Lev N. Tolstòj.
    GUERRA e PACE.


    LIBRO TERZO.

    PARTE TERZA.


    CAPITOLO 1.

    Alla mente umana riesce inconcepibile la continuità assoluta del moto.
    Le   leggi  che  regolano  un  moto  qualsiasi  diventano  accessibili
    all'intelletto umano soltanto quando l'uomo ne osserva singole  unità,
    scelte  a  suo arbitrio.  Ma proprio da quest'arbitraria scomposizione
    del moto continuo in unità discontinue deriva la maggior  parte  degli
    errori umani.
    E'  noto  il  cosiddetto  sofisma degli antichi: Achille non potrà mai
    raggiungere la tartaruga che gli cammina davanti,  benché egli proceda
    dieci  volte  più  rapido di lei;  non appena Achille avrà percorso lo
    spazio che lo separa dalla tartaruga, questa ne avrà coperto davanti a
    lui una decima parte;  quando Achille avrà percorso questo decimo,  la
    tartaruga  sarà intanto avanzata per una centesima parte dello spazio,
    e così di  seguito,  all'infinito.  Era  questo  un  problema  che  si
    presentava  insolubile  agli  antichi.   L'assurdità  della  soluzione
    (Achille non raggiungerà mai la tartaruga) deriva unicamente dal fatto
    dell'arbitraria ammissione di tante singole unità di movimento, mentre
    il moto,  sia di Achille sia della tartaruga,  avviene senza soluzione
    di  continuità.  Prendendo in considerazione unità di moto via via più
    piccole, non facciamo che avvicinarci alla soluzione del problema,  ma
    senza mai risolverlo.  Solamente se ammettiamo quantità infinitesimali
    e una conseguente progressione ascendente sino a un decimo e prendendo
    poi la somma di  questa  progressione  geometrica,  noi  otteniamo  la
    soluzione  del  problema.  Una  nuova branca della matematica,  che ha
    scoperto il modo di considerare le quantità  infinitesimali  anche  in
    altri  più complessi problemi del moto,  dà ora una risposta a quesiti
    che parevano insolubili.
    Questa nuova branca della matematica,  sconosciuta agli  antichi,  che
    studia  i  problemi  del  moto,   con  l'introduzione  delle  quantità
    infinitesimali ristabilisce la condizione essenziale del  moto  stesso
    (cioè   la   sua  continuità  assoluta)  e  perciò  corregge  l'errore
    inevitabile al quale non può sottrarsi la mente umana,  osservando  le
    singole unità del moto anziché la continuità ininterrotta di esso.
    Nella   ricerca   delle   leggi  del  movimento  della  storia  accade
    precisamente la stessa cosa.
    Il moto dell'umanità,  derivando da  un  numero  infinito  di  volontà
    individuali, si svolge ininterrottamente.
    La  comprensione  di  tali  leggi  è,  per l'appunto,  lo scopo che si
    prefigge la  storia.  Ma,  per  comprendere  le  leggi  del  movimento
    continuo formato dalla somma di tutte le volontà individuali, la mente
    umana ammette unità arbitrarie e discontinue.
    Un  primo metodo storico si basa su questo: presa una serie arbitraria
    di avvenimenti continui,  li si osservano separatamente gli uni  dagli
    altri,  mentre non c'è e non ci può essere alcun avvenimento che abbia
    un inizio,  giacché ogni avvenimento deriva da quello che lo  precede,
    senza  soluzione  di  continuità.   Un  secondo  metodo  consiste  nel
    considerare le azioni di un sol uomo, sia esso re o condottiero,  come
    la  somma delle volontà di tutti gli uomini,  mentre tale somma non si
    esprime mai nell'attività di un unico personaggio storico.
    La scienza storica,  nel suo incessante  procedere,  prende  in  esame
    unità  sempre  più  piccole  e  per  tale via mira ad avvicinarsi alla
    verità. Ma,  per quanto piccole siano le unità che la storia prende in
    esame, noi sentiamo che il supporre unità distaccate l'una dall'altra,
    l'ammettere l'inizio di un qualsiasi fenomeno, il riconoscere espressa
    nell'attività  di  un solo personaggio storico la volontà di tutti gli
    uomini è di per sé un errore.
    Qualsiasi deduzione della storia,  senza il  minimo  sforzo  da  parte
    della critica, si dissolve come polvere senza lasciare nulla dietro di
    sé  per  il  solo  fatto che la critica sceglie come oggetto delle sue
    osservazioni una grande o piccola unità discontinua: il che  è  sempre
    nel suo diritto, poiché l'unità storica scelta è sempre arbitraria.
    Soltanto  ammettendo  all'osservazione  un'unità infinitesimale  -  il
    differenziale della storia, ossia le tendenze omogenee degli uomini  -
    e  acquistando  l'arte  di   integrare   (cioè   di   sommare   queste
    infinitesimali quantità), noi possiamo sperare di comprendere le leggi
    della storia.
    I  primi  quindici anni del secolo diciannovesimo presentano in Europa
    uno straordinario movimento di milioni di uomini.  Gli uomini lasciano
    le  loro  occupazioni  consuete,  si  gettano da una parte dell'Europa
    all'altra,   saccheggiano,   si  massacrano  a   vicenda,   trionfano,
    disperano,  e tutto l'andamento della vita si modifica per alcuni anni
    e presenta un movimento  che  prima  va  crescendo  e  poi,  via  via,
    indebolendosi.  Quale  fu la causa di questo movimento e secondo quali
    leggi esso si produsse?, si domanda la mente umana.
    Gli storici,  rispondendo a questa domanda,  ci espongono gli atti e i
    discorsi  di una diecina di uomini in uno degli edifici della città di
    Parigi,  e danno a  questi  atti  e  a  questi  discorsi  il  nome  di
    rivoluzione,  poi ci danno la biografia particolareggiata di Napoleone
    e di  alcuni  personaggi  a  lui  favorevoli  od  ostili,  ci  parlano
    dell'influenza  di  taluni  di  costoro sugli altri e dicono: "Ecco le
    cause di questo movimento ed ecco le sue leggi".
    Ma la ragione umana non solo rifiuta di accettare tale spiegazione, ma
    dichiara apertamente che è  inaccettabile  perché  essa  considera  il
    fenomeno  più  insignificante  come  la causa di quello maggiore e più
    importante.  Fu la somma delle  volontà  umane  che  produsse  sia  la
    rivoluzione, sia Napoleone, e fu essa sola, questa somma di volontà, a
    sopportare e ad annientare l'una e l'altro.
    "Ma ogni qualvolta vi furono conquiste,  ci furono conquistatori; ogni
    qualvolta in  uno  stato  avvennero  rivolgimenti,  vi  furono  grandi
    uomini",  ci  dice  la  storia.  "Infatti,  ogni  qualvolta comparvero
    conquistatori,  si scatenarono  anche  guerre",  risponde  la  ragione
    umana, ma ciò non prova che i conquistatori siano stati la causa delle
    guerre  e  che  si possano trovare le leggi della guerra nell'attività
    personale di un solo individuo.  Ogni  volta  che,  guardando  il  mio
    orologio, vedo che la lancetta si avvicina alle dieci, sento che nella
    chiesa  accanto  cominciano  a sonare le campane,  ma per il fatto che
    ogni qualvolta la lancetta  si  avvicina  alle  dieci  e  comincia  lo
    scampanio,  non  ho  il  diritto  di concludere che la posizione della
    lancetta sia la causa dello scampanio.
    Ogni qualvolta vedo partire una locomotiva,  odo un fischio,  vedo una
    valvola  che  si apre e le ruote che si muovono,  ma non per questo ho
    ragione di concludere che il fischio e il movimento delle ruote  siano
    la causa del partire della locomotiva.
    I contadini dicono che, quando la primavera è tardiva, soffia un vento
    freddo  perché si aprono le gemme della quercia;  e in realtà,  a ogni
    primavera, quando le gemme della quercia si schiudono, soffia un vento
    freddo. Ma quantunque io ignori perché spiri un vento freddo quando la
    quercia germoglia, non posso credere,  come i contadini,  che la causa
    del  vento  sia  lo spuntare dei germogli della quercia;  non lo posso
    credere perché la forza del vento si trova al di fuori  dell'influenza
    delle  gemme.  Vedo  soltanto  una  coincidenza  di circostanze che si
    verificano in  ogni  fenomeno  della  vita  e  vedo  che,  per  quanto
    attentamente  io  mi applichi a sorvegliare la lancetta dell'orologio,
    la valvola e le ruote della locomotiva e i germogli della quercia, non
    riuscirei mai a conoscere la  causa  dello  scampanio,  del  movimento
    della locomotiva e del vento di primavera. Perciò devo cambiare il mio
    punto  di  osservazione  e studiare le leggi del movimento del vapore,
    delle campane e del vento.  Allo stesso modo deve fare  la  storia.  E
    tentativi in questo senso sono già stati fatti.
    Per  scoprire  le leggi della storia,  dobbiamo cambiare assolutamente
    l'oggetto delle nostre osservazioni,  lasciare in pace re,  ministri e
    generali  e  studiare,  invece,  gli  elementi  comuni,  infinitamente
    piccoli,  che guidano le masse.  Nessuno può dire sino a che punto sia
    dato all'uomo giungere,  per questa via, alla comprensione delle leggi
    della storia;  ma è evidente che solo seguendo questa via si  apre  la
    possibilità  di  cogliere  queste  leggi e che a questa via la ragione
    umana non ha ancora  dedicato  neppure  una  milionesima  parte  degli
    sforzi  impiegati  dagli storici per descrivere le azioni dei vari re,
    condottieri e ministri,  e  per  esporre  le  loro  considerazioni  in
    proposito.


    CAPITOLO 2.

    Le  forze  di  dodici  popoli  d'Europa si scagliano contro la Russia.
    L'esercito e la popolazione russa si ritirano,  evitando  lo  scontro,
    sino a Smolènsk,  e da Smolènsk sino a Borodinò.  L'esercito francese,
    con una forza propulsiva sempre crescente,  si  slancia  verso  Mosca,
    meta del suo movimento.  La forza propulsiva aumenta a mano a mano che
    la meta è più vicina,  come sempre più aumenta la velocità di un corpo
    che,  cadendo,  si  avvicina  alla  terra.  Alle  spalle,  migliaia di
    "verste" di un paese affamato; davanti,  poche diecine di "verste" che
    separano dalla meta. Ogni soldato dell'esercito di Napoleone lo sente,
    e  l'invasione  avanza  di  per  sé,  per la sola spinta dello slancio
    iniziale.
    Nell'esercito russo,  quanto più si accentua la  ritirata,  tanto  più
    cresce l'odio contro il nemico; indietreggiando, l'odio si concentra e
    ingigantisce.  L'urto avviene a Borodinò. Né l'uno né l'altro esercito
    cede,  ma quello russo,  immediatamente dopo lo scontro,  indietreggia
    per  necessità,  come  fatalmente  rimbalza una palla scontrandosi con
    un'altra palla che la urta con violenza; così, per necessità, la palla
    dell'invasione (sebbene abbia perduto nell'urto tutta la  sua  forza),
    lanciata avanti, evidentemente continua a rotolare per un certo tempo.
    I  Russi  si  ritirano  sino  a  centoventi  miglia di là da Mosca;  i
    Francesi arrivano sino a Mosca e vi  si  fermano.  Dopo  di  che,  per
    cinque settimane, non ha più luogo alcuna battaglia. I Francesi non si
    muovono.  Come una belva mortalmente ferita che,  perdendo sangue,  si
    lecchi  le  ferite,  essi  restano  cinque  settimane  a  Mosca  senza
    intraprendere nulla;  poi, a un tratto, senza una nuova causa, volgono
    in fuga,  gettandosi sulla strada di Kaluga e,  dopo una vittoria    -
    poiché a Malo-Jaròslavetz restano padroni del campo  -  senza più dare
    alcuna  seria  battaglia,   fuggono  ancora  più  rapidamente  sino  a
    Smolènsk, e di là,  oltre Smolènsk,  oltre Vilna,  oltre la Beresina e
    più lontano ancora.
    La sera del 26 agosto, Kutuzòv e tutto l'esercito russo erano convinti
    che  la battaglia di Borodinò fosse vinta.  Kutuzòv,  in questo senso,
    scrisse all'imperatore.  Kutuzòv ordinò  di  prepararsi  a  una  nuova
    battaglia per distruggere il nemico,  non già perché volesse ingannare
    alcuno,  ma perché sapeva che il nemico era vinto,  come  lo  sapevano
    tutti coloro che avevano partecipato alla battaglia.
    Senonché,  quella  stessa  sera  e il giorno seguente,  cominciarono a
    susseguirsi,  una dopo l'altra,  le  notizie  delle  inaudite  perdite
    subite:  della  perdita  di  metà  dell'esercito,  per  cui  un  nuovo
    combattimento appariva materialmente impossibile.
    Non si poteva dar battaglia  quando  ancora  non  si  avevano  notizie
    sicure,  quando  i  feriti  non erano ancora stati soccorsi,  le nuove
    munizioni non erano ancora preparate,  non ancor fatto il calcolo  dei
    morti,  non  nominati  i  nuovi  comandanti  in sostituzione di quelli
    caduti e quando gli uomini non avevano ancora né mangiato né riposato.
    Nello  stesso  tempo,   la  mattina  immediatamente  successiva   alla
    battaglia,  l'esercito  francese (per quella forza propulsiva del moto
    che aumentava ora in rapporto inverso al quadrato delle distanze)  già
    di per sé si moveva contro l'esercito russo.  Kutuzòv voleva attaccare
    nelle giornate seguenti  e  così  voleva  tutto  l'esercito.  Ma,  per
    attaccare,  non  era  sufficiente  il desiderio di farlo: occorreva la
    possibilità, e questa possibilità mancava.  Come non indietreggiare di
    una tappa di marcia, poi di una seconda e di una terza? Finalmente, il
    primo settembre, quando l'esercito si trovò sotto Mosca, nonostante lo
    slancio  combattivo  che  insorgeva  nelle  sue  file,  le circostanze
    imposero che le  truppe  si  ritirassero  oltre  Mosca.  E  l'esercito
    indietreggiò  ancora  di  una  tappa,  l'ultima,  e abbandonò Mosca al
    nemico.
    Gli uomini,  assuefatti a pensare che i piani di guerra e di battaglia
    siano  preparati  dai condottieri allo stesso modo con cui ciascuno di
    noi, seduto nel proprio studio davanti a una carta militare,  immagina
    come avrebbe organizzato questa o quella battaglia, si chiedono perché
    Kutuzòv  durante  la  ritirata  non  abbia agito in tal modo o nel tal
    altro, perché non abbia occupato la posizione antistante Fili,  perché
    non   si  sia  ritirato  subito  sulla  strada  di  Kaluga  dopo  aver
    abbandonato Mosca e via di seguito.
    Gli uomini assuefatti a pensare così  dimenticano  o  ignorano  quelle
    inevitabili  condizioni nelle quali sempre si esplica l'attività di un
    generalissimo.  L'attività del condottiero non ha nulla in comune  con
    quell'attività  che  immaginiamo  noi,  seduti  comodamente nel nostro
    studio,  analizzando sulla carta una qualsiasi campagna militare,  con
    un  numero  determinato  di  uomini  da una parte e dall'altra,  su un
    determinato terreno,  iniziando i nostri  calcoli  da  un  determinato
    momento.  Un  comandante in capo non si trova mai in quelle condizioni
    di inizio di un avvenimento  qualsiasi,  nelle  quali  noi  esaminiamo
    l'avvenimento stesso. Il comandante in capo si trova sempre in mezzo a
    una  serie  di avvenimenti in evoluzione e in condizioni tali che mai,
    in nessun momento,  gli è possibile valutarne  l'importanza.  In  modo
    inavvertibile,   di  momento  in  momento,   si  delinea  l'importanza
    dell'avvenimento,   ma  in   ogni   momento   di   questo   delinearsi
    dell'avvenimento,  il comandante in capo viene a trovarsi al centro di
    un complesso gioco di  intrighi,  di  preoccupazioni,  di  potere,  di
    progetti,  di  consigli,  di  inganni;  si trova incessantemente nella
    necessità di rispondere a una infinita quantità di questioni  che  gli
    vengono proposte, spesso contraddittorie tra di loro.
    Gli  esperti  militari  molto  seriamente  ci dicono che Kutuzòv assai
    prima di Fili,  avrebbe dovuto spingere le sue truppe sulla strada  di
    Kaluga e che,  in realtà,  qualcuno gli aveva suggerito tale progetto.
    Ma,  specie nei momenti difficili,  un comandante in capo ha davanti a
    sé  non  un  progetto  solo,  ma  ne  ha  diecine  e  diecine  e tutti
    contemporaneamente.  Ognuno di  questi  progetti,  poi,  basati  sulla
    strategia e sulla tattica,  contraddice gli altri. Sembrerebbe che non
    dovrebbe far altro che sceglierne uno,  ma non può neppure far questo.
    Gli avvenimenti e il tempo non aspettano. Supponiamo, per esempio, che
    il  giorno  28  gli si proponga di passare sulla strada di Kaluga;  ma
    ecco che in quel momento giunge al  galoppo  l'aiutante  di  campo  di
    Miloràdovic',  che  gli domanda,  a nome di quest'ultimo,  se si debba
    impegnare una immediata azione contro  i  Francesi  o  indietreggiare.
    Egli  deve,  lì per lì,  dare un ordine,  e l'ordine di indietreggiare
    allontana i Russi dalla strada di Kaluga.  Ecco giungere,  subito dopo
    l'aiutante  di  campo,  un  intendente a domandare dove si debbano far
    portare i vettovagliamenti,  e il capo degli ospedali che vuol  sapere
    dove far trasportare i feriti,  un corriere da Pietroburgo,  latore di
    una lettera dello zar che  non  ammette  la  possibilità  di  lasciare
    Mosca,  mentre il rivale del generalissimo, quello che briga contro di
    lui (ce ne sono sempre,  e più di  uno)  propone  un  altro  progetto,
    diametralmente  opposto al piano di uscita sulla strada di Kaluga.  Le
    forze del comandante in capo sono allo  stremo:  egli  ha  bisogno  di
    riposo e di sonno,  ma un rispettabile generale,  che non ha avuto una
    decorazione viene a  lamentarsi,  gli  abitanti  implorano  di  essere
    difesi,  un  ufficiale  mandato in ricognizione ritorna e riferisce il
    contrario di ciò che aveva detto l'ufficiale  mandato  prima  di  lui:
    l'emissario,   un  prigioniero  e  il  generale  che  ha  eseguito  la
    ricognizione  descrivono,   ognuno  in  modo  diverso,   la  posizione
    dell'esercito  nemico.  Gli  uomini,  abituati  a  dimenticare o a non
    comprendere  queste  inevitabili  situazioni   dell'attività   di   un
    generalissimo,  ci presentano, per esempio, la posizione dell'esercito
    a Fili e suppongono che Kutuzòv potesse, il primo settembre, risolvere
    liberamente il problema se abbandonare o difendere Mosca mentre,  data
    la  condizione  dell'esercito  russo  a cinque miglia dalla città,  un
    problema simile non poteva neppure esistere. Quando, dunque, fu decisa
    la questione? Presso la Drissa, a Smolènsk e, in modo più evidente, il
    24 a Scevardinò,  il 26 a Borodinò e in ogni giorno,  in ogni ora,  in
    ogni istante della ritirata da Borodinò a Fili.


