saccheggiatori ne vennero altri, poi altri ancora, e ogni
    giorno, a misura che aumentava il loro numero, il saccheggio diventava
    sempre più difficile e assumeva forme più precise.
    I soldati francesi avevano trovato Mosca spopolata,  sì, ma ancora con
    l'aspetto di una città avente  una  vita  organica  e  regolare,  dove
    esistevano  diversi  rami  del  commercio: i mestieri ,  il lusso,  il
    culto.  Erano aspetti privi di vita,  tuttavia esistevano  ancora.  Vi
    erano mercati,  botteghe,  magazzini,  depositi, bazar, per la maggior
    parte con abbondanza di merci;  vi erano fabbriche  e  laboratori,  vi
    erano  palazzi,  case  lussuose  piene  di oggetti preziosi,  vi erano
    ospedali, prigioni, uffici pubblici,  chiese,  cattedrali.  Quanto più
    l'esercito francese vi si fermava, tanto più scomparivano quelle forme
    di vita cittadina e,  alla fine, tutto si trasformò in un unico, vasto
    campo di saccheggio senza vita.
    Il saccheggio da parte dei nemici, quanto più si protraeva,  tanto più
    distruggeva  le  ricchezze di Mosca e le forze dei saccheggiatori.  Il
    saccheggio dei Russi,  con il quale ebbe  inizio  l'occupazione  della
    capitale,  quanto più si protraeva, quanto più era grande il numero di
    coloro che lo  effettuavano,  tanto  più  rapidamente  ricostruiva  la
    ricchezza di Mosca e la ripresa regolare della vita della città.
    Oltre  ai  saccheggiatori affluivano a Mosca da tutte le parti come il
    sangue affluisce al cuore,  genti diversissime,  attratte  vuoi  dalla
    curiosità,  vuoi da un obbligo di impiego,  vuoi dal calcolo.  Erano i
    proprietari, il clero, i funzionari di ogni grado, i commercianti, gli
    artigiani, i contadini.
    Già dopo una settimana,  i contadini che giungevano con i carri  vuoti
    per  caricarli  di  roba venivano fermati dalle autorità e costretti a
    trasportare  fuori  dalla  città  i  cadaveri.  Gli  altri  contadini,
    informati  della disavventura dei compagni,  cominciarono a portare in
    città grano, avena,  fieno,  ribassando i prezzi per farsi concorrenza
    l'un l'altro,  a un livello inferiore a quello precedente.  Squadre di
    falegnami, sperando in lauti guadagni, giungevano ogni giorno a Mosca,
    e ovunque si costruivano nuove case e si restauravano  quelle  vecchie
    danneggiate dall'incendio. I mercanti aprivano baracche per riprendere
    a  commerciare.  Nelle  case  semidistrutte  dal  fuoco si stabilivano
    bettolieri e locandieri.  Il clero riprendeva le funzioni nelle  molte
    chiese  rimaste  intatte.  Persone  caritatevoli offrivano gli oggetti
    necessari al culto,  che erano stati rubati.  I funzionari sistemavano
    alla  meglio i loro tavoli coperti di panno e i loro scaffali pieni di
    incartamenti, in piccole stanze. Le autorità superiori e la polizia si
    occuparono di distribuire la roba lasciata  dai  soldati  francesi.  I
    padroni  di  quelle  case,  nelle quali erano rimaste molte masserizie
    trasportate da altre case,  si lamentavano,  come un'ingiustizia,  che
    tutte le cose loro fossero state portate alla Granìtovaja Palata (13);
    altri  insistevano nell'affermare che i Francesi avevano accumulato in
    un unico posto roba presa in case diverse e che perciò non era  giusto
    restituire al proprietario di una casa tutto ciò che in essa era stato
    trovato.  Si  insultava  la polizia,  la si corrompeva;  si cercava di
    decuplicare il valore delle cose incendiate; si esigevano sussidi... E
    il conte Rastopcìn riprendeva a scrivere i suoi proclami...


    CAPITOLO 15.

    Alla fine di gennaio Pierre giunse a Mosca  e  andò  a  stabilirsi  in
    un'ala della sua casa,  che era rimasta intatta. Si recò a visitare il
    conte Rastopcìn e alcuni conoscenti rientrati in  città  e,  dopo  due
    giorni,  si preparò a partire per Pietroburgo. Tutti esultavano per la
    vittoria;   la  vita  riprendeva  nella  capitale  devastata  che   si
    rianimava. Tutti furono lieti di incontrare Pierre, tutti desideravano
    vederlo  e  interrogarlo  su  ciò che aveva veduto.  Pierre si sentiva
    particolarmente ben disposto  verso  le  persone  che  incontrava,  ma
    involontariamente  stava  in guardia per non compromettersi né legarsi
    in alcun modo. A tutte le domande che gli venivano rivolte, importanti
    o no,  come per esempio  dove  avesse  intenzione  di  stabilirsi,  se
    pensasse di rifabbricare,  quando sarebbe partito per Pietroburgo e se
    fosse disposto a portare una cassettina,  rispondeva  invariabilmente:
    "Si, può darsi, credo", e così via.
    Dei  Rostòv  aveva saputo che erano a Kostromà,  ma solo raramente gli
    accadeva di pensare a  Natascia  e,  quando  questo  pensiero  gli  si
    affacciava, era soltanto come il piacevole ricordo di un passato ormai
    lontano.  Si  sentiva libero non solo da tutte le convenzioni mondane,
    ma anche  da  quel  sentimento  che,  come  ora  gli  sembrava,  aveva
    volontariamente suscitato dentro di sé.
    Un  giorno  dopo  il suo arrivo in città,  seppe dai Drubetzkòj che la
    principessina Màrija era a Mosca. La morte, le sofferenze,  gli ultimi
    giorni  di  vita  del  principe Andréj spesso tornavano al pensiero di
    Pierre e ora gli si affacciavano alla mente con  particolare  vivezza.
    Avendo  saputo,  a  pranzo,  che la principessina Màrija era a Mosca e
    abitava nel suo palazzo di via Vozdvizenka,  rimasto intatto,  si recò
    quella sera stessa da lei.
    Cammin  facendo,  Pierre  non  cessò  di  pensare  al principe Andréj,
    all'amicizia che li aveva legati,  ai diversi incontri con lui  e,  in
    particolare, all'ultimo, avvenuto a Borodinò.
    "Sarà  morto  in  quello  stato  d'animo  esasperato in cui si trovava
    allora? Gli si sarà rivelata,  prima dell'ora estrema,  la spiegazione
    della vita?",  pensava. Si ricordò anche di Karataev, della sua morte,
    e involontariamente cominciò  a  confrontare  quei  due  uomini,  così
    diversi  e  insieme  così  vicini  per il bene che egli aveva voluto a
    entrambi e perché tutti e due erano vissuti ed erano morti.
    Con l'animo oppresso da penosi pensieri,  Pierre giunse alla casa  del
    vecchio principe. La casa si era salvata dall'incendio. Vi si notavano
    le  tracce della devastazione,  ma l'austero edifizio aveva conservato
    il suo aspetto.  Il vecchio cameriere che ricevette Pierre con un viso
    severo,  quasi  volesse  far  capire  all'ospite  che  la mancanza del
    vecchio principe non alterava le abitudini della casa,  disse  che  la
    principessina  si  era già ritirata nelle sue stanze e che riceveva la
    domenica.
    - Annunziatemi: può darsi che mi riceva  -  disse Pierre.