    CAPITOLO 3.

    L'esercito  russo,  ritiratosi  da  Borodinò,  si  era fermato a Fili.
    Ermolov,  tornato dall'aver ispezionato la posizione,  si presentò  al
    generalissimo.
    - Battersi qui è impossibile  -  gli disse.
    Kutuzòv lo guardò meravigliato, si fece ripetere quelle parole e poi:
    - Dammi la mano  -  gli disse e, presala, la girò in modo da tastargli
    il polso.  -  Tu non stai bene, caro. Pensa a ciò che dici.
    Sulla   collina   Poklònnaja,   a   sei   miglia  dagli  avamposti  di
    Dorogomìlovo,  Kutuzòv scese dalla sua carrozza e si  sedette  su  una
    panca,  sul  margine  della strada.  Una gran folla di generali gli si
    fece attorno.  Ad essi si unì il conte  Rastopcìn,  venuto  da  Mosca.
    Tutta quella brillante riunione, divisa in parecchi gruppi, discorreva
    dei  vantaggi  e  degli  svantaggi  della posizione,  della condizione
    dell'esercito,  dei piani proposti,  della situazione di  Mosca  e  di
    questioni  militari  in  genere.  Tutti sentivano,  benché non fossero
    stati convocati per questo  e  benché  non  se  ne  parlasse,  che  si
    trattava  di  un  vero  Consiglio  di  guerra.   Le  conversazioni  si
    mantenevano nel campo delle  questioni  generali.  Se  anche  qualcuno
    comunicava  o  riceveva  notizie  di  carattere personale,  ne parlava
    sottovoce e subito tornava ai problemi generali;  nessuna,  tra  tutte
    quelle persone, scherzava, rideva o sorrideva. Era chiaro che tutti si
    sforzavano di mantenersi all'altezza della situazione.  E ogni gruppo,
    discorrendo,  cercava di stare nelle vicinanze del  generalissimo  (la
    cui  panca  costituiva il centro dei diversi gruppi) e parlava in modo
    che egli potesse sentire.  Il generalissimo  ascoltava,  di  tanto  in
    tanto  interrogava  su  ciò  che  si  diceva  attorno  a  lui,  ma non
    partecipava alla conversazione e non esprimeva  alcuna  opinione.  Più
    volte,  dopo aver ascoltato ciò che si diceva in un gruppo, si voltava
    dall'altra parte con aria delusa,  come se ciò che sentiva  non  fosse
    quello che egli desiderava conoscere. Alcuni parlavano della posizione
    e  criticavano  non tanto la posizione in se stessa quanto la capacità
    intellettuale di coloro che l'avevano scelta;  altri dimostravano  che
    l'errore  datava  da  prima  e  che  si  sarebbe  dovuto  accettare la
    battaglia due giorni innanzi; altri ancora discutevano sulla battaglia
    di Salamanca di cui  raccontava  il  francese  Crossart,  in  uniforme
    spagnuola,  appena  arrivato.  (Questo francese,  con uno dei prìncipi
    tedeschi al servizio della Russia,  studiava  l'assedio  di  Saragozza
    prevedendo  di  poter difendere Mosca allo stesso modo).  In un quarto
    gruppo,  il conte Rastopcìn si diceva pronto a morire  sotto  le  mura
    della  capitale  con  la  milizia  moscovita,  ma  intanto  si lagnava
    dell'incertezza nella quale lo avevano lasciato e  affermava  che,  se
    fosse  stato  al  corrente  in  tempo,  le  cose  sarebbero andate ben
    diversamente...  I  componenti  di  un  altro  gruppo,   mostrando  la
    profondità  delle loro nozioni strategiche,  parlavano della direzione
    nella quale si dovevano avviare le truppe. Altri poi, che formavano un
    sesto gruppo,  dicevano cose assurde.  Il viso di  Kutuzòv  si  faceva
    sempre  più  triste  e preoccupato.  Da tutti quei discorsi si rendeva
    conto di una cosa sola,  della impossibilità  materiale  di  difendere
    Mosca, nel pieno significato di queste parole, ossia una impossibilità
    tale  di  difesa  che,  se  un  qualche  pazzo generale in capo avesse
    emanato l'ordine di dar battaglia, sarebbe sorto un trambusto tale che
    la battaglia non avrebbe potuto aver luogo,  e non avrebbe potuto aver
    luogo  perché  tutti  i  comandanti  più  elevati  in  grado  non solo
    consideravano  insostenibile  la  posizione,   ma  nei  loro  discorsi
    discutevano   ormai   soltanto   su  ciò  che  sarebbe  accaduto  dopo
    l'abbandono indubbio di essa.  Come  avrebbero  potuto,  dunque,  quei
    comandanti,  condurre  i  loro  uomini  a  un  campo  di battaglia che
    giudicavano impossibile?  I comandanti di grado inferiore e persino  i
    soldati  (i  quali  pure ragionano) giudicavano ugualmente impossibile
    quella posizione e perciò  non  potevano  andare  a  battersi  con  la
    certezza  della  sconfitta.  Che  Bennigsen  insistesse  per difendere
    quella posizione e gli altri  insistessero  nel  criticarla,  era  una
    questione che non aveva ormai più alcuna importanza;  serviva soltanto
    da pretesto per litigi e intrighi. E Kutuzòv lo capiva.
    Bennigsen,  scegliendo quella posizione e manifestando ardentemente il
    suo  patriottismo  russo  (cosa  che Kutuzòv non riusciva ad ascoltare
    senza accigliarsi), insisteva per la difesa di Mosca.  Kutuzòv vedeva,
    chiara  come  la  luce  del  giorno,  la mira di Bennigsen: in caso di
    sconfitta,  farne ricadere la  responsabilità  su  Kutuzòv  che  aveva
    condotto le truppe sino alla montagna dei Passeri senza dar battaglia;
    in  caso di successo,  attribuirsene il merito;  in caso,  infine,  di
    ritirata,  liberarsi della responsabilità di avere abbandonato  Mosca.
    Ma  in quel momento le questioni di intrigo non preoccupavano Kutuzòv.
    Un'altra terribile domanda lo preoccupava,  domanda alla quale nessuno
    aveva  dato  risposta.  La  domanda che ora lo angustiava era soltanto
    questa: "E' possibile che proprio  io  abbia  lasciato  che  Napoleone
    giungesse  sino  a Mosca?  E quando l'avrei fatto?  Quando è accaduto?
    Forse ieri,  quando ho mandato a Platov l'ordine di  indietreggiare  o
    ieri  l'altro sera,  quando mi sono assopito e ho incaricato Bennigsen
    di assumere il comando?  O forse anche prima?  Ma quando,  quando si è
    decisa questa cosa terribile? Mosca deve essere abbandonata, le truppe
    devono indietreggiare e bisogna dare quest'ordine".  Dare quest'ordine
    terribile gli pareva altrettanto duro quanto il rinunziare al  comando
    dell'esercito.  Ed  egli,  non  solo  amava  il  potere,  ma vi si era
    assuefatto (gli onori resi al principe Prozorovskij,  presso il  quale
    era  stato  in  Turchia,   lo  eccitavano),  era  convinto  di  essere
    predestinato  a  salvare  la  Russia,   e  che  soltanto  per  questo,
    contrariamente  alla volontà dell'imperatore e per volontà del popolo,
    era stato nominato comandante supremo.  Era convinto di essere il solo
    uomo   che   potesse,   in  quelle  difficili  circostanze,   dirigere
    l'esercito,  il solo uomo,  al mondo che potesse senza  paura  lottare
    contro l'invincibile avversario Napoleone; e inorridiva al pensiero di
    quell'ordine che doveva dare. Ma occorreva pur prendere una decisione,
    occorreva far cessare le conversazioni che si svolgevano attorno a lui
    e che avevano già cominciato ad assumere un tono troppo libero.
    Fece chiamare i generali più anziani.
    - "Ma tête,  fût-elle bonne ou mauvaise,  n'a qu'à s'aider d'elle-même
    [1. La mia testa, sia essa buona o cattiva,  deve aiutarsi da sola]  -
    disse,  alzandosi  dalla  panca,  e  si  recò  a Fili dov'erano le sue
    carrozze.


    CAPITOLO 4.

    Nella vasta "izbà" del contadino Andréj Savoztjanov,  la migliore  del
    villaggio,  si riunì alle due il Consiglio di guerra.  I contadini, le
    donne e i bambini della numerosa famiglia stavano accalcati al  di  là
    del vestibolo, nell'altra parte della casa, quella che serviva durante
    l'inverno. Soltanto una nipotina di Andréj, Malascia, bimba di quattro
    anni,  alla quale sua altezza serenissima aveva dato,  mentre prendeva
    il tè, un pezzo di zucchero, era rimasta sulla grande stufa. Malascia,
    timida e contenta,  osservava di lassù le  facce,  le  uniformi  e  le
    decorazioni dei generali che entravano l'uno dopo l'altro e andavano a
    sedersi su certe ampie panche collocate nell'angolo d'onore,  sotto le
    icone. Il "nonno" (come Malascia, entro di sé, chiamava Kutuzòv) stava
    seduto un po' discosto dagli altri,  nel  cantuccio  scuro  dietro  la
    stufa.   Sprofondato   in   una   poltrona  pieghevole,   tossicchiava
    continuamente e stiracchiava il colletto della giubba che,  quantunque
    sganciato,  sembrava  dargli  fastidio.  I  generali  che entravano si
    avvicinavano uno dopo  l'altro  al  feldmaresciallo,  ad  alcuni  egli
    stringeva  la  mano,  ad  altri faceva un cenno di saluto con il capo.
    L'aiutante di campo Kajsarov fece l'atto di scostare la tendina  della
    finestra che era dirimpetto al generalissimo, ma questi, irritato, gli
    fece un segno con la mano, e Kajsarov capì che sua altezza serenissima
    non voleva che gli si vedesse il viso.
    Attorno alla rozza tavola di abete,  sulla quale erano disposte carte,
    piani,  matite,  fogli,   i  generali  erano  così  numerosi  che  gli
    attendenti portarono un'altra panca e la collocarono presso la tavola.
    Su quella panca presero posto gli ultimi venuti,  Ermolov,  Kajsarov e
    Toll. Proprio sotto le icone,  in prima fila,  stava Barclay de Tolly,
    con  la croce di San Giorgio al collo,  pallido e visibilmente malato,
    la cui alta fronte si confondeva con la calvizie del  cranio.  Da  due
    giorni febbricitante,  era anche in quel momento scosso da brividi,  e
    si sentiva a pezzi.  Accanto a lui era seduto Uvarov che  gli  diceva,
    parlando  a  bassa  voce  (come  tutti  del  resto),  qualche  cosa  e
    gesticolava animatamente.  Il piccolo  e  rotondo  Dochturov,  con  le
    sopracciglia  sollevate  e  le  mani incrociate sul ventre,  ascoltava
    attentamente.  Dall'altra parte della tavola,  con l'ampia  testa  dai
    lineamenti  marcati  e  gli  occhi scintillanti,  appoggiata sopra una
    mano,  il conte Osterman-Tolstòj pareva sprofondato nei suoi pensieri.
    Raevskij,  dall'aria  impaziente,  si  arricciava con gesto abituale i
    capelli neri  sulle  tempie  e  guardava  ora  Kutuzòv  ora  la  porta
    d'ingresso.  Il  volto  marziale  bello  e  buono  di Konovnicyn,  era
    illuminato da un dolce e  malizioso  sorriso.  Il  suo  sguardo  aveva
    incontrato  quello  di Malascia e le ammiccava con gli occhi,  facendo
    ridere la bimba.
    Tutti attendevano  Bennigsen  il  quale,  sotto  il  pretesto  di  una
    ispezione  alla posizione,  stava terminando un gustoso pranzetto.  Lo
    aspettarono  dalle  quattro  alle  sei,   senza  aprire   la   seduta,
    conversando sottovoce di argomenti comuni.
    Soltanto  quando  nell'"izbà"  entrò  Bennigsen,  Kutuzòv uscì dal suo
    cantuccio e si avvicinò alla tavola,  ma solo di quel  tanto  che  non
    permetteva alle candele di illuminargli il viso.
    Bennigsen aprì la seduta con la domanda:
    -  Si deve abbandonare senza combattere la santa capitale della Russia
    o la si deve difendere?
    Seguì un lungo, generale silenzio.  Tutti i visi si rabbuiarono e,  in
    quel silenzio,  si sentivano i colpetti di tosse, rauchi e irritati di
    Kutuzòv.  Gli occhi di tutti  erano  rivolti  a  lui.  Anche  Malascia
    guardava il "nonno". Gli era vicinissima e lo vedeva contrarre il viso
    come se stesse per piangere. Ma fu soltanto un attimo.
    -  L'antica  e santa capitale della Russia!   -  proruppe a un tratto,
    ripetendo con voce irritata le parole  di  Bennigsen  e  accentuandone
    così l'intonazione di falsità.   -  Permettetemi di dirvi, eccellenza,
    che la vostra domanda, per un russo, non ha senso  -  (e spinse avanti
    la sua massiccia persona).   -   Non  è  possibile  porre  una  simile
    domanda:  essa  non ha assolutamente senso.  La questione,  per cui ho
    pregato questi signori di riunirsi qui, è una questione militare. Ed è
    questa: la  salvezza  della  Russia  sta  nel  suo  esercito.  E'  più
    vantaggioso  rischiare  la perdita dell'esercito e di Mosca accettando
    la battaglia,  o lasciare Mosca al  nemico  senza  combattere?  E'  su
    questo  che desidero conoscere i vostri pareri.    -  E si appoggiò di
    nuovo alla spalliera della poltrona.
    Ebbero inizio le discussioni. Bennigsen non considerava ancora perduta
    la partita.  Accettando l'opinione di  Barclay  e  degli  altri  sulla
    impossibilità di una battaglia difensiva presso Fili egli,  ardente di
    patriottismo russo e di amore per Mosca,  proponeva  di  far  passare,
    durante  la notte,  le truppe dal fianco destro a quello sinistro e di
    slanciarsi il giorno dopo sul lato destro del nemico.  I pareri  erano
    discordi: cominciarono le discussioni pro e contro. Ermolov, Dochturov
    e  Raevskij parteggiavano per Bennigsen.  Forse spinti da un desiderio
    di sacrificio prima di abbandonare la  capitale  o  forse  guidati  da
    altre  considerazioni  di  carattere personale,  fatto si è che questi
    generali pareva non capissero che quel Consiglio di guerra non  poteva
    mutare  l'andamento  delle  cose  e  che  Mosca  era  praticamente già
    abbandonata. Gli altri generali se ne erano resi conto e, lasciando da
    parte ogni discussione relativa a Mosca, parlavano già della direzione
    che l'esercito doveva prendere, ritirandosi.
    Malascia che, senza distogliere gli occhi,  osservava ciò che avveniva
    sotto  il  suo  sguardo,  comprendeva  in modo diverso l'importanza di
    quella riunione. Le pareva che tutto consistesse soltanto in una lotta
    personale tra il "nonno" e "l'uomo  dalle  falde  lunghe",  come  essa
    chiamava Bennigsen. Vedeva che quei due si irritavano quando parlavano
    tra  di  loro  e,  in  cuor suo,  dava ragione al "nonno".  Durante la
    conversazione,  notò uno sguardo  rapido  e  malizioso,  lanciato  dal
    "nonno"  a  Bennigsen  e  poi,  con  sua grande gioia,  osservò che il
    "nonno" aveva detto qualcosa all'uomo dalle falde lunghe, mettendolo a
    posto. Bennigsen, arrossendo,  prese a camminare irosamente in lungo e
    in  largo  per  l'"izbà".  Ciò  che  lo  aveva tanto turbato era stata
    l'opinione espressa con molta calma da  Kutuzòv  sui  vantaggi  e  gli
    svantaggi della sua proposta,  e cioè sul far passare durante la notte
    le truppe dall'ala destra alla sinistra per sferrare l'attacco  contro
    l'ala destra dei Francesi.
    - Io,  signori,   -  disse Kutuzòv  -  non posso approvare il progetto
    del conte.  I movimenti di truppe a breve  distanza  dal  nemico  sono
    sempre pericolosi, e la storia militare lo conferma. Per esempio...  -
    (Kutuzòv  parve  riflettere  in  cerca  dell'esempio mentre fissava su
    Bennigsen uno sguardo limpido e ingenuo).   -  Ecco,  per esempio,  la
    battaglia di Friedland che,  come penso, il conte ricorderà bene, ebbe
    un esito non completamente favorevole soltanto perché le nostre truppe
    si schierarono a troppo breve distanza dal nemico.
    Seguì un minuto di silenzio che parve a tutti interminabile.
    La discussione fu ripresa,  ma con frequenti interruzioni.  Si sentiva
    che non c'era più di che discutere.
    Durante  una  delle  varie  interruzioni,  Kutuzòv  trasse un profondo
    sospiro,  come se si preparasse a dire qualcosa.  Tutti gli sguardi si
    puntarono su di lui.
    -  "Eh  bien,  messieurs!  Je  vois que c'est moi qui payerai les pots
    cassés" [2.  Ebbene,  signori,  vedo che sarò io a pagare i cocci]   -
    disse. E, alzandosi lentamente, si avvicinò al tavolo.  -  Signori, ho
    ascoltato i vostri pareri. Alcuni di voi non sono d'accordo con me. Ma
    io    -   (si interruppe un momento)-  in virtù del potere conferitomi
    dall'imperatore e dalla patria... ordino la ritirata.
    Dopo di che i generali cominciarono a separarsi e  ad  uscire  con  la
    stessa silenziosa solennità che avrebbero assunto dopo un funerale.
    Alcuni  a  voce  sommessa,  assai  diversa da quella che avevano usato
    parlando in Consiglio, dissero qualcosa al generalissimo.
    Malascia,  che da un pezzo era attesa per la cena,  scivolò lentamente
    dalla  stufa  puntando  i  piedini nudi sulle sporgenze di essa e poi,
    sgusciando tra le gambe dei generali, uscì dalla porta e scomparve.
    Kutuzòv, dopo essersi accomiatato dai generali,  si sedette e rimase a
    lungo  con i gomiti appoggiati sulla tavola,  continuando a rivolgersi
    la  stessa  terribile  domanda:  "Quando,   quando  è   stato   deciso
    l'abbandono  di  Mosca?  Quando  avvenne  ciò  che  rese fatale questo
    abbandono e di chi fu la colpa?".
    - No,  una cosa simile non me l'aspettavo  -  disse al suo aiutante di
    campo  Schneider,  che  a  tarda notte era entrato da lui.   -  Non lo
    avrei mai creduto!
    - Avete bisogno di riposarvi, altezza,  -  disse Schneider.
    - Ma no! Mangeranno carne di cavallo, come i Turchi!  -  gridò Kutuzòv
    senza rispondere, picchiando sulla tavola con il grosso pugno.   -  La
    mangeranno anche loro, sì, purché...


    CAPITOLO 5.

    In  modo  opposto  a  quello  di  Kutuzòv  e  in una vicenda assai più
    importante  della  ritirata  dell'esercito  senza   battaglia,   ossia
    nell'abbandono di Mosca e nel suo incendio,  agiva Rastopcìn,  che noi
    consideriamo come il responsabile di quegli avvenimenti .
    L'abbandono di Mosca incendiata era  inevitabile  quanto  la  ritirata
    delle  truppe,  senza combattere,  di là da Mosca dopo la battaglia di
    Borodinò.
    Ogni russo,  non basandosi sulla riflessione logica,  ma in  forza  di
    quel  sentimento  che  è  in  noi e che era nei nostri padri,  avrebbe
    potuto predire quello che accadde.
    A cominciare da Smolènsk,  in tutte le città e  in  tutti  i  villaggi
    della  Russia,  senza  l'intervento  del  conte  Rastopcìn  e dei suoi
    manifesti,  avvenne  l'identica  cosa  che  a  Mosca:  la  popolazione
    aspettava  con  tranquillità  il  nemico,  non  si  ribellava,  non si
    agitava,  non faceva a pezzi nessuno,  ma attendeva con calma  la  sua
    sorte,  sentendo  in  se stessa la forza di decidere,  nei momenti più
    difficili,  che cosa dovesse fare.  Non appena il nemico cominciava ad
    avvicinarsi,  gli elementi più ricchi della popolazione se ne andavano
    abbandonando i loro beni;  i  più  poveri  rimanevano,  incendiando  e
    distruggendo ciò che restava.
    Esisteva  ed esiste tuttora nell'animo di ogni russo la consapevolezza
    che  così  dovesse  accadere  e  così  sempre  accadrà,   e  una  tale
    consapevolezza,  unita  al  presentimento  della  presa di Mosca,  era
    diffusa  in  tutta  la  società  moscovita  del   1812.   Quelli   che
    cominciarono  a  lasciar  Mosca  sin dal mese di luglio e dei primi di
    agosto,  lo dimostrarono.  Chi,  partendo,  portava via tutto ciò  che
    poteva  e abbandonava le case e metà degli averi,  agiva così per quel
    patriottismo  latente  che  si  esprimeva  non  con  le  frasi  o  con
    l'uccisione  dei propri figli per la salvezza della patria o con altri
    simili  gesti  innaturali,  ma  inavvertitamente,  in  modo  semplice,
    istintivo  e  che,  appunto per questo,  produce i migliori e maggiori
    risultati.
    "E' vergognoso fuggire il pericolo;  soltanto i vigliacchi abbandonano
    Mosca!",  si diceva loro.  Nei suoi manifesti,  Rastopcìn ammoniva che
    era una viltà partire.  Essi si vergognavano di essere chiamati  vili,
    si vergognavano di partire,  ma partivano ugualmente,  sapendo che era
    necessario farlo. Perché partivano?  Non si può supporre che Rastopcìn
    li spaventasse con la descrizione degli orrori perpetrati da Napoleone
    nelle  terre  conquistate.  Partivano  per  prime  le persone ricche e
    istruite,  le quali sapevano tuttavia benissimo che Vienna  e  Berlino
    erano rimaste intatte e che in quelle città,  durante l'occupazione da
    parte di Napoleone,  gli abitanti avevano  trascorso  allegramente  il
    tempo  con  quegli  affascinanti  Francesi  che  allora  ai  Russi,  e
    soprattutto alle signore, piacevano molto.
    Partivano perché la  gente  russa  non  si  poteva  neppure  porre  il
    problema  se  a  Mosca  si  sarebbe  vissuto  bene  o  male  sotto  la
    dominazione francese.  Sotto la dominazione  francese  non  si  poteva
    stare:  era  questo  il  peggio.  Erano  partiti  ancora  prima  della
    battaglia di Borodinò  e  anche  più  frettolosamente  partirono  dopo
    nonostante  gli  appelli alla difesa,  nonostante le dichiarazioni del
    generale governatore di Mosca di voler levar alta la Vergine Ivèrskaia
    e andare a combattere,  nonostante i palloni aerostatici che  dovevano
    mettere  in  fuga  i  Francesi  e  nonostante  tutte  le assurdità che
    Rastopcìn scriveva nei suoi manifesti.  Sapevano tutti che chi  doveva
    battersi  era  l'esercito e che,  se questo non era in grado di farlo,
    non si poteva certo andare con le signorine e la  servitù  di  casa  a
    combattere  contro  Napoleone  sulle  Tre  Montagne;  che pertanto era
    necessario  partire,   per  quanto  doloroso  fosse  abbandonare  alla
    distruzione i propri beni. Partivano e non pensavano all'importanza di
    quella  ricca,  enorme capitale abbandonata dai suoi abitanti e votata
    alle fiamme (la grande  città  abbandonata,  tutta  di  legno,  doveva
    inesorabilmente  incendiarsi);  partivano  ognuno  per proprio conto e
    nello  stesso  tempo,  per  il  solo  fatto  di  quella  partenza,  si
    realizzava  il  memorabile  avvenimento,  che  resterà  per  sempre la
    maggior gloria del popolo russo.  La dama,  che sin dal mese di giugno
    si allontanava da Mosca, con i suoi negri e i suoi buffoni per recarsi
    nella  sua  campagna  di Saratov,  con il vago sentimento di non voler
    essere una serva di Bonaparte e con il terrore di essere  fermata  per
    ordine  di  Rastopcìn,  compiva  semplicemente  e  con  schiettezza la
    propria parte in quella grande opera che  ha  salvato  la  Russia.  Il
    conte  Rastopcìn,   poi,  che  ora  copriva  di  vergogna  coloro  che
    partivano,  ora cambiava sede agli uffici  pubblici,  ora  distribuiva
    armi  inservibili  a gentaglia ubriaca,  ora portava in processione le
    sacre icone,  ora vietava al metropolita Avgustin di portar  fuori  le
    reliquie e le sacre immagini, ora esigeva la consegna di tutti i carri
    che esistevano a Mosca, ora faceva trasportare su centotrentasei carri
    il   pallone   aerostatico   costruito   da  Leppich,   ora  accennava
    all'intenzione di incendiar Mosca, ora raccontava di aver appiccato il
    fuoco alla propria casa e di aver indirizzato un proclama ai Francesi,
    nel quale li rimproverava per aver distrutto il suo  asilo  infantile;
    quel  Rastopcìn  che  ora  si attribuiva la gloria dell'incendio della
    capitale,  ora la rinnegava,  ora ordinava al popolo di cogliere tutte
    le spie e di condurle alla sua presenza, ora rimproverava al popolo di
    farlo,  ora scacciava tutti i Francesi da Mosca,  permettendo però che
    rimanesse in città "madame" Aubert-Chalmé  che  costituiva  il  centro
    della  colonia  francese  della  capitale,  e  che  faceva arrestare e
    deportare il vecchio e rispettabile direttore delle  poste  Kljuciarëv
    (3)  che  non  aveva alcuna colpa particolare,  ora radunava sulle Tre
    Montagne il popolo perché si  battesse  contro  i  Francesi,  ora  per
    sbarazzarsi  di  quello  stesso  popolo  gli  dava un uomo da uccidere
    mentre lui se ne usciva dal portone di servizio,  ora diceva  che  non
    sarebbe  sopravvissuto alla rovina di Mosca,  ora scriveva sugli album
    versi francesi sulla parte da lui presa nella vicenda (4);  quest'uomo
    non   capiva   affatto  l'importanza  dell'avvenimento  che  si  stava
    compiendo,  ma voleva fare qualcosa di patriottico-eroico e,  come  un
    ragazzo, si divertiva con il fatto formidabile e fatale dell'abbandono
    e  dell'incendio  di Mosca,  sforzandosi con la sua debole mano ora di
    sospingere, ora di trattenere l'enorme corrente della fiumana popolare
    che lo trascinava con sé.