    - Sissignore  -  rispose il cameriere.   -   Vogliate  favorire  nella
    galleria dei ritratti.
    Dopo  qualche  minuto il cameriere ritornò con Desalles.  Quest'ultimo
    riferì a Pierre,  a nome della principessina,  che essa era lietissima
    di vederlo e che lo pregava, se egli avesse voluto scusare la mancanza
    di ogni cerimonia, di salire di sopra, nel suo appartamento.
    In   una  stanzetta  bassa,   illuminata  da  una  sola  candela,   la
    principessina stava seduta accanto  a  un'altra  persona,  vestita  di
    nero.  Pierre  ricordò  che la principessina aveva sempre con sé delle
    damigelle di compagnia,  ma chi fossero  e  come  si  chiamassero  non
    sapeva  e  non  ricordava.  "E' una delle sue damigelle di compagnia",
    pensò, guardando la signora vestita di nero.
    La principessina si alzò e gli andò incontro rapidamente,  tendendogli
    la mano.
    - Si  -  disse ella,  guardandolo nel viso così mutato,  dopo che egli
    le ebbe baciato la mano.   -  Ecco come ci  ritroviamo!  Spesso  negli
    ultimi  tempi  parlava di voi  -  disse,  volgendo gli occhi da Pierre
    alla sua damigella di compagnia,  con una timidezza che per il momento
    colpì il visitatore.   -  Sono stata così felice di sapervi salvo!  E'
    stata l'unica notizia lieta che abbiamo  ricevuto  da  molto  tempo  a
    questa parte.
    Di nuovo,  e con maggiore inquietudine, la principessina guardò la sua
    damigella di compagnia e stava per dire qualche altra cosa,  ma Pierre
    la interruppe.
    -  Voi  certo  potete  immaginare  che io non sapevo più nulla di lui-
    disse.   -  Credevo che fosse caduto.  Tutto ciò che  ho  saputo  l'ho
    appreso da altri, da terze persone. So soltanto che è capitato in casa
    Rostòv... Che destino!
    Pierre  parlava in fretta con animazione.  Guardò in viso la damigella
    di compagnia e vide due occhi affettuosamente fissi su di lui e,  come
    accade  spesso durante una conversazione,  sentì,  chissà perché,  che
    quella signora vestita di nero era una creatura buona e simpatica  che
    non   avrebbe   disturbato  il  suo  colloquio  confidenziale  con  la
    principessina Màrija.
    Ma quando egli pronunziò le ultime parole sui Rostòv,  sul viso  della
    principessina Màrija apparve un'espressione più turbata. Di nuovo essa
    volse  gli occhi dalla faccia di Pierre a quella della signora vestita
    di nero.
    - Non vi riconoscete?
    Pierre guardò ancora una volta il viso pallido e fine,  gli occhi neri
    e la bocca strana della dama di compagnia.  Qualche cosa di familiare,
    da un pezzo dimenticato e che gli era più  che  caro,  lo  fissava  da
    quegli occhi intenti.
    "Ma no,  non è possibile!", pensò. "Quel volto magro, severo, pallido,
    invecchiato?  Non è possibile che sia lei!".  Ma,  in quel momento  la
    principessina Màrija disse: "Natascia". E il volto dagli occhi intenti
    sorrise a fatica, con sforzo, come si apre una porta arrugginita, e da
    quella  porta  aperta  spirò  a un tratto il soffio di una felicità da
    tempo dimenticata,  che lo avvolse tutto e  alla  quale,  specialmente
    adesso,  egli non pensava più.  Alitò,  lo investì, lo avvolse. Quando
    ella sorrise,  ogni dubbio scomparve: quella  era  Natascia,  ed  egli
    l'amava.
    Sin  da  quel  primo momento,  senza volerlo e senza rendersene conto,
    Pierre rivelò a lei,  alla principessina Màrija  e  soprattutto  a  se
    stesso un segreto che egli medesimo ignorava. Arrossì di gioia, di una
    gioia  che  era  anche morbosamente dolorosa.  Volle nascondere la sua
    emozione,  ma quanto più cercava di celarla,  tanto  più  chiaramente,
    molto più chiaramente che con le parole,  diceva a se stesso,  a lei e
    alla principessina Màrija che egli amava Natascia.
    "No,  è soltanto  la  sorpresa...",  pensò  Pierre.  Ma  appena  volle
    riprendere  la  conversazione  iniziata  con  la principessina Màrija,
    guardò ancora Natascia: un rossore più vivo si diffuse sul suo volto e
    una più intensa sensazione di gioia e di sgomento  insieme,  colmò  il
    suo animo. Si confuse, parlando, e interruppe il discorso a metà.
    Pierre non aveva notato Natascia perché non si aspettava assolutamente
    di  trovarla  lì e non l'aveva riconosciuta perché,  da quando l'aveva
    veduta l'ultima volta,  si era prodotto in lei un mutamento  profondo.
    Si  era  fatta  più  pallida  e  più  magra.  Ma  non  per  questo era
    irriconoscibile.  Pierre non aveva potuto ravvisarla al primo  momento
    in cui era entrato perché quel viso e quegli occhi, nei quali un tempo
    brillava  sempre il segreto sorriso della gioia di vivere,  quando era
    entrato e l'aveva guardata per la prima  volta,  non  vi  era  neppure
    l'ombra  di  un  sorriso: non vi erano che due occhi intenti,  buoni e
    tristemente interrogativi.
    Il turbamento di Pierre non provocò in Natascia un uguale  turbamento,
    ma destò in lei una gioia che le illuminò lievemente il viso.


    CAPITOLO 16.

    -  E'  venuta a stare un po' con me  -  disse la principessina Màrija;
    -  Il conte e la contessa giungeranno a giorni;  la contessa è in  uno
    stato compassionevole.  Ma anche Natascia aveva molto bisogno di farsi
    visitare da un medico. L'hanno fatta venire con me a forza.
    - Eh...  non c'è famiglia che non abbia il  suo  dolore!    -    disse
    Pierre,  rivolgendosi a Natascia.  -  Sapete, vero, che Pétja morì nel
    giorno stesso in cui io venni  liberato?  L'ho  veduto.  Era  un  caro
    ragazzo!
    Natascia lo guardò,  e a quelle parole risposero soltanto occhi che si
    aprirono di più e si fecero più luminosi.
    - Che cosa si può dire o pensare che possa essere di conforto? - disse
    Pierre.  -  Nulla!  Perché doveva morire un ragazzo così pieno di vita
    e così buono?
    -  Sì,  in  questi  tempi  sarebbe  difficile vivere senza fede...   -
    osservò la principessina Màrija.
    - Sì, sì, questa è la verità  -  si affrettò a interrompere Pierre.
    - Perché?  -  domandò Natascia, fissando Pierre negli occhi.
    - Come perché?   -  replicò la principessina  Màrija.    -    Il  solo
    pensiero di ciò che ci attende di là...
    Natascia,  senza  ascoltare  sino  alla  fine,  guardò di nuovo Pierre
    interrogativamente.
    - E anche perché    -    proseguì  Pierre    -    soltanto  chi  crede
    nell'esistenza  di un Dio che ci guida può sopportare una perdita come
    la sua e... la vostra.
    Natascia aprì  la  bocca  per  dire  qualche  cosa,  ma  di  botto  si
    trattenne.  Pierre, distogliendo gli occhi da lei, si rivolse di nuovo
    alla principessina Màrija,  e la interrogò sugli ultimi giorni di vita
    del  fratello.  Il  turbamento di Pierre era adesso quasi scomparso ma
    sentiva che nello stesso tempo era scomparsa anche la sua  libertà  di
    prima.  Sentiva  che  ogni  sua  parola,  ogni sua azione aveva ora un
    giudice il cui parere gli era più caro di quello di tutti  gli  uomini
    del  mondo.  Ora,  mentre parlava,  pensava all'impressione che le sue
    parole avrebbero prodotto in Natascia.  Non diceva a bella posta  cose
    che potessero piacerle, ma giudicava tutto ciò che diceva dal punto di
    vista che riteneva potesse essere quello di lei.
    La   principessina   Màrija   cominciò  a  raccontare  con  una  certa
    riluttanza,  come sempre accade,  in  quale  stato  aveva  trovato  il
    principe  Andréj.  Ma  le  domande  di  Pierre,  il suo sguardo vivo e
    ansioso,  il suo viso tremante di commozione,  la costrinsero a poco a
    poco  ad  entrare  in  particolari  che essa temeva di richiamare alla
    memoria.
    - Sì, sì... così... così...  -  diceva Pierre, piegandosi con tutta la
    persona verso la principessina e  ascoltando  avidamente  quanto  essa
    andava  dicendo.    -    Si,  sì...  Si  era  calmato  dunque?  Si era
    raddolcito?  Con tutte le forze del suo animo aveva sempre cercato una
    sola cosa: di essere completamente buono... e perciò non poteva temere
    la  morte!  I difetti che aveva,  se pure ne aveva,  non derivavano da
    lui...  E  così,  si  era  raddolcito?  Quale  fortuna  che  vi  abbia
    incontrata!   -  disse a Natascia,  volgendosi improvvisamente a lei e
    guardandola negli occhi pieni di lacrime.
    Il viso di Natascia  trasalì.  Ella  aggrottò  la  fronte  e,  per  un
    momento,  abbassò  gli  occhi.  Per  un minuto esitò: doveva parlare o
    tacere?
    - Sì, è stata una fortuna  -  disse ella con voce calma e profonda.  -
    Per me, almeno,  è stata certamente una fortuna.   Tacque un poco.   -
    Ma anch'egli...  anch'egli lo desiderava... proprio nel momento in cui
    andai da lui...
    La voce di Natascia si spezzò.  Ella si fece rossa,  strinse  le  mani
    sulle  ginocchia e ad un tratto,  con un evidente sforzo su se stessa,
    sollevò il capo e prese a parlare rapidamente:
    - Quando partimmo da Mosca noi non sapevamo nulla.  Io  non  avevo  il
    coraggio  di chiedere di lui.  E a un tratto,  ecco che Sònja mi disse
    che egli era con noi.  Non pensavo a nulla,  non potevo immaginarmi in
    quale  stato  egli  fosse;  ma  avevo bisogno di vederlo,  di essergli
    vicina  -  disse tremando,  e  con  il  respiro  ansimante.  E,  senza
    lasciarsi   interrompere,   raccontò  tutto  ciò  che  non  aveva  mai
    raccontato a nessuno, tutto ciò che aveva provato e vissuto durante le
    tre settimane trascorse a Jaroslàvl.
    Pierre l'ascoltava a bocca aperta,  senza distogliere da lei gli occhi
    pieni  di  lacrime.  Ascoltandola,  egli  non  pensava  né al principe
    Andréj, né alla morte, né a ciò che ella stava dicendo.  L'ascoltava e
    la  compiangeva  per  la  sofferenza  e  il dolore che visibilmente la
    fanciulla provava nel raccontare quelle cose.
    La principessina,  contraendo il viso nello sforzo  di  trattenere  le
    lacrime,  sedeva  accanto a Natascia e ascoltava per la prima volta la
    storia di quegli  ultimi  giorni  dell'amore  di  suo  fratello  e  di
    Natascia.
    Ma  quel  racconto,  fatto  di  pena e di felicità,  era evidentemente
    necessario  per  Natascia.   Ella   parlava   mescolando   particolari
    insignificanti  ai  più  intimi  segreti  dell'anima  e pareva che non
    potesse più arrestarsi. Parecchie volte ripeté le medesime cose.
    Dietro l'uscio,  si udì la voce di Desalles che chiedeva se  Nikoluska
    poteva entrare per dare la buona notte.
    - Ed ecco... vi ho detto tutto, tutto...  -  mormorò Natascia.
    Mentre  Nikòluska  entrava,  ella  si  alzò  in  fretta  e corse verso
    l'uscio, urtando contro il battente,  nascosto dalla portiera;  con un
    gemito,  che  non  era  di  dolore e non era di tristezza,  uscì dalla
    camera.
    Pierre guardava la porta dalla quale era uscita e  non  capiva  perché
    all'improvviso avesse l'impressione di essere rimasto solo al mondo.
    La  principessina  Màrija  lo  richiamò  dalla sua astrazione e attirò
    l'attenzione di lui sul nipotino che era entrato nella stanza.
    Il viso di Nikòluska, somigliantissimo a quello del padre, nello stato
    d'animo  commosso  in  cui  ora  si  trovava  Pierre,   gli   produsse
    un'impressione  tale che,  dopo aver baciato il fanciullo,  si alzò in
    fretta e con il fazzoletto  agli  occhi  si  avvicinò  alla  finestra.
    Voleva accomiatarsi dalla principessina Màrija, ma ella lo trattenne.
    -  No,  Natascia  e  io  talvolta  non  ci corichiamo prima delle tre.
    Restate,  vi prego.  Farò  servire  la  cena.  Scendete  giù,  noi  vi
    raggiungeremo subito.
    Mentre Pierre usciva, la principessina gli disse:
    - E' la prima volta che ha parlato così di lui.


    CAPITOLO 17.

    Pierre fu introdotto nella grande sala da pranzo illuminata; poco dopo
    si  udì un rumore di passi e la principessina Màrija entrò insieme con
    Natascia.  Natascia era calma,  sebbene il suo volto  fosse  di  nuovo
    serio,  senza  ombra di sorriso.  La principessina Màrija,  Natascia e
    Pierre provavano tutti e tre quel senso  di  imbarazzo  che  segue  di
    solito a una conversazione intima e grave. Continuare la conversazione
    di prima è impossibile;  parlare di cose futili non si riesce,  tacere
    dispiace perché si prova  il  desiderio  di  parlare  ancora,  e  quel
    silenzio  ha  quasi  l'aspetto di una finzione.  Senza dire nulla,  si
    avvicinarono al tavolo.  I camerieri  scostarono  e  riaccostarono  le
    sedie.  Pierre  spiegò  il tovagliolo freddo e,  deciso a rompere quel
    silenzio,  guardò le due donne le quali evidentemente avevano preso la
    stessa decisione; negli occhi di entrambe splendeva la gioia di vivere
    e la consapevolezza che nella vita esiste anche,  oltre al dolore,  la
    gioia.
    - Bevete vodka, conte?   -  domandò la principessina Màrija,  e quelle
    parole dissiparono di colpo le ombre del passato.  -  Diteci di voi  -
    proseguì.  -  Si raccontano di voi cose incredibili.