    CAPITOLO 6.

    Elen, tornata insieme con la Corte da Vilna a Pietroburgo,  si trovava
    in una difficile situazione.
    A   Pietroburgo   Elen  godeva  della  particolare  protezione  di  un
    personaggio che occupava uno dei posti più importanti dello  stato.  A
    Vilna, poi, aveva stretto rapporti di amicizia con un giovane principe
    straniero.  Quando  ritornò  a  Pietroburgo,  il gran personaggio e il
    principe vi si  trovavano  entrambi,  ed  entrambi  vantarono  i  loro
    diritti. Si presentò così a Elen un problema nuovo nella sua carriera:
    conservare  intima relazione con l'uno e con l'altro,  senza offendere
    tuttavia nessuno dei due.
    Ciò che a un'altra donna  sarebbe  sembrato  difficile  e  addirittura
    impossibile,  non  fece  esitare  nemmeno  per  un  minuto la contessa
    Bezùchova che,  evidentemente,  non  a  torto  godeva  fama  di  donna
    intelligentissima. Se avesse cercato di nascondere le proprie azioni e
    di  cavarsi  con l'astuzia dalla sua imbarazzante situazione,  avrebbe
    rovinato tutto,  dimostrando di riconoscersi colpevole;  ma  Elen,  da
    donna   veramente  grande,   che  può  ciò  che  vuole,   si  trincerò
    immediatamente nel proprio diritto, in cui credeva fermamente,  e mise
    tutti gli altri dalla parte del torto.
    La  prima  volta  che  il  giovane  principe  straniero  si permise di
    rimproverarla  ella,   alzando  orgogliosamente  la  bella   testa   e
    volgendosi a mezzo verso di lui, dichiarò con fermezza:
    -  "Voilà l'égoisme et la cruauté des hommes!  Je ne m'attendais pas à
    autre chose. La femme se sacrifie pour vous, elle souffre, et voilà sa
    récompense. Quel droit avez-vous,  Monseigneur,  de me demander compte
    de mes amitiés, de mes affections? C'est un homme qui a été plus qu'un
    père pour moi" [5.  Ecco l'egoismo e la crudeltà degli uomini!  Non mi
    aspettavo altro.  La donna si sacrifica per voi,  soffre,  ed ecco  la
    ricompensa.  Che diritto avete voi,  signore, di chiedermi conto delle
    mie amicizie e dei miei affetti? E' un uomo che è stato per me più che
    un padre!].
    Il giovane principe voleva dire qualcosa, ma Elen lo interruppe:
    - "Et bien,  oui",   -  disse  -  peut-être qu'il a pour moi  d'autres
    sentiments que ceux d'un père, mais ce n'est pas une raison que je lui
    ferme  ma  porte.  Je  ne suis pas un homme pour être ingrate.  Sachez
    Monseigneur,  pour tout ce qui a rapport à mes sentiments intimes,  je
    ne  rends  compte qu'à Dieu et à ma conscience" [6.  Ebbene,  sì,  può
    darsi che egli nutra per me sentimenti diversi da quelli di un  padre,
    ma non è una ragione perché gli chiuda la porta in faccia. Non sono un
    uomo,  io, per essere ingrata. Sappiate, signore, che di tutto ciò che
    riguarda i miei sentimenti intimi non rendo conto che a Dio e alla mia
    coscienza]  -  concluse,  portando la mano al  suo  bel  seno  che  si
    sollevava e alzando gli occhi al cielo.
    - "Mais écoutez-moi,  au nom de Dieu" [7.  Ma ascoltatemi,  in nome di
    Dio!].
    - "Epousez-moi,  et je serai votre esclave" [8.  Sposatemi,  e sarò la
    vostra schiava].
    - "Mais c'est impossible!" [9. Ma non è possibile!].
    - "Vous ne daignez pas descendre jusqu'à moi, vous..." [10. Voi non vi
    degnate di abbassarvi sino a me,  voi...]  -  disse Elen, mettendosi a
    piangere.
    Il principe cercò di consolarla.  Elen,  attraverso le lacrime  diceva
    (come  senza  scopo)  che nulla poteva impedirle di maritarsi,  che vi
    erano altri esempi (allora gli esempi  non  erano  numerosi,  ma  essa
    citava i nomi di Napoleone e di qualche altro grande personaggio), che
    non era mai stata la moglie di suo marito, che era stata sacrificata.
    - Ma le leggi,  la religione...  -  osservava il principe, cominciando
    a cedere.
    - Le leggi,  la  religione...  Ma  perché  le  leggi  sarebbero  state
    inventate se non potessero far questo?  -  obiettò Elen.
    L'alto personaggio si stupì che un ragionamento tanto semplice non gli
    fosse  venuto  in  mente  e domandò consiglio ai reverendi Padri della
    Compagnia di Gesù, con i quali era in ottimi rapporti.
    Alcuni giorni dopo,  durante una delle incantevoli feste che Elen dava
    nella  sua  villa sul Kamenni-Ostròv,  le fu presentato l'affascinante
    "monsieur de Jobert,  un Jésuite à robe courte"  [11.  un  gesuita  in
    veste  corta],  non più giovane,  con i capelli bianchi come la neve e
    gli occhi neri scintillanti; in giardino,  alla luce dei lampioni e al
    suono  della  musica,  egli conversò a lungo con Elen dell'amore verso
    Dio, verso Cristo,  verso il sacro Cuore di Maria e delle consolazioni
    che  dà in questo mondo e nell'altro la vera religione,  la cattolica.
    Elen era commossa e parecchie volte gli  occhi  di  lei  e  quelli  di
    "monsieur" de Jobert si riempirono di lacrime,  e le tremò la voce. Un
    cavaliere che venne a invitarla a ballare pose fine al  colloquio  con
    il suo futuro "directeur de conscience" [12.  padre spirituale]; ma il
    giorno dopo "monsieur" de Jobert si recò,  solo,  in casa di Elen e da
    allora ne divenne assiduo frequentatore.
    Un  giorno  egli accompagnò la contessa in una chiesa cattolica,  dove
    ella si mise in  ginocchio  davanti  all'altare  al  quale  era  stata
    condotta. Il non più giovane, affascinante gesuita le posò le mani sul
    capo  e  in  quel momento,  come ella raccontò più tardi,  le parve di
    sentire un soffio di vento fresco  che  le  scendesse  nell'anima.  Le
    spiegarono che questo era "la Grâce" [13. la Grazia].
    Poi le presentarono un abate "à robe longue" [14.  in veste lunga] che
    la confessò e le diede  l'assoluzione.  Il  giorno  successivo  le  fu
    portata  una  cassettina  che  conteneva l'Ostia consacrata,  e gliela
    lasciarono in casa perché la usasse. Alcuni giorni dopo Elen,  con sua
    grande  soddisfazione,  seppe  che  era entrata a far parte della vera
    Chiesa,  quella cattolica,  e che a giorni il papa stesso  ne  sarebbe
    stato informato e le avrebbe fatto pervenire un particolare documento.
    Tutto  ciò  che  frattanto avveniva attorno a lei,  tutta l'attenzione
    rivoltale da tante persone intelligenti  che  si  esprimevano  in  una
    forma piacevole e raffinata e la purezza di colomba che ora sentiva in
    sé  (in  tutto  quel  tempo  indossò soltanto abiti bianchi con nastri
    bianchi), tutto ciò le faceva piacere; ma neppure per un minuto questo
    piacere le impediva di perdere di vista lo scopo cui tendeva. E,  come
    accade  sempre  che  in  fatto  di  astuzia lo stupido prevale sul più
    intelligente,  essa,  avendo compreso che tutte quelle parole e quelle
    attenzioni  avevano  soprattutto  come  scopo  la  sua  conversione al
    cattolicesimo per farle sborsare denaro a profitto  delle  istituzioni
    dei  Gesuiti (le avevano fatto qualche allusione in proposito),  prima
    di dar denaro,  insisté perché fossero eseguite le diverse  operazioni
    che  dovevano  liberarla  dal  marito.  Per  lei,  il  significato  di
    qualsiasi religione consisteva soltanto nel fatto di poter  soddisfare
    i desideri umani,  osservando certe convenienze.  E a tal fine,  in un
    colloquio con il suo direttore spirituale,  volle  avere  da  lui  una
    risposta  alla  domanda  sino  a  che  punto  fosse  vincolata dal suo
    matrimonio.
    Erano seduti in salotto accanto alla finestra.  Calava  la  sera;  dal
    giardino  si diffondeva il profumo dei fiori.  Elen indossava un abito
    bianco,  trasparente sul petto e sulle spalle.  L'abate,  ben nutrito,
    con  il  largo mento grassoccio accuratamente rasato,  una bella bocca
    attraente e le candide  mani  posate  sulle  ginocchia,  sedeva  molto
    vicino a Elen e con un sottile sorriso sulle labbra, volgendo di tanto
    in  tanto  uno  sguardo amichevolmente estasiato verso tanta bellezza,
    esponeva la propria opinione sui quesiti che gli venivano posti.
    Elen, con un sorriso inquieto,  gli guardava i capelli inanellati,  le
    guance grassocce, lisce e brune e attendeva che da un minuto all'altro
    il discorso prendesse un'altra piega. Ma l'abate, benché evidentemente
    godesse  della  bellezza della sua interlocutrice,  era tutto compreso
    della maestria con cui compiva la propria opera.
    Il corso del ragionamento del direttore di coscienza era il  seguente:
    "Ignorando  l'importanza  di  ciò che stavate per fare,  avete giurato
    fedeltà di sposa a un uomo che,  da parte sua,  contraendo  matrimonio
    senza  credere nel suo valore religioso,  commetteva sacrilegio.  Quel
    matrimonio non aveva dunque il duplice significato che  doveva  avere.
    Tuttavia siete stati legati dal vostro giuramento,  giuramento che voi
    non avete mantenuto.  Che cosa avete commesso?  "Péché véniel ou péché
    mortel?" [15.  Peccato veniale o peccato mortale?].  "Un péché véniel"
    perché avete compiuto quest'atto senza cattivi pensieri. E se voi ora,
    con lo scopo di avere dei figliuoli,  contraete una nuova  unione,  il
    vostro  peccato potrebbe essere perdonato.  Ma la questione,  a questo
    punto, si divide ancora in due parti: la prima...".
    - Ma io penso  -  disse a un  tratto  Elen,  con  il  suo  incantevole
    sorriso,  evidentemente annoiata  -  penso che,  essendo entrata nella
    vera religione, non posso essere vincolata da ciò che mi fu imposto da
    una religione falsa.
    Il "directeur de conscience" si stupì della semplicità  con  la  quale
    gli veniva messo davanti l'uovo di Colombo. Era esaltato dai progressi
    inaspettatamente  rapidi  della sua allieva,  ma non poteva rinunziare
    all'edifizio spirituale delle sue argomentazioni.
    - "Entendons-nous,  comtesse" [16.  Intendiamoci,  contessa]  -  disse
    con un sorriso, e prese a discutere i ragionamenti della sua figliuola
    spirituale.


    CAPITOLO 7.