    -  Già   -  rispose Pierre,  con quel mite sorriso ironico che ora gli
    era abituale.  -  Anche a me raccontano cose tali che non ho mai visto
    neppure in sogno.  Màrija Abràmovna mi ha invitato in casa sua e mi ha
    raccontato  a lungo tutto ciò che mi era accaduto o che doveva essermi
    accaduto.  Anche Stepàn Stepanyc' mi ha  insegnato  quello  che  debbo
    raccontare.  In  genere  ho notato che l'essere un uomo interessante è
    molto comodo e io adesso sono un uomo interessante. La gente mi invita
    e mi racconta quello che ho fatto...
    Natascia sorrise e stava per dire qualche cosa.
    - A noi hanno raccontato  -  la prevenne la principessina Màrija-  che
    a Mosca avete perduto due milioni. E' vero?
    - Ma sono diventato tre volte più ricco.
    Pierre, per quanto i debiti della moglie e la necessità di ricostruire
    avessero mutato la sua situazione finanziaria,  continuava a  ripetere
    di essere diventato tre volte più ricco.
    -  Quello  che  ho  senza dubbio guadagnato è la libertà...   -  Aveva
    cominciato a parlare in tono  serio;  ma  decise  di  non  continuare,
    ritenendo  che  quello  fosse  un  argomento  di  conversazione troppo
    egoistico.
    - Ma costruite?
    - Sì, Savelic' me lo consiglia.
    - Dite,  non eravate ancora al corrente  della  morte  della  contessa
    quando siete rimasto a Mosca?   -  domandò la principessina Màrija,  e
    subito arrossì giacché si era resa conto che,  facendo quella  domanda
    dopo quello che egli aveva detto a proposito della libertà,  veniva ad
    attribuire alle parole di lui un significato che forse non avevano.
    - No  -   rispose  Pierre,  non  trovando  evidentemente  imbarazzante
    l'interpretazione  data dalla principessina Màrija al suo accenno alla
    libertà.   -  L'ho saputo a Orël,  e non potete immaginare  quanto  la
    notizia mi abbia colpito.  Non eravamo due coniugi esemplari  -  disse
    in fretta,  guardando Natascia e notando sul viso di lei la  curiosità
    di  sentire quello che egli avrebbe detto della moglie.   -  Ma quella
    morte mi ha  colpito  dolorosamente.  Quando  due  persone  non  vanno
    d'accordo,  c'è sempre colpa da parte di entrambe. Ma la propria colpa
    diventa all'improvviso terribilmente pesante di fronte  all'altro  che
    non  c'è  più.  E  poi  una  morte  così...  senza amici,  senza alcun
    conforto...  Mi ha fatto pena,  molta pena  -   concluse  notando  con
    piacere  l'espressione  di  gioiosa  approvazione  dipinta sul viso di
    Natascia.
    - Eccovi dunque di nuovo scapolo e fidanzato disponibile  -  disse  la
    principessina Màrija.
    Pierre  si fece improvvisamente di fiamma e per un bel pezzo si sforzò
    di non guardare Natascia.  Quando  decise  di  farlo,  il  viso  della
    fanciulla appariva freddo,  severo e,  a quanto gli parve,  persino un
    po' sprezzante.
    - Ma è vero quello che ci hanno raccontato, che avete veduto Napoleone
    e gli avete parlato?  -  domandò la principessina Màrija.
    Pierre sorrise.
    - Mai.. neppure una volta.  Tutti pensano che essere stati prigionieri
    significhi  essere  stati  ospiti di Napoleone.  Non soltanto non l'ho
    veduto,  ma non ne ho neppure sentito parlare.  Mi sono trovato in una
    compagnia assai peggiore.
    La cena stava per finire e Pierre, che da principio aveva rifiutato di
    parlare della sua prigionia, a poco a poco entrò in argomento.
    -  E'  vero  che  siete  rimasto  a  Mosca per uccidere Napoleone?   -
    domandò Natascia,  sorridendo leggermente.   -  Io l'avevo  indovinato
    quando ci incontrammo alla torre Sacharëv: ve ne ricordate ?
    Pierre ammiccò che era vero, e a poco a poco, trascinato dalle domande
    della principessina Màrija e in particolare da quelle dl Natascia,  si
    lasciò indurre a raccontare con molti particolari le avventure che gli
    erano capitate.
    Cominciò a parlare con quella mite ironia con la  quale  ora  guardava
    gli  uomini  e  in  particolare  se stesso;  ma poi,  allorché venne a
    descrivere gli orrori e  le  sofferenze  cui  aveva  assistito,  senza
    neppure  rendersene conto si infiammò e prese a parlare con l'emozione
    contenuta di chi rivive nel ricordo delle terribili impressioni.
    La principessina Màrija,  con le labbra atteggiate a un dolce sorriso,
    guardava ora lui,  ora Natascia.  In quei racconti ella non vedeva che
    Pierre e la sua bontà. Natascia,  sorreggendosi la testa con una mano,
    con  l'espressione  del viso che mutava continuamente,  insieme con il
    racconto,  seguiva Pierre senza distrarsi un minuto e riviveva con  il
    narratore gli avvenimenti che egli rievocava.  Non soltanto lo sguardo
    di lei,  ma le esclamazioni che le sfuggivano e le brevi  domande  che
    faceva,  dimostravano  a  Pierre  che di quello che egli raccontava la
    fanciulla coglieva proprio ciò che  egli  desiderava  comunicare.  Era
    evidente   che  Natascia  comprendeva  non  soltanto  ciò  che  Pierre
    raccontava,  ma anche  ciò  che  avrebbe  voluto  e  non  riusciva  ad
    esprimere  a  parole.  A proposito dell'episodio della bambina e della
    donna,  per difendere le quali era stato fatto prigioniero,  Pierre lo
    raccontò così:
    -  Era  uno spettacolo orribile: bambini abbandonati,  alcuni in mezzo
    alle  fiamme...  Vidi  trascinarne  fuori  uno...   Donne  alle  quali
    portavano via la roba di dosso, strappavano gli orecchini...
    Pierre arrossì e si confuse.
    - A questo punto giunse una pattuglia e portò via tutti coloro che non
    saccheggiavano, tutti gli uomini... e io finii tra quelli.
    - Sono certa che non raccontate tutto;  voi, senza dubbio, avete fatto
    qualcosa...  -  disse Natascia e poi tacque un momento  -  qualcosa di
    bello.. di buono...
    Pierre proseguì  il  suo  racconto.  Quando  arrivò  a  parlare  delle
    esecuzioni  avrebbe  voluto evitare la descrizione dei particolari più
    orribili, ma Natascia esigeva che non trascurasse nulla.
    Pierre disse anche di Karataev (si era già alzato da tavola, camminava
    per la stanza e Natascia lo seguiva con lo sguardo), ma si interruppe.
    - No,  voi non potreste capire che cosa ho  imparato  da  quel  povero
    analfabeta!
    - No, no, dite...  -  pregò Natascia.  -  Dov'è ora?
      -  L'hanno ucciso quasi sotto i miei occhi.
    E  Pierre si mise a descrivere le ultime fasi della loro ritirata,  la
    malattia e la morte di Karataev con la voce che gli tremava.