    Elen  capiva  che la faccenda era molto semplice e facile dal punto di
    vista ecclesiastico,  ma che  i  suoi  direttori  spirituali  creavano
    difficoltà  perché  temevano  il modo con cui l'autorità laica avrebbe
    considerato la cosa.
    Pertanto Elen decise che bisognava preparare la faccenda nella società
    in cui si svolgeva la sua vita. Suscitò la gelosia del vecchio signore
    e gli disse, come già aveva detto al primo corteggiatore,  che l'unico
    mezzo  per  vantare  dei diritti su di lei era quello di sposarla.  Il
    vecchio,  importante  personaggio  rimase  dapprima  sbalordito  dalla
    proposta  di  sposarla  mentre era ancor vivo il marito,  come già era
    accaduto al giovane principe;  ma l'incrollabile sicurezza di Elen nel
    dichiarare  che  la  cosa  era  semplice e naturale quanto sposare una
    fanciulla, ebbe effetto anche su di lui.  Se si fosse notato il minimo
    segno di tentennamento, di vergogna o di simulazione da parte di Elen,
    la  sua causa sarebbe stata irreparabilmente perduta,  ma non soltanto
    non vi era in lei alcun accenno a simulazione o a vergogna; anzi,  con
    semplicità e bonaria naturalezza, essa raccontava ai suoi amici intimi
    (ossia  a  tutta  Pietroburgo)  che  il  giovane principe e il vecchio
    dignitario le avevano chiesto di sposarla, che lei li amava entrambi e
    che le era penoso dover dare un dolore all'uno o all'altro.
    In città si diffuse allora rapidamente la voce,  non che Elen  volesse
    divorziare  da  suo  marito  (se  si  fosse  sparsa  questa voce molti
    sarebbero insorti contro questo proposito  illegale),  ma  si  diffuse
    semplicemente  la  voce  che  l'infelice  affascinante Elen non sapeva
    decidere quale dei suoi due  pretendenti  sposare.  La  questione  non
    consisteva  nel chiedersi sino a qual punto il caso fosse risolvibile,
    ma solo nel domandarsi quale dei due partiti fosse più vantaggioso per
    lei, e come la Corte avrebbe giudicato il suo matrimonio. C'erano,  in
    realtà,  alcuni  retrogradi,  incapaci di sollevarsi all'altezza della
    questione,   che  vedevano  in  quel  progetto  una  profanazione  del
    sacramento  del  matrimonio,  ma erano poco numerosi,  e tacevano;  la
    grande maggioranza,  invece,  s'interessava al problema  della  futura
    felicità di Elen e a quale fosse la scelta migliore.  Sul fatto,  poi,
    se fosse male o bene sposarsi,  avendo un marito tuttora vivo,  non si
    discuteva,  perché  la  questione evidentemente era già risolta per le
    persone più intelligenti "di voi e di noi" (così dicevano) e perché il
    dubitare della legittimità della soluzione pareva  dovesse  equivalere
    al  rischio  di  dar  prova di stupidità e di incapacità di vivere nel
    gran mondo.
    Soltanto  Màrija   Dmìtrevna   Achrosìmova,   venuta   a   Pietroburgo
    quell'estate per rivedere uno dei suoi figli,  si permise di esprimere
    la  propria  opinione,   contraria  a  quella  della  buona   società.
    Incontrata  Elen  a  una festa da ballo,  Màrija Dmìtrevna la fermò in
    mezzo alla sala e,  nel silenzio generale,  le disse con la  sua  voce
    aspra:
    - Qui da voi, dunque, vi siete messe a sposarvi avendo il marito vivo?
    Credi forse di avere inventato qualcosa di nuovo?  Ti hanno preceduta,
    mia cara...  L'hanno inventato da un pezzo.  In tutti i...  si  fa  la
    stessa cosa  -  e,  dopo queste parole, Màrija Dmìtrevna, rimboccatesi
    le ampie maniche e guardandosi attorno con aria severa,  attraversò la
    sala.
    Quantunque   a  Pietroburgo  tutti  temessero  Màrija  Dmìtrevna,   la
    consideravano tuttavia un tipo stravagante e perciò,  tra le parole da
    lei  dette,  fu  rilevata  soltanto  quella volgare che venne ripetuta
    sottovoce,  come se in  essa  fosse  concentrato  tutto  il  sale  del
    discorso.
    Il  principe  Vassilij,  che da qualche tempo dimenticava molto spesso
    quello che aveva detto e ripeteva cento volte la stessa cosa, diceva a
    sua figlia, ogni qualvolta gli accadeva di incontrarla:
    - "Hélène,  j'ai un mot à vous dire"  -   e  la  traeva  in  disparte,
    tirandole  giù  il  braccio.    -    "J'ai eu vent de certains projets
    relatifs à... vous savez. Eh bien, ma chère enfant, vous savez que mon
    coeur de père se réjouit de vous savoir...  Vous avez tant souffert...
    Mais,  chère enfant... ne consultez que votre coeur. C'est tout ce que
    je vous dis [17.  Elen,  debbo dirvi una parola.  Ho avuto sentore  di
    certi progetti relativi a...  lo sapete.  Ebbene,  mia cara figliuola,
    voi sapete che il mio cuore di padre si rallegra di  sapervi...  Avete
    tanto  sofferto...  Ma,  mia  cara...  chiedete  soltanto consiglio al
    vostro cuore. E' tutto quanto vi dico].  -  E,  nascondendo la propria
    commozione,  premeva  la  sua  guancia contro quella della figlia e si
    allontanava.
    Bilibin,  che non aveva perduto la sua fama di uomo di spirito ed  era
    amico disinteressato di Elen,  uno di quegli amici che non mancano mai
    alle donne belle e brillanti,  e che non possono mai assumere la parte
    dell'innamorato,  un giorno,  trovandosi in "petit comité" [18.  in un
    ristretto gruppo di amici],  espresse all'amica Elen il suo  punto  di
    vista sulla faccenda.
    -  "Ecoutez",  Bilibin  -  (Elen chiamava sempre per cognome gli amici
    come Bilibin) e gli toccava con la mano bianca e inanellata la  manica
    della  marsina  -  "dites-moi comme vous diriez a une soeur: que dois-
    je faire? Lequel des deux?" [19. Ascoltate, Bilibin,  ditemi,  come lo
    direste a una sorella: che cosa devo fare? Quale dei due?].
    Bilibin corrugò la pelle sopra le sopracciglia e, con il sorriso sulle
    labbra, prese a riflettere.
    -  "Vous  ne  me  prenez  pas au dépourvu,  vous savez"  -  le disse.-
    "Comme véritable ami j'ai pensé et  répensé  à  votre  affaire.  Voyez
    vous:  si  vous  épousez le prince"  -  (era il giovanotto) e a questo
    punto piegò il dito  -  "vous perdez pour toujours la chance d'épouser
    l'autre,  et puis vous mécontentez la Cour (comme vous savez,  il y  a
    une  espèce  de  parenté).  Mais si vous epousez le vieux comte,  vous
    faites le bonheur de ses  derniers  iours,  et  puis  comme  veuve  du
    grand... le prince ne fait plus de mésalliances en vous épousant" [20.
    Voi non mi prendete alla sprovvista, sapete. Da vero amico quale sono,
    ho  riflettuto  al  vostro caso.  Se sposate il principe,  perdete per
    sempre la possibilità di sposare l'altro e scontentate la Corte  (come
    sapete,  esiste  una  specie  di parentela).  Ma se sposate il vecchio
    conte,  rendete felici i suoi ultimi giorni e poi,  come vedova di  un
    grande...  il  principe,  sposandovi,  non  farà più un matrimonio non
    adatto a lui...]  -  e Bilibin spianò la fronte.
    - "Voilà un véritable ami!"   -    esclamò  Elen  raggiante,  passando
    ancora una volta la mano sulla manica di Bilibin.   -  "Mais c'est que
    j'aime l'un et l'autre,  je ne voudrais pas leur faire de chagrin.  Je
    donnerais  ma  vie  pour  leur bonheur à tous deux" [21.  Ecco un vero
    amico!  Ma il fatto è che io li amo entrambi e non vorrei recare  loro
    dolore. Darei la mia vita per la felicità di entrambi]  -  aggiunse.
    Bilibin  si strinse nelle spalle,  dimostrando con quel gesto che a un
    tale dolore neppur lui sapeva offrire un rimedio.
    "Une maîtresse femme!  Voilà  ce  qui  s'appelle  poser  carrément  la
    question.  Elle  voudrait épouser tous les trois à la fois" [22.  "Una
    donna in gamba! Ecco quello che si chiama prospettare con chiarezza la
    questione.  Li vorrebbe sposare tutti  e  tre  in  una  volta"]  pensò
    Bilibin.
    - Ma ditemi,  come vede la faccenda vostro marito?   -  chiese,  senza
    timore di diminuirsi,  data la sua reputazione,  con una domanda  così
    ingenua.  -  Acconsentirà?
    - "Ah!  Il m'aime tant!"  -  rispose Elen che,  chissà perché, credeva
    che Pierre l'amasse.  -  "Il fera tout pour moi" [23. Ah,  egli mi ama
    tanto! Per me farà qualsiasi cosa].
    Bilibin  increspò la fronte come per sottolineare il "mot" [24.  motto
    di spirito] che preparava.
    - "Même le divorce?" [25. Anche il divorzio?]  -  disse.
    Elen sorrise.
    Tra le persone che si permettevano  di  dubitare  della  legalità  del
    progettato  matrimonio,  vi  era  la  madre  di  Elen,  la principessa
    Kuràgina.  Ella era sempre stata gelosa della figlia e ora,  quando la
    ragione  dell'invidia  era  più  vicina  al  suo  cuore,   non  poteva
    rassegnarsi a quel pensiero.  Si era consigliata con un  prete  russo,
    domandando  sino a che punto fosse possibile un divorzio seguito da un
    nuovo matrimonio,  essendo vivo il primo marito,  e il prete le  aveva
    assicurato  che  la cosa era impossibile e,  con sua grande gioia,  le
    aveva mostrato una pagina del Vangelo  nella  quale  (così  pareva  al
    sacerdote)   era   negata  la  possibilità  di  contrarre  un  secondo
    matrimonio, mentre era in vita il primo marito.
    Armata  di  questi  argomenti,  che  le  parevano  indiscutibili,   la
    principessa  andò  da  sua  figlia  di  buon'ora  per  essere certa di
    trovarla sola.
    Dopo aver ascoltato le obiezioni della madre, Elen sorrise, dolcemente
    ironica.
    - Ma è detto chiaramente: "Colui che sposa una donna divorziata..."  -
    disse la vecchia principessa.
    - "Ah, maman, ne dites pas de bêtises. Vous ne comprenez rien. Dans ma
    position j'ai des devoirs" [26. Ah, mamma,  non dite sciocchezze.  Non
    capite  niente.  Nella  mia posizione ho dei doveri]  -  obiettò Elen,
    passando dal russo al francese, giacché, parlando russo,  le pareva di
    avvertire una certa oscurità nella sua faccenda.
    - Ma, mia cara...
    - "Ah,  maman,  comment est-ce que vous ne comprenez pas que le Saint-
    Père qui a le droit de donner des dispenses..." [27.  Ah,  mamma  come
    mai non capite che il Santo Padre, il quale ha il diritto di concedere
    dispense...].
    In  quel  momento  la  dama di compagnia,  che viveva in casa di Elen,
    venne ad avvertirla che sua  altezza  era  nel  salotto  e  desiderava
    vederla.
    -  "Non,  dites-lui  que je ne veux pas le voir,  que je suis furieuse
    contre lui,  parce qu'il m'a manqué parole" [28.  No,  ditegli che non
    voglio  vederlo,  che  sono furibonda contro di lui,  mi ha mancato di
    parola].
    - "Comtesse, à tout péché miséricorde" [29. Contessa, per ogni peccato
    c'è misericordia]  -  disse,  entrando,  un giovane biondo dal viso  e
    dal naso piuttosto lunghi.
    La  vecchia  principessa si alzò rispettosamente e fece una riverenza.
    Il giovanotto non si curò affatto di lei. La principessa salutò con un
    cenno del capo la figlia e si diresse verso la porta.
    "Ha ragione lei",  pensava la vecchia principessa,  le cui convinzioni
    erano  cadute  alla vista di sua altezza.  "Ha ragione lei;  ma perché
    noi, nella nostra giovinezza, che non tornerà più, non sapevamo queste
    cose? Eppure, nulla di più semplice!", si diceva, salendo in carrozza,
    la vecchia principessa.
    Al principio del mese di agosto  il  caso  di  Elen  fu  perfettamente
    chiarito,  ed  essa scrisse a suo marito (che,  come credeva,  l'amava
    tanto) una lettera,  con cui lo  informava  della  sua  intenzione  di
    sposare  N.   N.  e  di  avere  abbracciato  l'unica  vera  religione,
    pregandolo di compiere tutte le necessarie formalità per il  divorzio,
    di cui lo avrebbe informato il latore della lettera.
    "Sur  ce  je  prie  Dieu,  mon  ami,  de  vous avoir sous Sa sainte et
    puissante garde.  Votre amie Hélène" [30.  "Dopo di che prego  Dio  di
    tenervi  amico  mio,  sotto la Sua santa e potente protezione.  Vostra
    amica Elen"].
    Questa lettera fu portata a casa di Pierre mentre egli si trovava  sul
    campo di Borodinò.


    CAPITOLO 8.

    Quasi  verso  la  fine  della  battaglia di Borodinò,  fuggendo per la
    seconda volta dalla  batteria  Raevskij,  Pierre,  direttosi  con  una
    moltitudine  di  soldati  verso Knjàzkovo,  lungo il burrone giunse al
    posto di medicazione ma,  nel vedere tutto quel  sangue  e  nell'udire
    grida e lamenti, si affrettò a proseguire, mescolandosi alla folla dei
    soldati.
    Ciò  che  ora  Pierre  desiderava  con tutte le sue forze era di poter
    uscire al più presto da quelle  terribili  impressioni  tra  le  quali
    aveva trascorso la giornata, di tornare nella vita di ogni giorno e di
    addormentarsi tranquillamente nella sua camera, sul suo letto. Sentiva
    che   soltanto  nelle  abituali  condizioni  di  vita  avrebbe  potuto
    comprendere se stesso e tutto quello che aveva veduto  e  provato.  Ma
    tali ordinarie condizioni di vita mancavano dovunque.
    Benché  lungo  la strada che Pierre percorreva non fischiassero più né
    granate né proiettili, tutto attorno a lui era come laggiù,  sul campo
    di battaglia. Ancora volti sofferenti, tormentati e talora stranamente
    indifferenti,  ancora  sangue,  ancora gli stessi cappotti da soldato,
    ancora il tuonare delle artiglierie che,  anche se  lontano,  incuteva
    sempre terrore. Inoltre polvere e un caldo soffocante.
    Dopo aver percorso tre miglia sulla strada maestra di Mozaisk,  Pierre
    si sedette sul ciglio del fossato.
    Il crepuscolo era sceso  sulla  terra  e  il  rombo  dei  cannoni  era
    cessato. Pierre, reggendosi il capo con una mano, si sdraiò e rimase a
    lungo  così,  guardando  le ombre che si muovevano davanti a lui,  nel
    buio. Gli pareva a ogni istante che una palla di cannone gli piombasse
    addosso con un sibilo terrificante;  sussultava e si sollevava un po'.
    Non ricordò mai quanto tempo fosse rimasto lì.  A metà della notte tre
    soldati, che avevano raccolto rami secchi,  si fermarono accanto a lui
    e  si accinsero ad accendere il fuoco.  Data un'occhiata di traverso a
    Pierre,  accesero il fuoco,  vi posero sopra una marmitta nella  quale
    sbriciolarono  alcune  gallette  e  misero un pezzo di lardo.  L'odore
    gradevole di una zuppa grassa si fondeva con  quello  acre  del  fumo.
    Pierre si alzò,  sospirando. I soldati  -  erano tre  mangiavano senza
    badare a lui e discorrevano tra di loro.
    - Ma tu chi sei?   -  chiese a un tratto  uno  dei  tre  volgendosi  a
    Pierre e intendendo evidentemente,  con quella domanda,  esprimere ciò
    che anche Pierre pensava, e precisamente questo: "Se vuoi mangiare, te
    ne daremo, ma devi almeno dirci se sei un galantuomo!".
    - Io?  Io?   -  rispose Pierre,  sentendo la  necessità  di  abbassare
    quanto  più  fosse  possibile la propria condizione sociale per essere
    più vicino a quei soldati e meglio compreso da loro.   -   A  dire  il
    vero,  sono un ufficiale della milizia,  ma il mio distaccamento non è
    qui: sono giunto dove si combatteva e ho perso i miei.
    - Oh, guarda!  -  esclamò uno dei soldati.
    Un altro scosse la testa.
    - Be',  se vuoi,  puoi mangiare un po' di questo intruglio  -  rispose
    il  primo,  e  porse  a Pierre,  dopo averlo leccato,  un cucchiaio di
    legno.
    Pierre si sedette vicino al fuoco e si mise a mangiare l'intruglio che
    era nella pignatta e che gli parve il cibo più appetitoso  che  avesse
    mai assaggiato. Mentre si chinava avidamente sulla marmitta, prendendo
    grandi  cucchiaiate  che  ingollava  senza posa l'una dopo l'altra,  i
    soldati osservavano in silenzio il suo viso  illuminato  dai  riflessi
    del fuoco.
    - E ora, dove devi andare?  -  domandò di nuovo uno dei tre.
    - Vado a Mozaisk.
    - Sei un signore, dunque?
    - Sì.
    - E come ti chiami?
    - Pëtr Kirìllovic'.
    - Ebbene, Pëtr Kirìllovic', andiamo, verremo con te.
    Nella  folta  oscurità,  i  tre  soldati  e  Pierre si avviarono verso
    Mozaisk.
    Già cantavano i galli quando vi giunsero e presero a salire la  ripida
    erta  che  portava  alla  città.   Pierre  camminava  con  i  soldati,
    dimenticando completamente che il suo albergo era in basso  e  che  lo
    aveva ormai oltrepassato.  Non se ne sarebbe ricordato affatto,  tanto
    era lo stato di confusione in cui si trovava,  se a  mezza  costa  non
    avesse  incontrato  il  suo  staffiere che era già stato a cercarlo in
    città e che ora tornava indietro, all'albergo.  Lo staffiere riconobbe
    Pierre dal cappello che biancheggiava nel buio.
    -  Eccellenza,    -  prese a dire  -  eravamo già disperati.  Come mai
    andate a piedi? E dove siete diretto?
    - Ah sì!  -  rispose Pierre.
    I soldati si fermarono.
    - Dunque, hai trovato i tuoi?  -  domandò uno dei tre.
    - Allora addio, Pëtr Kirìllovic'  -  ripeterono gli altri.
    - Addio  -  rispose Pierre,  e si diresse con il suo  staffiere  verso
    l'albergo.
    "Bisogna dar loro qualcosa",  pensò,  frugandosi in tasca. "Ma no, non
    bisogna", gli disse una voce interiore.
    Nelle camere dell'albergo non c'era più posto: erano  tutte  occupate.
    Pierre andò in cortile e,  coprendosi sino alla testa, si coricò nella
    sua carrozza.