    Narrava le sue avventure come non le aveva mai ricordate. Scorgeva ora
    un nuovo significato in tutto ciò che aveva  passato.  Nel  raccontare
    queste  cose a Natascia,  provava quel raro piacere che danno le donne
    quando ascoltano un uomo,   -  ma  non  le  donne  "intelligenti"  che
    ascoltano  sforzandosi  di  ritenere  ciò  che  viene  loro  detto per
    arricchire la loro cultura e,  all'occasione,  ripetere ciò che  hanno
    sentito,  oppure  per  adattare  la  narrazione  udita  a  se stesse e
    comunicare al più presto gli intelligenti discorsi elaborati nel  loro
    piccolo  laboratorio mentale  -  ma quel piacere che procurano le vere
    donne,  dotate della capacità di accogliere in sé quanto di meglio c'è
    nelle rivelazioni dell'anima di un uomo.  Natascia, senza saperlo, era
    tutta attenzione.  Non perdeva né una parola,  né una lieve esitazione
    di voce,  né uno sguardo,  né il fremito di un muscolo del viso, né un
    gesto di Pierre.  Afferrava a  volo  ogni  parola  non  ancora  detta,
    l'accoglieva nel suo cuore aperto,  indovinando il senso misterioso di
    tutto il travaglio  spirituale  di  Pierre.  La  principessina  Màrija
    comprendeva  il  racconto,  lo  ascoltava con simpatia,  ma ora vedeva
    un'altra cosa  che  assorbiva  tutta  la  sua  attenzione:  vedeva  la
    possibilità  dell'amore  e  della  felicità  tra  Natascia  e  Pierre.
    Quest'idea,  nata per la prima volta nel suo cuore,  glielo colmava di
    gioia.
    Erano  le  tre  dopo  mezzanotte.  I  domestici  vennero a cambiare le
    candele, ma nessuno notò l'espressione triste e severa dei loro visi.
    Pierre terminò il suo racconto.  Natascia,  con gli  occhi  lucenti  e
    pieni  di  animazione,  continuava a osservare con ostinata attenzione
    Pierre,  come se volesse comprendere  anche  tutto  quello  che  egli,
    forse,  non  aveva  detto.  Pierre turbato,  felice e imbarazzato,  la
    guardava di tanto in tanto e cercava qualcosa  da  dire  per  cambiare
    argomento. La principessina Màrija taceva. Nessuno pensava che fossero
    già le tre di notte e che si dovesse andare a dormire.
    -  Si dice: le sventure,  le sofferenze,   -  osservò Pierre  -  ma se
    ora,  in questo preciso istante mi dicessero: vorresti tornare  quello
    che  eri prima della prigionia o passare di nuovo tutto quello che hai
    passato, risponderei: per amor di Dio, ancora una volta la prigionia e
    la carne di cavallo! Noi crediamo che,  quando veniamo allontanati dal
    sentiero abituale,  tutto sia finito,  e invece no, soltanto allora ha
    inizio qualcosa di nuovo, di buono. Sino a che c'è vita, c'è felicità.
    E davanti a sé ognuno ne ha molta.  Ve  lo  dico  io    -    concluse,
    rivolgendosi a Natascia.
    - Sì,  sì...   -  disse la fanciulla rispondendo a tutt'altro.   -  Io
    non desidero che ricominciare da capo a vivere.
    Pierre la guardò attentamente.
    - Sì, non desidero altro  -  rispose Natascia.
    - Non è vero, non è vero!   -  esclamò Pierre.   -  Io non ho colpa di
    essere vivo e di voler vivere, e neanche voi.
    A un tratto Natascia chinò il capo sulle mani e si mise a piangere.
    - Che hai, Natascia?  -  domandò la principessina Màrija.
    -  Niente,  niente...    -.  E  sorrise  a  Pierre tra le lacrime.   -
    Arrivederci, è ora di andare a dormire.
    Pierre si alzò e si accomiatò.
    La principessina Màrija e  Natascia  si  ritrovarono  come  sempre  in
    camera  da  letto.  E  presero  a  parlare  di  ciò  che  Pierre aveva
    raccontato.  La principessina Màrija non espresse la sua  opinione  su
    Pierre e neppure Natascia parlò di lui.
    - Be',  buonanotte,  Marie  -  disse Natascia.  -  Sai, io spesso temo
    che non parliamo di lui  -  (del principe Andréj)  -  come se avessimo
    paura di profanare i nostri sentimenti, e così lo dimentichiamo.
    La principessina Màrija  sospirò  profondamente  e  con  quel  sospiro
    riconobbe  giuste  le  parole  di Natascia.  Ma a parole non condivise
    l'opinione dell'amica.
    - Si può forse dimenticare?  -  disse.
    - Oggi mi ha fatto bene raccontare tutto;  anche se è stato  penoso  e
    doloroso,  parlare mi ha fatto bene, molto bene  -  disse Natascia.  -
    Sono certa che  aveva  per  lui  molto  affetto.  Per  questo  gli  ho
    raccontato tutto. Non ho fatto male, vero, a dirgli tutto?  -  domandò
    a un tratto, facendosi rossa.
    - A Pierre? Oh no! E' così buono!  -  disse la principessina Màrija.
    -  Sai,  Marie  -  riprese Natascia con un sorriso malizioso che da un
    pezzo la  principessina  non  aveva  più  veduto  illuminare  il  viso
    dell'amica.    -   Ho notato che Pierre è diventato pulito,  fresco...
    come uscito da un bagno... Tu capisci, no?  Uscito da un bagno morale,
    intendo dire. Non ti pare?
    -  Hai  ragione    -    rispose la principessina Màrija.   -  E' molto
    cambiato, e in meglio.
    - E quella giacchettina corta, quei capelli rasati...  proprio come se
    uscisse dal bagno. Papà qualche volta...
    -  Capisco come lui  -  (il principe Andréj)  -  non abbia voluto bene
    a nessuno quanto a Pierre.
    - Sì,  ed è molto diverso da lui.  Si dice che gli uomini  sono  amici
    quando non si somigliano affatto.  Dev'essere proprio così. Non è vero
    che non gli somiglia per niente?
    - Sì, ma è un uomo meraviglioso.
    - Be', buonanotte  -  rispose Natascia.
    E quello stesso sorriso malizioso le rimase a lungo sulle labbra, come
    dimenticato.


    CAPITOLO 18.

    Quella notte Pierre non riusciva a prender sonno. Passeggiava avanti e
    indietro per la camera,  ora aggrottando la fronte come se pensasse  a
    qualcosa  di difficile,  ora stringendosi nelle spalle con un brivido,
    ora sorridendo felice.
    Pensava al principe Andréj,  a Natascia,  al loro amore e a tratti era
    geloso  del passato di lei,  si rimproverava e poi si perdonava quella
    gelosia. Erano già le sei del mattino,  ed egli continuava a camminare
    per la stanza.
    "Be',  che farci se non è possibile altrimenti?  Che farci?  Significa
    che dev'essere così",  disse a se stesso e,  spogliatosi in  fretta  e
    furia, si coricò, felice e commosso ma senza dubbi e senza incertezze.
    "Per  quanto  strana,  per  quanto  impossibile  mi  sembri  una  tale
    felicità,  bisognerà fare di tutto per diventare marito e moglie",  si
    disse.
    Già  alcuni  giorni  prima  Pierre aveva fissato per il venerdì la sua
    partenza per Pietroburgo.  Quando si svegliò,  la mattina di  giovedì,
    Savelic' entrò da lui per prendere ordini circa il bagaglio.
    "Perché   a   Pietroburgo?    Chi   c'è   a   Pietroburgo?",   domandò
    involontariamente a se stesso.  "Già,  parecchio tempo fa,  prima  che
    questo  accadesse,  io,  chissà  perché,  avevo  deciso  di  andare  a
    Pietroburgo", ricordò. "Ma perché? Può anche darsi che ci vada.  Com'è
    buono,  premuroso,  come  si ricorda di tutto!",  pensò,  guardando la
    vecchia faccia di Savelic'. "E che simpatico sorriso!".