    CAPITOLO 9.

    Non appena Pierre ebbe posato la testa sul  guanciale,  sentì  che  si
    addormentava; ma di colpo, con una chiarezza quasi simile alla realtà,
    udì i "bum bum" delle cannonate,  sentì i gemiti, le grida, lo scoppio
    dei proiettili,  avvertì l'odore del sangue e  della  polvere,  e  una
    sensazione  di  terrore  e  di  paura  della morte s'impadronì di lui.
    Spaventato, aprì gli occhi e sollevò il capo di sotto il cappotto. Nel
    cortile tutto era  tranquillo:  solo  un  attendente  attraversava  il
    portone, diguazzando nel fango e discorrendo con il portiere. Sopra la
    testa  di Pierre,  sotto il buio soffitto della tettoia,  i colombi si
    agitavano,  disturbati dal rumore che egli aveva  fatto  sollevandosi.
    Tutto  attorno  era  diffuso  un  forte  odore  di locanda che in quel
    momento dava a Pierre un'impressione di quiete e di gioia.  Tra le due
    nere tettoie appariva il cielo sereno cosparso di stelle.
    "Ringrazio  Iddio  che tutto sia finito!",  pensò Pierre coprendosi di
    nuovo sino alla testa.  "Oh,  quanto  è  terribile  la  paura  e  come
    vergognosamente ho lasciato che essa mi dominasse!  Ed "essi"...  essi
    durante  tutta  la  battaglia,   sino  alla  fine  sono  stati  saldi,
    tranquilli...",  si diceva.  "Essi",  nel pensiero di Pierre,  erano i
    soldati, quelli che si trovavano alla batteria, quelli che gli avevano
    dato da mangiare e quelli che  pregavano  davanti  alla  icona.  Erano
    quella strana gente che non aveva mai conosciuto prima di allora e che
    nella sua mente erano separati,  distinti con molta chiarezza da tutti
    gli altri uomini.
    "Essere  un   soldato,   un   semplice   soldato",   pensava   Pierre,
    addormentandosi;  "entrare  con tutto me stesso in quella vita comune,
    provare profondamente i sentimenti che li rendono quelli che sono.  Ma
    come  liberarsi da tutte le superfluità,  da tutte le diavolerie,  dal
    peso dell'essere esteriore? Un tempo l'avrei potuto fare. Avrei potuto
    fuggire dalla casa di mio padre. Come volevo. Anche dopo il duello con
    Dòlochov avrei potuto andare a fare il soldato!". E l'immaginazione di
    Pierre rievocò il pranzo del circolo durante il  quale  aveva  sfidato
    Dòlochov,  e  rievocò il suo benefattore a Torgëk.  Ed ecco che con la
    fantasia Pierre  rivede  la  solenne  sala  della  Loggia  al  circolo
    inglese,  in cui ha luogo il convito.  E una persona conosciuta, cara,
    intima, siede a capo della tavola. Ma è lui, è il benefattore! "Ma non
    è morto?" si chiede Pierre. "Sì,  è morto,  ma io non sapevo che fosse
    vivo.  Quanto mi dispiace che sia morto,  e quanto sono felice che sia
    di nuovo vivo!".  A un lato della tavola sedevano Anatolij,  Dòlochov,
    Nesvitzkij,  Denissov  e  altra  gente così (nel sogno la categoria di
    quella gente era chiaramente  definita  nell'animo  di  Pierre  quanto
    quella di coloro che egli chiamava "essi");  e questa gente, Anatolij,
    Dòlochov, gridavano forte,  cantavano;  ma attraverso le loro grida si
    udiva  la  voce del benefattore,  che parlava senza sosta,  e il suono
    delle sue parole era importante e continuo come il rombo del campo  di
    battaglia,  ma  piacevole  e consolante.  Pierre non capiva ciò che il
    benefattore diceva,  ma sapeva (anche le categorie  dei  pensieri  nel
    sogno erano chiarissime) che il benefattore parlava della bontà, della
    possibilità di essere come "essi" erano,  ed "essi",  con il loro viso
    buono,  semplice,  deciso,  circondavano da ogni parte il benefattore.
    Ma,  sebbene fossero buoni, non guardavano Pierre, non lo conoscevano.
    Pierre avrebbe voluto attirare la loro attenzione e parlare.  Fece per
    alzarsi,  ma  proprio  in  quel  momento  sentì  che i piedi gli erano
    diventati freddi ed erano scoperti.  Si vergognò  e  con  le  mani  si
    ricoprì  i  piedi  che  erano  veramente  rimasti  scoperti  perché il
    cappotto era scivolato.  Per un  attimo,  accomodandosi  il  cappotto,
    Pierre aprì gli occhi e rivide la tettoia,  i pali, il cortile, ma ora
    tutto era azzurrognolo,  chiaro,  disseminato di gocce  di  rugiada  e
    luccicante di gelo.
    "Si fa giorno",  si disse Pierre. "Ma non si tratta di questo. Io devo
    sentire sino alla fine e comprendere le parole  del  benefattore".  Di
    nuovo  si  coprì con il cappotto,  ma non c'erano più né la sala della
    Loggia né il benefattore.  Rimanevano soltanto dei  pensieri  espressi
    chiaramente  da parole,  pensieri espressi da qualcuno,  nel sogno,  o
    concepiti dallo stesso Pierre.
    Più tardi,  ricordando quei pensieri,  benché fossero provocati  dalle
    impressioni della giornata,  Pierre era convinto che gli fossero stati
    suggeriti da qualcuno fuori di lui.  Gli pareva che mai  egli  sarebbe
    stato  in  grado  di  concepire  ed  esprimere  a  quel  modo i propri
    pensieri.
    "La guerra è la più difficile sottomissione della libertà degli uomini
    alle leggi di Dio", diceva quella voce.  "La semplicità è l'obbedienza
    a  Dio:  a  lui  non ci si può sottrarre.  Ed essi sono semplici.  Non
    parlano,  ma agiscono.  La  parola  pronunziata  è  d'argento,  quella
    taciuta è d'oro. L'uomo non può possedere nulla sino a quando ha paura
    della morte.  Ma a colui che non teme la morte,  tutto appartiene.  Se
    non esistessero le  sofferenze  l'uomo  non  si  riconoscerebbe  alcun
    limite,  non conoscerebbe se stesso. La cosa più difficile (continuava
    a pensare e a sentir dire Pierre nel sogno) consiste nel saper riunire
    nel proprio animo il significato di tutto.  Riunire tutto?",  si disse
    Pierre.  "No,  non  riunire;  non  è possibile riunire i pensieri,  ma
    collegarli sì, ecco ciò che occorre. Sì,  bisogna collegarli,  bisogna
    collegarli!",  si ripeteva,  pieno di entusiasmo, sentendo che proprio
    con quelle parole e solamente con quelle si poteva esprimere  ciò  che
    egli  voleva  esprimere  e si risolveva il problema che lo tormentava.
    "Sì, collegare, si deve collegare!".
    - Bisogna attaccare, eccellenza, è ora di attaccare!   -  ripeteva una
    voce.  -  Bisogna attaccare, bisogna attaccare...
    Era la voce dello staffiere che lo svegliava.  Il sole  illuminava  in
    pieno  il  viso di Pierre.  Egli guardò il cortile sudicio in mezzo al
    quale, presso il pozzo, i soldati abbeveravano i loro magri cavalli, e
    dal cui portone  stavano  uscendo  dei  carri.  Pierre  si  voltò  con
    disgusto  e,  chiudendo  gli  occhi,  si  abbandonò  sul  sedile della
    carrozza. "No, non è questo che voglio, non è questo che voglio vedere
    e capire;  voglio capire quello che mi è  stato  rivelato  durante  il
    sogno.  Ancora un minuto e avrei capito. E adesso, che cosa devo fare?
    Collegare tutto, d'accordo, ma com'è possibile?". E Pierre sentiva con
    spavento che il significato di ciò che aveva visto e pensato in  sogno
    era andato distrutto.
    Lo staffiere, il cocchiere e il padrone della locanda gli raccontarono
    che  era  giunto un ufficiale con la notizia che i Francesi marciavano
    su Mozaisk e che i nostri se ne andavano.
    Pierre si alzò e, dato ordine di fare i bagagli e di raggiungerlo,  si
    avviò a piedi attraverso la città.
    Le truppe partivano, lasciando quasi diecimila feriti.
    Questi  feriti  si  vedevano nei cortili,  alle finestre delle case si
    affollavano nelle strade,  attorno ai carri che dovevano trasportarli,
    risonavano  grida,  bestemmie  e colpi di frusta.  Pierre offrì la sua
    carrozza,  che lo  aveva  raggiunto,  a  un  generale  ferito  di  sua
    conoscenza  e  con  lui fece il viaggio sino a Mosca.  Lungo la strada
    ebbe la notizia della morte di suo cognato e di  quella  del  principe
    Andréj.


    CAPITOLO 10.

    Il  giorno  30  Pierre era di ritorno a Mosca.  A breve distanza dalla
    barriera, incontrò un aiutante di campo del conte Rastopcìn.
    - Vi stavamo cercando dappertutto  -  disse l'aiutante.   -  Il  conte
    ha assolutamente bisogno di vedervi.  Vi prega di venire subito da lui
    per una faccenda molto importante.
    Pierre,  senza neppure passare da casa,  prese una carrozza e si  recò
    dal generale in capo.
    Il  conte  Rastopcìn era tornato proprio quella mattina in città dalla
    sua villa di Sokòlniki. L'anticamera e il salotto della casa del conte
    erano pieni di funzionari da lui convocati o venuti a prendere ordini.
    Vassìlcikov (31) e Platov avevano già avuto un colloquio con il  conte
    e  gli  avevano  spiegato come fosse impossibile difendere Mosca,  che
    sarebbe  stata  abbandonata.  Benché  queste  notizie  fossero  tenute
    nascoste  agli  abitanti,  i  funzionari,  i direttori dei vari uffici
    amministrativi, sapevano già che la capitale sarebbe caduta nelle mani
    del nemico, come lo sapeva il conte Rastopcìn; e tutti,  per non avere
    responsabilità,  venivano a domandare al generale governatore che cosa
    dovessero fare circa gli uffici loro affidati.
    Nel momento in cui Pierre entrò  nella  sala  d'attesa,  un  corriere,
    giunto dal campo,  usciva dallo studio del conte. Alle domande che gli
    venivano rivolte,  agitò la mano con gesto disperato e  attraversò  la
    sala.
    Mentre  Pierre stava aspettando,  osservava con gli occhi stanchi vari
    funzionari,  giovani e vecchi,  militari e civili,  importanti o meno,
    che  si trovavano nella sala.  Parevano tutti scontenti e preoccupati.
    Pierre si avvicinò a un gruppo di funzionari,  tra i quali aveva visto
    un  suo  conoscente.  Dopo aver salutato Pierre,  essi continuarono la
    loro conversazione.
    - Mandarlo via e poi farlo tornare non sarebbe un gran  guaio;  ma  in
    una situazione simile non si può assumere alcuna responsabilità.
    - Ecco qua,  egli scrive...   -  diceva un altro,  mostrando un foglio
    stampato che teneva in mano.
    - Questa è un'altra faccenda.  Per  il  popolo  occorre  farlo...    -
    ribatteva il primo.
    - Di che si tratta?  -  domandò Pierre.
    - E' un nuovo manifesto, ecco.
    Pierre prese il foglio e cominciò a leggere:
    "Sua  altezza  serenissima,  per riunirsi il più presto possibile alle
    truppe che gli vengono incontro, ha oltrepassato Mozaisk e ha occupato
    una  solida  posizione,  dove  il  nemico  non  potrà  coglierlo  alla
    sprovvista.  Di  qui gli sono stati mandati quarantotto cannoni con le
    relative munizioni, e sua altezza serenissima dice che difenderà Mosca
    sino all'ultima goccia di sangue,  e che è pronto a  battersi  persino
    per le strade.  Voi,  fratelli, non badate se gli uffici pubblici sono
    stati chiusi; bisogna riordinare le cose e noi, con il malfattore,  ce
    la  vedremo  con  la  nostra propria giustizia!  Quando sarà giunto il
    momento opportuno, avrò bisogno di gente in gamba, della città e della
    campagna. Due giorni prima lancerò il mio appello, ma ora non occorre,
    e perciò taccio.  Sarà buona la scure,  non sarà male  servirsi  dello
    spiedo  e più utile di tutto sarà il forcone;  un soldato francese non
    pesa di più di un covone di segala. Domani, nel pomeriggio,  andrò con
    la Vergine Ivèrskaia nell'ospedale di Caterina a visitare i feriti. Là
    benediremo l'acqua, ed essi guariranno prima. Anch'io ora sto bene: mi
    doleva un occhio, ora ci vedo con tutti e due".
    -  Ma  a  me  i  militari hanno detto  -  intervenne Pierre  -  che in
    città non è possibile combattere e che la posizione...
    - Parlavamo appunto di questo...  -  disse il primo funzionario.
    - E che cosa significano le parole: "mi doleva un occhio ora  ci  vedo
    con tutti e due"?  -  domandò Pierre.
    -  Il  conte  ha  avuto  un  orzaiolo   -  spiegò l'aiutante di campo,
    sorridendo  -  e si è preoccupato  molto  quando  gli  dicevo  che  il
    popolo veniva a chiedere che cosa avesse. Ma che c'è conte?  -  chiese
    a un tratto, rivolgendosi con un sorriso a Pierre.  -  Abbiamo sentito
    dire  che  avete  dei  guai  in  famiglia,   che  la  contessa  vostra
    consorte...
    - Non ne so nulla  -  rispose Pierre con indifferenza.   -   Che  cosa
    avete sentito dire?
    -  Eh,  sapete,  spesso  s'inventano tante cose.  Io ripeto ciò che ho
    sentito...
    - E che cosa avete sentito?
    - Corre voce  -  riprese l'aiutante di campo con lo stesso  sorrisetto
    di  prima    -    che  la contessa vostra moglie si prepara per andare
    all'estero. Senza dubbio è una cosa assurda...
    - Può darsi...  -  rispose Pierre, guardandosi attorno distrattamente.
    -  Chi è quello?  -  domandò,  indicando un vecchio non molto alto che
    indossava un lindo camiciotto turchino, dalla lunga barba candida come
    la  neve,  le  sopracciglia  ugualmente  bianche  e  la  faccia  molto
    colorita.
    - Quello?  E'  un  mercante,  o  meglio,  è  il  proprietario  di  una
    trattoria: è Veresciagin (32).  Avete probabilmente sentito parlare di
    quella storia del proclama...
    - Ah, è Veresciagin!   -  esclamò Pierre,  fissando il viso risoluto e
    tranquillo   del  vecchio  mercante  e  cercando  in  quei  lineamenti
    l'espressione del tradimento.
    - No,  non è proprio lui.  E' il padre di quello  che  ha  scritto  il
    proclama  -  precisò l'aiutante di campo.   -  L'altro,  il giovane, è
    in prigione e pare che le cose non si mettano troppo bene per lui.
    Un vecchietto, con una decorazione a forma di stella,  e un altro,  un
    funzionario tedesco con una croce al collo,  si avvicinarono al gruppo
    che conversava.
    - Vedete,   -  riprese l'aiutante  -  si tratta di  una  storia  molto
    complicata.  Il  proclama  in questione comparve due mesi or sono.  Fu
    portato al  conte.  Egli  ordinò  un'inchiesta,  condotta  da  Gavrilo
    Ivanyc':  quel  proclama era passato esattamente per sessantatré mani.
    Interrogava uno e: "Voi da chi l'avete avuto?". "Dal tal dei tali".  E
    lui  andava  da  quel  tale:  "Voi  da  chi  l'avete avuto?" e così di
    seguito.  Si arrivò sino a Veresciagin...  un mercantuzzo senza alcuna
    istruzione,  sapete,  un mercantuzzo proprio sempliciotto...  -  disse
    sorridendo l'aiutante di campo.   -  Gli chiedono: "Tu  da  chi  l'hai
    avuto?".  E il bello è che noi sapevamo già da chi l'aveva avuto.  Non
    poteva averlo avuto che dal direttore delle poste.  Ma evidentemente i
    due  erano  d'accordo.  Rispose:  "Da nessuno,  l'ho composto io".  Fu
    pregato,  minacciato,  ma  egli  rimase  fermo  nella  risposta:  l'ho
    composto io. Così fu riferito al conte. Il conte lo fece chiamare. "Da
    chi hai avuto il proclama?". "L'ho composto io". Be', voi conoscete il
    conte...  -  disse con un fiero e allegro sorriso l'aiutante di campo.
    -  Andò su tutte le furie.  Diamine! Di fronte a tanta sfrontatezza, a
    tanta ostinazione nel mentire!
    - Ah,  al conte occorreva che  denunziasse  Kljuciarëv,  capisco!    -
    disse Pierre.
    -  Niente affatto  -  esclamò l'aiutante di campo con aria spaventata.
    -  Kljuciarëv era colpevole anche senza quel proclama e perciò è stato
    deportato.  Ma il fatto è che il conte era indignatissimo.  "Come  hai
    potuto  comporlo?" Prese dal tavolo la "Gazzetta di Amburgo".  "Eccolo
    qui.  Tu non l'hai composto ma tradotto,  e tradotto malissimo  perché
    tu,  imbecille, il francese non lo sai". Lo credereste? "No", ribatté,
    "io non l'ho letto su alcun giornale,  l'ho composto proprio io".  "Se
    le  cose  stanno  così,  sei  un  traditore:  ti trascinerò davanti al
    tribunale e sarai impiccato. Parla, dunque: da chi l'hai avuto?". "Non
    ho visto alcun giornale e l'ho composto io". E la cosa rimase così. Il
    conte fece  chiamare  il  padre,  ma  lui,  imperterrito...  E'  stato
    deferito al tribunale e condannato, mi pare, ai lavori forzati. Ora il
    vecchio  è  venuto  a  intercedere  per  il  figlio.  Ma  che  cattivo
    ragazzaccio!  Proprio,  sapete,  un miserabile figlio di mercanti,  un
    bellimbusto, un seduttore: ha frequentato chissà dove qualche lezione,
    e  ora  crede di saperne una più del diavolo.  Vedete un po' che roba!
    Suo padre ha una trattoria qui al ponte Kamenni e dentro,  sapete,  ci
    tiene  una  grande immagine di Dio Signore dell'universo che ha in una
    mano lo  scettro  e  nell'altra  il  globo.  Egli  ha  preso  in  casa
    quell'icona  per  qualche  giorno e cosa non ha fatto?  Ha trovato una
    canaglia di pittore che...