    - Be',  Savelic',  sei sempre deciso a non volere la libertà?   -  gli
    domandò Pierre.
    - Perché,  eccellenza,  dovrei volere la libertà? Al tempo del defunto
    conte, che Iddio l'abbia in gloria, vivevo, e da voi torture non ne ho
    mai ricevute.
    - Già, ma i figli?
    - Anche i figli vivranno,  eccellenza.  Con signori come  voi  si  può
    vivere.
    - Sì,  ma i miei eredi?   -  domandò Pierre.   -  Se io mi sposassi...
    potrebbe accadere  -  aggiunse con un involontario sorriso.
    - Oso dire, eccellenza, che sarebbe un'ottima cosa.
    "Come gli sembra facile...", pensò Pierre. "Non sa, lui, che si tratta
    di una cosa tremenda e pericolosa!  Troppo presto o  troppo  tardi!...
    Terribile!".
    - Quali ordini volete dare? Fate conto di partire domani?
    - No,  rimanderò ancora un poco.  Te lo dirò.  Scusami per tutto il da
    fare che ti ho dato  -   disse  Pierre  e,  guardando  il  sorriso  di
    Savelic',  pensò: "Strano però,  che egli non sappia che per me adesso
    non c'è nessuna Pietroburgo che mi interessi e che,  prima  di  tutto,
    bisogna prendere una decisione.  Del resto,  deve sapere tutto,  finge
    soltanto di ignorare.  Devo parlargliene?  Che ne  pensa?"  si  chiese
    Pierre. "Ma no, gli parlerò in un altro momento".
    A colazione Pierre raccontò alla cugina che la sera prima era andato a
    trovare  la principessina Màrija e che in casa di lei aveva trovato...
    indovina chi?! Natascia Rostova!
    La principessina finse di  non  vedere  in  quella  notizia  nulla  di
    particolare, come se Pierre avesse veduto Anna Semënovna.
    - La conoscete ?  -  domandò Pierre .
    -  Ho  veduto  la  principessina Màrija  -  rispose la cugina  -  e ho
    sentito dire che vogliono farle sposare il giovane Rostòv.  Per Rostòv
    sarebbe una vera fortuna. Pare che siano completamente rovinati.
    - Ma voi conoscete la Rostova?
    - Ho sentito soltanto parlare di quella storia... Peccato!
    "No, non capisce oppure finge", pensò Pierre. "La miglior cosa da fare
    è di non parlargliene".
    Anche  la  principessina aveva preparato alcune cose per il viaggio di
    Pierre.
    "Come sono tutti buoni",  pensò il giovane,  "a  occuparsi  di  queste
    cose,  ora che senza dubbio non hanno più alcun interesse per loro.  E
    tutto questo per me; ecco ciò che è sorprendente!".
    Quel giorno stesso venne da Pierre il capo della polizia,  invitandolo
    a mandare qualcuno di sua fiducia alla Granìtovaja Palata per ritirare
    gli oggetti che quel giorno venivano distribuiti ai proprietari.
    "Anche costui", pensava Pierre, guardando il capo della polizia, "ecco
    che  bell'ufficiale giovane e simpatico è!  E come dev'essere buono...
    Adesso si occupa di simili inezie...  E poi dicono che è  disonesto  e
    profittatore.  Quale assurdità! Del resto, perché non dovrebbe rubare?
    E' stato educato così. Lo fanno tutti.  Che buon viso simpatico e come
    sorride, guardandomi!".
    Pierre andò a pranzo dalla principessina Màrija.
    Percorrendo  per recarsi da lei le strade in mezzo alle case distrutte
    dall'incendio,  egli si stupiva della bellezza di tutte quelle rovine.
    I comignoli dei camini,  le mura diroccate che gli rammentavano con il
    loro  aspetto  pittoresco  il  Reno  e  il  Colosseo,  si  stendevano,
    nascondendosi a vicenda nei rioni devastati dall'incendio. I vetturini
    e  i pedoni che incontrava,  i carpentieri che tagliavano le travi,  i
    bottegai,  i venditori ambulanti,  tutti guardavano Pierre  con  facce
    allegre  e  felici  e pareva dicessero: "Ah,  eccolo!  Vedremo cosa ne
    verrà fuori...".
    Mentre entrava in casa della principessina Màrija, Pierre fu preso dal
    dubbio se il giorno avanti fosse stato realmente lì, se avesse davvero
    veduto Natascia e  parlato  con  lei.  "Forse  l'ho  inventato,  forse
    entrerò  e  non vedrò nessuno".  Ma non aveva ancora varcato la soglia
    del salotto che già,  con tutto il suo essere,  avvertì,  insieme  con
    l'improvvisa  sensazione  di  aver  perduto  la  propria  libertà,  la
    presenza di lei.  Indossava lo stesso vestito nero a  morbide  pieghe,
    era  pettinata  allo  stesso  modo  della  sera  prima,   ma  appariva
    completamente diversa.  Se fosse stata così il  giorno  prima,  quando
    egli era entrato in quella stanza, non avrebbe potuto non riconoscerla
    immediatamente...
    Natascia  era  ora  quale  egli l'aveva conosciuta quasi bambina e poi
    fidanzata del  principe  Andréj.  Una  luce  festosa  e  interrogativa
    brillava  nei  suoi occhi,  il suo viso era soffuso di una espressione
    affettuosa e stranamente maliziosa.
    Pierre pranzò e sarebbe rimasto tutta la  sera,  ma  la  principessina
    Màrija si recava ai Vespri e Pierre uscì con loro.
    Il  giorno  dopo Pierre giunse presto,  pranzò e si trattenne tutta la
    sera. Sebbene Natascia e la principessina Màrija fossero evidentemente
    liete di averlo loro ospite e sebbene tutto l'interesse della vita  di
    Pierre fosse ormai concentrato in quella casa,  verso sera avevano già
    parlato di tutto,  e il discorso passava di continuo da  un  argomento
    insignificante  a  un  altro  e  spesso  si  interrompeva.  Pierre  si
    trattenne quella sera sino a un'ora così tarda  che  la  principessina
    Màrija e Natascia si scambiavano occhiate,  aspettando, evidentemente,
    che se ne andasse.  Pierre lo vedeva,  ma non riusciva a muoversi.  Si
    sentiva a disagio,  imbarazzato,  ma continuava a restar seduto perché
    "non poteva" alzarsi e prendere commiato.
    La principessina Màrija,  vedendo che la faccenda andava per e lunghe,
    si  alzò  per prima e,  prendendo a pretesto un'emicrania,  cominciò a
    congedarsi.
    - Così domani partirete per Pietroburgo?  -  domandò.
    - No, non parto più  -  si affrettò a dire Pierre con aria stupita,  e
    come  offesa.   -  Sì,  no,  per Pietroburgo?  Domani,  ma non vi dico
    addio.  Verrò ancora a prendere  le  vostre  commissioni-    proseguì,
    stando in piedi davanti alla principessina Màrija,  arrossendo,  senza
    andarsene.
    Natascia gli porse la  mano  e  lasciò  la  stanza.  La  principessina
    Màrija,  invece  di uscire,  si abbandonò su una poltrona e con il suo
    sguardo luminoso e profondo guardò Pierre  con  severa  intensità.  La
    stanchezza  che  aveva manifestato poco prima era scomparsa del tutto.
    Aspirò profondamente come per prepararsi a una lunga conversazione.
    Con la scomparsa di Natascia scomparvero immediatamente l'imbarazzo  e
    il turbamento di Pierre e cedettero il posto ad un animazione ansiosa.
    Avvicinò la sua poltrona a quella della principessina.
    - Sì,  volevo parlarvi  -  disse, rispondendo, allo sguardo di lei.  -
    Principessina,  aiutatemi,  che cosa devo fare?  Posso sperare?  Amica
    mia,  ascoltatemi. So tutto, so che non sono degno di lei e so che ora
    non è possibile parlarle di  queste  cose.  Ma  io  voglio  essere  un
    fratello per lei. No... non è questo che volevo dire... Non lo voglio,
    non posso.
    Si interruppe e passò la mano sul viso e sugli occhi.
    -  Ecco   -  continuò,  facendo uno sforzo su se stesso per parlare in
    modo coerente.
    - Non so da quando l'amo, ma so di non aver amato che lei per tutta la
    vita e l'amo tanto da non poter immaginare la vita se non con lei. Non
    oso chiedere ora la sua mano,  ma il pensiero che forse ella  potrebbe
    essere mia e che,  tacendo, mi potrebbe sfuggire questa possibilità...
    è terribile. Ditemi, posso sperare?  Ditemi,  che cosa devo fare?  Mia
    cara principessina  -  continuò, dopo una breve pausa e toccandole una
    mano perché non rispondeva.
    -  Sto  pensando a ciò che mi avete detto  -  rispose la principessina
    Màrija.   -  Ed ecco cosa vi risponderò.  Avete ragione nel  dire  che
    parlarle ora d'amore...
    La principessina s'interruppe.  Voleva dire: "parlarle ora d'amore non
    è possibile",  ma si fermò  perché  già  da  tre  giorni  aveva  visto
    dall'improvviso  mutamento  di  Natascia che non soltanto la fanciulla
    non si sarebbe offesa se Pierre le avesse dichiarato il suo amore,  ma
    che non desiderava altro.
    - Parlare ora... non si può  -  disse tuttavia.
    - Ma dunque... cosa devo fare?
    -  Affidate  a  me  la cosa  -  disse la principessina Màrija.   -  Io
    so...  -  Pierre la guardò negli occhi.
    - Cosa... dite... dite...
    - So che vi ama...  che vi amerà  -    si  corresse  la  principessina
    Màrija.
    - Perché lo credete? Pensate dunque che io possa sperare? Sì?
    - Sì,  lo penso  -  rispose sorridendo la principessina.   -  Scrivete
    ai genitori.  E fidate in me.  A lei lo dirò quando  sarà  il  momento
    opportuno.  Io  desidero  che  ciò  avvenga,  e  il  cuore mi dice che
    avverrà.
    - No, non è possibile! Come sono felice! Ma no, non può essere... Come
    sono felice! No,  non può essere...   -  ripeteva Pierre,  baciando le
    mani alla principessina.
    - Voi partite per Pietroburgo, è meglio. E io vi scriverò.
    - Partire?  Andare a Pietroburgo? Sì, è meglio. Ma domani posso venire
    da voi?
    Il giorno dopo Pierre venne ad accomiatarsi. Natascia era meno animata
    che nei giorni precedenti,  ma quel giorno,  guardandola di  tanto  in
    tanto negli occhi. Pierre sentiva che egli scompariva, che non c'erano
    più né lui né lei,  ma che esisteva soltanto un profondo sentimento di
    felicità.  "E' possibile?  No,  non può essere",  si  diceva  ad  ogni
    sguardo,  ad  ogni gesto,  ad ogni parola di lei,  sentendosi il cuore
    colmo di gioia.
    Quando,  salutandola,  strinse tra le sue la mano sottile e  magra  di
    Natascia, egli involontariamente la trattenne nella propria un po' più
    a lungo del solito.
    "Possibile che questa mano,  questo viso,  questi occhi,  tutto questo
    tesoro di grazia femminile sarà mio per sempre,  e mi diventerà intima
    quanto me stesso? No... non può essere!".
    - Arrivederci,  conte  -  disse Natascia a voce alta.  -  Vi attenderò
    con ansia  -  aggiunse piano.
    E quelle semplici parole,  lo sguardo e l'espressione del viso che  le
    accompagnarono,  costituirono per Pierre,  durante due mesi, l'oggetto
    di ricordi inesauribili,  di commenti intimi e di sogni  di  felicità.
    "Vi attenderò con ansia...". "Sì, sì, ha detto queste parole! Ah, come
    sono felice!", continuava a ripetere a se stesso.


    CAPITOLO 19.

    Nell'animo  di  Pierre  non  avveniva  nulla  di  simile  a quanto era
    avvenuto,  in analoghe circostanze,  durante il suo  fidanzamento  con
    Elen.
    Non si ripeteva,  come allora con una vergogna morbosa,  le parole che
    aveva pronunziato,  non diceva a se stesso:  "Ah,  perché,  perché  ho
    detto allora "je vous aime"?".  Ora,  invece, ogni parola di Natascia,
    ogni parola sua propria,  egli la ripeteva con la fantasia  rievocando
    tutti  i particolari del volto,  del sorriso e non voleva togliervi né
    aggiungervi nulla: voleva soltanto ripeterle.  Ora non  aveva  neppure
    l'ombra  del  dubbio  se fosse bene o male ciò che stava per fare.  Un
    solo, terribile dubbio gli attraversava qualche volta la mente. "Non è
    un sogno tutto questo?  Non si sarà ingannata la principessina Màrija?
    Non sono troppo orgoglioso,  troppo presuntuoso?  Io spero. A un certo
    momento, come deve accadere, la principessina Màrija le parlerà e lei,
    sorridendo, dirà: "Che cosa strana! Certo egli si è sbagliato.  Non sa
    forse  di  essere  un  uomo,  un  semplice  uomo mentre io...  Io sono
    qualcosa di ben diverso, di assai più alto..."".
    Questo era l'unico dubbio che si affacciava  talvolta  alla  mente  di
    Pierre. Ora non faceva progetti. La felicità vicina gli appariva a tal
    punto incredibile che,  se si fosse realizzata,  nulla poteva esistere
    oltre a quella. In essa tutto avrebbe avuto termine.
    Una improvvisa, gioiosa follia, di cui Pierre si sentiva incapace,  si
    era impadronita di lui.  Tutto il senso della vita, e non per lui solo
    ma per il mondo intero,  gli pareva contenuto unicamente nel suo amore
    e nella possibilità di essere riamato. Talora gli pareva che tutti gli
    uomini si occupassero di una cosa sola, della sua futura felicità. Gli
    sembrava che tutti fossero lieti come lo era lui e cercassero soltanto
    di nascondere la loro letizia, fingendosi presi da altri interessi. In
    ogni parola,  in ogni gesto,  egli vedeva allusioni alla sua felicità.
    Spesso stupiva la gente che incontrava con  i  suoi  sguardi,  i  suoi
    sorrisi felici,  così significativi, che esprimevano una piena segreta
    armonia.  Ma quando si rendeva conto che qualcuno poteva  ignorare  la
    sua felicità,  lo compiangeva con tutta l'anima e provava il desiderio
    di spiegargli che tutto ciò che lo  occupava  o  preoccupava  era  una
    sciocchezza, un'assurdità che non meritava alcuna considerazione.