    CAPITOLO 11.

    Nel bel mezzo di questo racconto,  Pierre  fu  chiamato  dal  generale
    governatore.
    Entrò nello studio del conte Rastopcìn che in quel momento, corrugando
    le sopracciglia, si stropicciava con le mani la fronte e gli occhi. Un
    uomo  di  non  alta statura gli stava dicendo qualcosa ma,  non appena
    entrò Pierre, si interruppe e uscì.
    - Ah, salve,  grande guerriero!   -  disse Rastopcìn,  non appena quel
    tale  se  ne  fu  andato.    -    Abbiamo sentito parlare delle vostre
    "prouesses" [33.  prodezze].  Ma non si tratta di questo.  "Mon  cher,
    entre  nous",  siete  massone?   -  domandò il conte Rastopcìn in tono
    severo, come se si trattasse di qualcosa di grave,  che tuttavia fosse
    già disposto a perdonare.  Pierre taceva.   -  "Mon cher, je suis bien
    informé" [34.  Mio caro,  detto tra noi.  (...) Mio  caro,  sono  bene
    informato],  ma so che ci sono massoni e massoni,  e spero che voi non
    siate di quelli che,  con il pretesto  di  salvare  il  genere  umano,
    vogliono la rovina della Russia.
    - Sì, sono massone  -  rispose Pierre.
    -  Vedete  dunque,  mio  caro.  Credo  che  voi sappiate che i signori
    Speranskij e Magnitzkij sono stati mandati dove si doveva mandarli; lo
    stesso è accaduto con il signor Kljuciarëv e lo stesso con altri  che,
    con  la  scusa  di  costruire  il  tempio  di  Salomone,   cercano  di
    distruggere il tempio della loro patria. Dovete capire che ho avuto le
    mie buone ragioni e che non avrei fatto deportare il  direttore  delle
    poste  se  non  fosse  stato un uomo pericoloso.  So che voi gli avete
    mandato la vostra carrozza per partire dalla  città  e  so  anche  che
    avete avuto da lui certe carte in custodia.  Io vi voglio bene, non vi
    desidero alcun guaio e,  poiché siete due volte più giovane di me,  vi
    consiglio,  come  farebbe un padre,  di interrompere ogni rapporto con
    quella gente e di partire di qui il più presto possibile.
    - Ma di che cosa è colpevole Kljuciarëv, conte  -  domandò Pierre.
    - Saperlo è compito mio,  e non tocca a voi interrogarmi    -    gridò
    Rastopcìn.
    - Se lo si accusa di aver diffuso i proclami di Napoleone, la cosa non
    è  provata    -  disse Pierre,  senza guardare Rastopcìn  e,  quanto a
    Veresciagin...
    - "Nous y voilà" [35.  Eccoci!]  -  gridò ancora più forte  Rastopcìn,
    aggrottando  il  viso  e  interrompendo  Pierre.   -  Veresciagin è un
    infame traditore che riceverà il castigo che merita  -   proseguì  con
    quella  foga  irosa  con  la quale parlano gli uomini quando ricordano
    un'offesa.   -  Io,  però,  non vi ho chiamato per  criticare  le  mie
    azioni, ma per darvi un consiglio o, se preferite, un ordine. Vi prego
    di  troncare  ogni relazione con gente come Kljuciarëv e di partirvene
    di qui.  Saprò ben io levare i grilli dal capo di chi ne ha!   -    E,
    accorgendosi  probabilmente  che  stava quasi urlando contro Bezuchov,
    che  non  era  ancora  colpevole  di  nulla,   aggiunse,   prendendolo
    amichevolmente per una mano:  - "Nous sommes à la veille d'un désastre
    public,  et  je n'ai pas le temps de dire des gentillesses à tous ceux
    qui ont affaire à moi". A volte mi gira la testa! "Eh bien,  mon cher,
    qu'est-ce  que  vous  faites,  vous personnellement?" [36.  Siamo alla
    vigilia di una calamità pubblica,  non ho tempo  di  dire  cortesie  a
    tutti quelli che hanno a che fare con me.  (...) Ebbene, mio caro, che
    cosa fate voi, personalmente?].
    - "Mais rien" [37.  Ma niente]  -  rispose Pierre,  continuando a  non
    alzare gli occhi e senza mutare l'espressione pensierosa del viso.
    Il conte si accigliò.
    - "Un conseil d'ami,  mon cher.  Décampez et au plutôt,  c'est tout ce
    que je vous dis. A bon entendeur, salut!  [38.  Un consiglio da amico,
    mio caro.  Sloggiate al più presto,  è tutto quel che vi dico.  A buon
    intenditore,  poche parole!].  Addio,  mio caro.  Ah,  a proposito   -
    gridò  ancora  a  Pierre,  mentre  questi  usciva.   -  E' vero che la
    contessa è caduta tra le grinfie "des saints pères de  la  Société  de
    Jésus?" [39. dei santi padri della Compagnia di Gesù?].
    Pierre  non rispose e,  accigliato e adirato come nessuno lo aveva mai
    veduto, uscì dallo studio di Rastopcìn.

    Quando giunse a  casa,  cominciava  a  farsi  buio.  Otto  persone  di
    condizione  diversa  lo aspettavano: il segretario di un Comitato,  il
    colonnello del suo battaglione, il suo amministratore,  il maggiordomo
    e alcuni postulanti. Tutti erano venuti da Pierre per certi affari sui
    quali egli doveva decidere.  Affari di cui Pierre non capiva nulla, di
    cui non si interessava,  e a ogni domanda rispondeva soltanto in  modo
    da  sbarazzarsi  di  tutta  quella  gente.  Finalmente,  rimasto solo,
    dissuggellò e lesse la lettera della moglie.
    "Essi,  i soldati della batteria,  il  principe  Andréj  ucciso,  quel
    vecchio... La semplicità è la sottomissione a Dio. Si deve soffrire...
    collegare è il significato di tutto...  mia moglie si sposa... Occorre
    dimenticare e comprendere...". E, avvicinandosi al letto, vi si lasciò
    cadere senza neppure spogliarsi e immediatamente si addormentò.
    Quando  la  mattina  seguente  si  svegliò,  il  maggiordomo  entrò  a
    riferirgli  che  un funzionario di polizia,  mandato espressamente dal
    conte Rastopcìn,  era venuto per informarsi se il conte Bezuchov fosse
    in casa.
    Una  diecina  di  persone,  che avevano da trattare affari con Pierre,
    attendevano in salotto.  Pierre si  vestì  rapidamente  e,  invece  di
    andare  da quelli che lo aspettavano,  scese dalla scala di servizio e
    raggiunse il portone.
    Da quel giorno,  e sino alla fine della distruzione di Mosca,  nessuno
    dei  familiari  di  casa Bezuchov,  nonostante ogni ricerca,  vide più
    Pierre e nessuno seppe dove egli si trovasse.


    CAPITOLO 12.