    Quando  gli offrivano di occupare una carica o quando,  davanti a lui,
    si discuteva di questioni di stato oppure della guerra, supponendo che
    dal risultato di questo o di  quell'altro  avvenimento  dipendesse  la
    felicità di tutti gli uomini,  egli ascoltava con un mite,  indulgente
    sorriso  e  stupiva  coloro  che  gli  parlavano  con  le  sue  strane
    osservazioni. Ma sia coloro che, secondo Pierre, comprendevano il vero
    senso della vita,  vale a dire i suoi sentimenti, sia gli infelici che
    evidentemente non lo capivano, tutti, in quel periodo,  gli apparivano
    così  illuminati dalla luce del sentimento che splendeva nel suo animo
    che senza il minimo sforzo,  chiunque fosse la persona che incontrava,
    Pierre vedeva in essa tutto ciò che vi era di buono e degno d'amore.
    Quando  esaminava  gli  affari  e  le  carte  della moglie defunta non
    provava per la memoria di lei altro sentimento  che  la  pietà  perché
    essa  aveva  ignorato la felicità che egli ora conosceva.  Il principe
    Vassilij,  più orgoglioso che mai per una nuova  carica  e  una  nuova
    decorazione,   gli   pareva   un   povero  buon  vecchio  che  destava
    compassione.
    Più tardi Pierre ricordò spesso quel tempo di felice follia.  Tutti  i
    giudizi  che  aveva  espresso sugli uomini e sugli avvenimenti durante
    quel periodo rimasero per lui  sempre  immutabili.  Non  soltanto  non
    rinnegò in seguito quei suoi punti di vista sugli uomini e sulle cose,
    ma,  nelle sue incertezze e nelle contraddizioni interiori,  ricorreva
    alle opinioni che aveva avuto allora in quel periodo di follia, e tali
    opinioni risultavano sempre giuste.
    "Forse",  pensava,  "io apparivo allora strano e ridicolo;  ma non ero
    affatto  pazzo  come  potevo sembrare.  Ero invece più assennato e più
    perspicace che mai e capivo tutto ciò che nella vita vale la  pena  di
    essere capito perché... perché ero felice".
    La follia di Pierre consisteva nel fatto che per amare gli uomini egli
    non aspettava,  come prima, quelle ragioni personali che egli definiva
    pregi,  ma il suo cuore era colmo d'amore e perciò,  amando gli uomini
    senza alcun motivo,  trovava ragioni indiscutibili per le quali valeva
    la pena di amarli.


    CAPITOLO 20.

    Sin da quella prima sera in cui Natascia,  dopo che Pierre era  andato
    via,  aveva  detto  alla principessina Màrija con un sorriso allegro e
    malizioso che con quella giacchettina corta e quei capelli rasati egli
    pareva appena appena uscito da un bagno,  sin da quella sera  qualcosa
    di  nascosto,  di  ignoto  a  lei stessa,  ma di invincibile le si era
    destato nell'anima.
    Il volto,  l'andatura,  lo sguardo,  la voce,  tutto  in  lei  si  era
    improvvisamente  mutato.  Un'ansia  di vita,  una speranza di felicità
    insospettate erano affiorate  all'esterno  dalla  profondità  del  suo
    animo  ed  esigevano  di  essere soddisfatte.  Da quella sera Natascia
    parve aver dimenticato tutto ciò che le era accaduto. Da allora non si
    lagnò  più  della  propria  sorte,   non  disse  più  una  parola  che
    riguardasse  il  passato  e  non  ebbe  più alcun timore di fare lieti
    progetti  per  l'avvenire.  Parlava  poco  di  Pierre,  ma  quando  la
    principessina  Màrija  lo  nominava,  una  luce  da  tempo  spenta  si
    accendeva nei suoi occhi e le labbra le si increspavano in uno  strano
    sorriso.
    Il   mutamento   avvenuto   in  Natascia  aveva  dapprima  stupito  la
    principessina Màrija, ma quando ne ebbe compreso il significato, provò
    un vivo dolore.  "E' possibile che abbia amato così poco mio  fratello
    da  poterlo  dimenticare  così  presto?" pensava allorché,  trovandosi
    sola,  rifletteva su quel mutamento.  Ma quando era vicina a  Natascia
    non provava più alcuna irritazione contro di lei,  non la rimproverava
    più.  La forza della vita che  si  ridestava  nella  fanciulla,  e  si
    impadroniva  di  tutto  il  suo  essere  era,   evidentemente,   tanto
    involontaria,  tanto inattesa per lei  stessa,  che  la  principessina
    Màrija,  in presenza dell'amica sentiva di non aver, neppure nel fondo
    del cuore, il diritto di rimproverarla.
    Natascia si abbandonava così interamente e con tanta sincerità a  quel
    nuovo  sentimento  che non tentava nemmeno di nascondere di non essere
    più addolorata, ma di sentirsi allegra e piena di speranza.
    Quando, dopo il colloquio notturno con Pierre, la principessina Màrija
    rientrò nella sua stanza, Natascia le andò incontro.
    - Ti ha parlato? Sì? Ti ha parlato?  -  ripeteva. E una espressione di
    gioia,  ma nello stesso tempo di pena,  era dipinta sul volto  di  lei
    quasi  volesse  chiedere  perdono per la gioia che provava.   -  Avrei
    voluto origliare all'uscio, ma sapevo che tu mi avresti detto tutto.
    Per quanto comprensibile  e  commovente  fosse  per  la  principessina
    Màrija  lo  sguardo  con cui Natascia la fissava,  per quanto le fosse
    penosa l'evidente ansia dell'amica,  tuttavia,  al primo  momento,  le
    parole  di Natascia la ferirono.  Ella ripensò al fratello e all'amore
    di lui.
    "Ma che farci? Essa non può essere diversa", pensò.
    E con un viso triste e un po' severo riferì a Natascia tutto  ciò  che
    Pierre  aveva  detto.  Nell'udire  che egli si preparava a partire per
    Pietroburgo, Natascia si stupì.
    - A Pietroburgo?  -  ripeteva come se non capisse.
    Ma,  avendo notato la tristezza dipinta sul viso  della  principessina
    Màrija,  ne indovinò il motivo e scoppiò a piangere.   -  Marie, dimmi
    tu che cosa devo fare!  Ho paura di essere cattiva.  Farò tutto quello
    che mi dirai di fare...
    - Tu lo ami?
    - Sì  -  sussurrò Natascia.
    -  E  allora  perché  piangi?  Sono  felice  per  te    -    disse  la
    principessina Màrija che,  per quelle lacrime,  aveva già perdonato  a
    Natascia la sua gioia.
    -  Non  sarà presto...  sarà chissà quando.  Pensa che felicità quando
    diventerò sua moglie e tu sposerai Nicolas...
    - Natascia,  ti  ho  pregata  di  non  parlarmi  di  questo.  Parliamo
    piuttosto di te.
    Tacquero entrambe.
    - Ma perché va a Pietroburgo?  -  chiese tutt'a un tratto Natascia, ma
    subito soggiunse:  -  No, no, così va bene... Non è vero. Màrija? Così
    va bene...






    NOTE.

    N. 3. Confronta: WILSON, "Memorie" (Nota dell'autore).
    N. 4. Storpiatura del nome Napoleone.
    N.  8 a. La canzone francese cantata da Maurel e storpiata dal soldato
    russo è tratta dall'atto terzo,  scena seconda di "La partie de chasse
    de Henri Quatre", di Charles Collé (1709-1783).
    N. 13. Granìtovaja Palata: palazzo del Cremlino.