    Sino al primo settembre,  ossia sino alla  vigilia  dell'ingresso  del
    nemico in Mosca, i Rostòv rimasero in città.
    Da  quando  Pétja,  entrato  nel  reggimento dei cosacchi del principe
    Obolenskij,  era partito per Bélaja Tzèrkov,  dove quel reggimento  si
    formava,  la  contessa viveva nella paura.  Il pensiero che i suoi due
    figliuoli fossero alla guerra,  usciti  ormai  da  sotto  le  sue  ali
    protettrici, il pensiero che un giorno o l'altro uno dei due o tutti e
    due  potessero essere uccisi,  come i tre figli di una sua conoscente,
    le si era affacciato alla mente per la prima volta in quell'estate con
    crudele chiarezza.  Aveva tentato  di  far  tornare  Nikolàj,  avrebbe
    voluto andare lei stessa da Pétja,  farlo destinare in qualche posto a
    Pietroburgo,  ma l'una e l'altra cosa  erano  impossibili.  Pétja  non
    poteva tornare se non insieme con il suo reggimento,  oppure per mezzo
    del trasferimento in un altro reggimento operante;  Nikolàj si trovava
    chissà  dove  e,  dopo  l'ultima  lettera  in cui descriveva con molti
    particolari il suo incontro con la principessina Màrija, non aveva più
    dato notizie di sé. La contessa non dormiva più e, quando si assopiva,
    vedeva in sogno i suoi figli  uccisi.  Dopo  molti  progetti  e  molte
    trattative, il conte trovò finalmente il modo per calmare la contessa.
    Fece  passare Pétja dal reggimento di Obolenskij a quello di Bezuchov,
    che si veniva formando nei pressi  di  Mosca.  Pétja  sarebbe  rimasto
    ugualmente  in  servizio,  ma con quel trasferimento la contessa aveva
    almeno il conforto di avere uno dei suoi figli sotto l'ala  materna  e
    la  speranza  di poter riuscire a sistemare Pétja in modo da non farlo
    più andar via e destinarlo sempre in posti tali che  non  dovesse  mai
    partecipare  ad  alcuna battaglia.  Sino a che in pericolo era il solo
    Nikolàj,  alla contessa era parso (e di questo si pentiva) di amare il
    maggiore  più  di tutti gli altri figli;  ma quando il minore,  quello
    scavezzacollo che non aveva voglia di studiare,  che in  casa  rompeva
    tutto e infastidiva tutti, quel Pétja dal naso camuso, i ridenti occhi
    neri, la faccia fresca e colorita coperta appena da una lieve peluria,
    era  capitato  presso  quegli  uomini adulti,  terribili e crudeli che
    combattevano laggiù,  trovando nella battaglia  qualcosa  di  gioioso,
    allora  parve  alla madre di amarlo di più,  molto di più di tutti gli
    altri figli.  Ora,  quanto più si avvicinava il giorno  in  cui  Pétja
    tanto  atteso doveva ritornare a Mosca,  l'inquietudine della contessa
    andava aumentando.  Pensava già che quella felicità  non  sarebbe  mai
    giunta,  e  la  presenza,  non  solo  di Sònja ma della sua prediletta
    Natascia e persino quella del marito, la irritavano.
    "Che mi importa di loro...  io non ho bisogno di nessuno,  fuorché  di
    Pétja!", si diceva.
    Negli  ultimi  giorni  di  agosto,  i  Rostòv  ricevettero una seconda
    lettera da Nikolàj.  Egli scriveva dal governatorato di Voronèz,  dove
    era  stato  mandato  a requisire cavalli.  Quella lettera non calmò la
    contessa.  Sapendo uno dei figli fuori di pericolo,  ella  cominciò  a
    essere più che mai inquieta per Pétja.
    Benché,  sin  dal  20  agosto,  quasi  tutti  i  conoscenti dei Rostòv
    avessero lasciato Mosca,  e benché tutti  pregassero  la  contessa  di
    partire  il  più  presto possibile,  essa non voleva sentir parlare di
    andar via sino a quando non fosse tornato  il  suo  tesoro,  l'adorato
    Pétja.   Il   28  agosto  Pétja  arrivò.   La  tenerezza  morbosamente
    appassionata,  con cui la madre lo accolse,  non piacque al  sedicenne
    ufficialetto. Per quanto la contessa gli tenesse nascosta l'intenzione
    di  non lasciarlo più sfuggire alla sua ala materna,  Pétja indovinò i
    progetti di lei e, temendo istintivamente di lasciarsi intenerire,  di
    effeminarsi (come si diceva), si comportò con la madre freddamente, la
    sfuggì   e,   durante   la  sua  permanenza  a  Mosca,   rimase  quasi
    esclusivamente in compagnia di Natascia,  per la  quale  aveva  sempre
    nutrito una particolare, quasi amorosa tenerezza fraterna.
    Data  l'abituale  spensieratezza  del  conte,  il  28 agosto nulla era
    ancora pronto per la partenza,  e i carri che si aspettavano da Rjazàn
    e  dalla  proprietà  vicino a Mosca per il trasporto di tutti i mobili
    della casa, giunsero soltanto il giorno 30.
    Dal 28 al 31 agosto,  tutta Mosca fu in movimento  e  in  preparativi:
    ogni  giorno,  dalla  barriera di Dorogomìlovo,  arrivavano e venivano
    smistati a Mosca migliaia di feriti  della  battaglia  di  Borodinò  e
    migliaia di carri,  carichi di abitanti e di masserizie uscivano dalle
    altre   barriere.    Malgrado   i   manifesti    di    Rastopcìn,    o
    indipendentemente,   o   in  conseguenza  di  essi,   le  notizie  più
    contraddittorie e più strane si diffondevano per la città.  C'era  chi
    diceva  che  non  era stato ordinato a nessuno di partire;  c'era chi,
    invece, sosteneva che si erano tolte tutte le icone dalle chiese e che
    tutti gli abitanti sarebbero stati costretti ad andarsene;  c'era  poi
    chi  assicurava  che,  dopo Borodinò,  era avvenuta un'altra battaglia
    nella quale i Francesi erano stati sconfitti; c'era chi, al contrario,
    riferiva che tutto l'esercito russo era annientato, chi assicurava che
    la milizia moscovita sarebbe andata con il clero in testa, a difendere
    le Tre Montagne e c'era, infine, chi sussurrava in gran segreto che al
    metropolita era stato ordinato di non lasciare la  città,  che  alcuni
    traditori  erano  stati  presi,  che  i  contadini  si  ribellavano  e
    rapinavano coloro che uscivano dalla capitale,  eccetera eccetera.  Ma
    erano  soltanto  dicerie  e  in  realtà,  sia quelli che partivano sia
    quelli che  restavano  (quantunque  non  si  fosse  ancora  tenuto  il
    Consiglio  di  Fili  durante il quale fu deciso di abbandonare Mosca),
    sentivano, anche se non lo dimostravano, che Mosca sarebbe stata senza
    dubbio abbandonata e che era necessario  affrettarsi  a  partire  e  a
    salvare  i  propri  beni.  Tutti  avevano  la sensazione che ogni cosa
    dovesse precipitare all'improvviso ma, sino al primo settembre,  nulla
    ancora era cambiato.  Come il condannato portato al supplizio,  che sa
    di dover tra poco morire ma che tuttavia si guarda ancora attorno e si
    accomoda sul capo il  berretto  mal  calzato,  così  Mosca  continuava
    inconsciamente a vivere la solita vita,  pur sapendo che era vicino il
    momento della rovina,  il momento in cui sarebbero state  spezzate  le
    abituali condizioni di vita, alle quali si è avvezzi a soggiacere.
    Durante  i  tre  giorni  che  precedettero l'occupazione di Mosca,  la
    famiglia Rostòv si occupò attivamente di varie faccende domestiche. Il
    capo famiglia, il conte Iljà Andreic',  correva incessantemente per la
    città, dove raccoglieva le voci correnti, e per la casa dove impartiva
    ordini superficiali e affrettati per i preparativi della partenza.
    La  contessa  sorvegliava  l'imballaggio della roba;  era scontenta di
    tutto e seguiva Pétja che continuava a sfuggirla,  gelosa di  Natascia
    con  la  quale  egli  passava  tutto  il suo tempo.  Soltanto Sònja si
    occupava del lato pratico dei preparativi e della  sistemazione  delle
    cose.  Ma in quegli ultimi tempi era anch'essa taciturna e triste.  La
    lettera di Nikolàj,  nella  quale  egli  parlava  della  principessina
    Màrija,  aveva suscitato,  in presenza di lei, certe liete riflessioni
    da parte della contessa, la quale scorgeva in quell'incontro il volere
    di Dio.
    - Non ho mai provato molta gioia,   -  aveva detto la contessa  quando
    Bolkonskij era fidanzato con Natascia,  ma ho sempre desiderato,  e ne
    ho il presentimento, che Nikolàj sposasse la principessina.  Che bella
    cosa sarebbe!
    Sònja  sentiva  che  questa era la verità,  che l'unica possibilità di
    riassestare le finanze dei Rostòv era il matrimonio con una  fanciulla
    ricca  e  che  la  principessina  rappresentava un ottimo partito.  Ma
    questo la riempiva di amarezza.  Nonostante il  suo  dolore,  e  forse
    proprio  in  conseguenza  di esso,  la fanciulla si addossava tutte le
    difficoltà del trasloco,  della sistemazione  degli  oggetti,  ed  era
    occupata  l'intera  giornata.  Il conte e la contessa si rivolgevano a
    lei quando occorreva dare qualche ordine.  Pétja e  Natascia,  invece,
    non  solo  non  aiutavano i genitori,  ma per lo più davano fastidio e
    impaccio a quelli che lavoravano e per tutto il giorno,  o  quasi,  la
    casa  risonava delle loro corse,  delle loro grida e delle loro risate
    senza motivo. Ridevano e si rallegravano non perché avessero motivo di
    farlo,  ma perché il loro animo era colmo di  gioia  e  di  gaiezza  e
    perciò  tutto  quello che accadeva offriva loro lo spunto per ridere e
    per  essere  allegri.  Pétja  era  allegro  perché,   uscito  di  casa
    fanciullo,  vi  era  tornato  (come  tutti  gli dicevano) uomo fatto e
    valoroso;  era allegro perché si trovava  a  casa,  perché  da  Bélaja
    Tzèrkov, dove non c'era speranza di battersi, era venuto a Mosca dove,
    da un giorno all'altro,  si sarebbe combattuto;  e,  soprattutto,  era
    allegro perché era allegra  Natascia,  di  cui  aveva  sempre  seguito
    l'umore.  E  Natascia,  dal  canto suo,  era allegra perché per troppo
    tempo era stata triste e perché ora nulla più le ricordava la causa di
    quella tristezza.  Era allegra anche  perché  c'era  una  persona  che
    l'ammirava  (l'ammirazione  degli altri era l'olio indispensabile alle
    ruote della sua macchina per farla muovere del tutto  liberamente),  e
    Pétja,  appunto,  l'ammirava. Ma, soprattutto, erano allegri perché la
    guerra si avvicinava a Mosca,  perché si  stava  per  combattere  alle
    barriere,  perché  si  distribuivano le armi,  perché tutti fuggivano,
    andavano  chissà  dove,   perché,   insomma,   avveniva  qualcosa   di
    straordinario  e  di  insolito,  il  che è sempre motivo di gioia e di
    letizia per gli uomini, soprattutto per i giovani.


    CAPITOLO 13.

    Sabato, 31 agosto, in casa Rostòv tutto era sottosopra. Le porte erano
    spalancate,  tutti i mobili portati fuori o spostati,  gli specchi e i
    quadri  staccati dalle pareti.  Le stanze erano ingombre di bauli,  di
    fieno, di carta da imballaggio e di corde.  I contadini e i domestici,
    che portavano fuori la roba, camminavano pesantemente sui pavimenti di
    legno.  Il cortile era pieno di carri da contadini, alcuni già carichi
    e legati, altri ancora vuoti.
    Le voci e i passi dei numerosi domestici e dei contadini giunti con  i
    carri risonavano da tutte le parti,  in casa e fuori. Il conte sin dal
    mattino era uscito ed era andato chissà dove. La contessa,  alla quale
    il  rumore  e  la  confusione  avevano  fatto venire mal di capo,  era
    sdraiata nella nuova sala dei divani,  con compresse  di  aceto  sulla
    fronte. Pétja non era in casa (si era recato da un amico, con il quale
    aveva  intenzione  di  passare  dalla milizia nell'esercito operante);
    Sònja assisteva in sala all'imballaggio  della  cristalleria  e  delle
    porcellane;  Natascia  era  seduta  sul pavimento della sua camera tra
    vestiti, nastri, sciarpe,  buttati qua e là alla rinfusa e,  immobile,
    con  lo sguardo fisso a terra,  teneva tra le mani un vecchio abito da
    ballo,  quello stesso (ormai passato di moda) che aveva indossato  per
    andare la prima volta a un ballo a Pietroburgo.
    La  fanciulla  si  vergognava di non aiutare in casa,  mentre tutti si
    davano da fare, e parecchie volte, sin dalla mattina,  aveva provato a
    occuparsi  di qualche cosa;  ma la sua anima era assente,  ed ella non
    poteva e non riusciva a concludere qualche cosa senza  metterci  tutta
    l'anima  e tutte le sue forze.  Era rimasta un po' attorno a Sònja che
    riponeva le porcellane,  voleva aiutarla,  ma aveva smesso subito e si
    era  ritirata in camera sua per sistemare la sua roba.  Sulle prime si
    era divertita a distribuire vesti e  nastri  alle  cameriere  ma  poi,
    quando  si  era  trattato  di mettere a posto quello che restava,  era
    stata vinta dalla noia.
    - Dunjascia, pensaci tu, cara, a riporre la roba. Sì? Sì?
    E quando Dunjascia le promise che avrebbe volentieri fatto tutto  lei,
    Natascia si sedette sul pavimento,  prese tra le mani il vecchio abito
    da ballo pensando a cose ben diverse  da  quelle  di  cui  si  sarebbe
    dovuta occupare.  Dalle riflessioni in cui era immersa, la trassero il
    chiacchierio delle domestiche dalla stanza della servitù e  il  rumore
    dei  loro  passi  frettolosi  da quella stanza alla scala di servizio.
    Natascia si alzò, guardò dalla finestra. Un enorme convoglio di feriti
    si era fermato sulla strada. I domestici, le cameriere, la governante,
    il cuoco, i cocchieri, i postiglioni, gli sguatteri, stavano affollati
    sul portone a guardarli.
    Natascia si  pose  in  fretta  un  fazzoletto  bianco  sui  capelli  e
    tenendolo per le cocche con entrambe le mani, uscì sulla strada.
    La ex dispensiera,  la vecchia Mavra Kuzmìnisna,  si staccò dal gruppo
    che si accalcava al portone e,  avvicinatasi a un carro,  sul quale si
    alzava  una specie di tenda fatta di stuoie,  si mise a discorrere con
    un giovane,  pallido ufficiale che giaceva nel carro.  Natascia  mosse
    alcuni passi avanti,  poi si fermò intimidita, continuando a tenere il
    fazzoletto  per  le  cocche  e  ascoltando  ciò  che  diceva   la   ex
    dispensiera.
    - Dunque,  non avete nessuno qui a Mosca?  -  diceva Mavra Kuzmìnisna.
    -  Certo stareste più tranquillo in una casa, presso dei privati... Da
    noi, per esempio. I padroni partono...
    - Non so se mi si permetterebbe  -  disse l'ufficiale con voce debole.
    -  Ecco il comandante...  domandateglielo   -    e  indicò  un  grosso
    maggiore  che  ritornava  dal fondo della strada,  lungo la fila delle
    carrette.
    Natascia guardò con occhi spauriti il  viso  dell'ufficiale  ferito  e
    andò subito incontro al maggiore.
    - Potrebbero i feriti fermarsi nella nostra casa?  -  domandò.
    Il maggiore, sorridendo, portò la mano alla visiera.
    - Quale dei feriti vorreste, "mademoiselle"?  -  rispose, socchiudendo
    gli occhi e sorridendo.
    Natascia  ripeté  tranquillamente  la  domanda:  il  suo viso e il suo
    contegno erano così seri,  benché continuasse a tenere  il  fazzoletto
    per le cocche, che il maggiore smise di sorridere; prima rifletté come
    se  si  domandasse  sino  a qual punto la cosa fosse possibile,  e poi
    rispose affermativamente.
    - Certo! Perché no?  -  disse.
    Natascia fece un lieve cenno di saluto con il capo e  a  passi  rapidi
    tornò  da  Mavra  Kuzmìnisna,  che  stava  china  sull'ufficiale e gli
    parlava con una simpatia piena di compassione.
    - Si può, ha detto che si può!  -  mormorò Natascia.
    La carrozza dell'ufficiale entrò nel cortile dei Rostòv,  e diecine di
    altri carri pieni di feriti,  per invito dei cittadini, cominciarono a
    entrare nei cortili e ad avvicinarsi agli ingressi delle case  di  via
    Povàrskaja.  A  Natascia  erano evidentemente piaciuti questi rapporti
    con gente nuova,  fuori delle solite condizioni di vita.  Insieme  con
    Mavra  Kuzmìnisna  cercò  di far entrare nel cortile il maggior numero
    possibile di feriti.  -  Bisogna però informare il babbo!  -  disse la
    vecchia Mavra.
    - No,  no,  è inutile.  Per un giorno passeremo nel  salone.  Possiamo
    cedere loro tutto il nostro appartamento.
    -  Signorina,  ma  che  andate  pensando?  Anche  se  si trattasse del
    padiglione,  della camera  disabitata,  di  quella  della  governante,
    bisognerebbe ugualmente chiedergli il permesso.
    - Be', glielo domanderò io...
    Natascia  corse  in  casa  e  in  punta di piedi entrò nel salotto dei
    divani, dal quale, attraverso l'uscio socchiuso, veniva odore di aceto
    e di gocce di Hoffmann.
    - Mamma, dormite?
    - Ah, che sogno!  -  esclamò la contessa, che si era appena assopita.
    - Mamma cara,   -  continuò Natascia,  mettendosi in ginocchio davanti
    alla madre e avvicinando il suo viso a quello di lei.   Perdonatemi di
    avervi svegliata, non lo farò mai più. Mi ha mandata Mavra Kuzmìnisna:
    hanno portato qui tanti feriti, degli ufficiali. Voi permettete, vero?
    Non si sa dove metterli;  io sono certa che permetterete...   -  disse
    in fretta, senza prender fiato.
    - Quali ufficiali?  Chi li ha condotti? Non capisco niente  -  rispose
    la contessa.
    Natascia si mise a ridere, e anche la contessa sorrise debolmente.
    - Sapevo che avreste dato il permesso...  Allora lo vado a dire.-    E
    Natascia, baciata la madre, si alzò e si avviò verso l'uscio.
    Nella  sala  incontrò  suo  padre che ritornava a casa portando tristi
    notizie.
    - Ci siamo trattenuti troppo!  -   disse  il  conte  con  involontaria
    stizza.  -  Anche il circolo è chiuso, e la polizia se ne va.
    - Papà, non ti dispiace, vero, che io abbia fatto venire dei feriti in
    casa?  -  gli domandò Natascia.
    -  Si  capisce  che  non mi dispiace...   -  rispose distrattamente il
    conte.   -  Ma non è di questo che si tratta:  ora  vi  prego  di  non
    occuparvi  più  di  sciocchezze,  ma  di aiutare a imballare tutto per
    partire domani.   -  E il conte diede gli stessi ordini al maggiordomo
    e  ai  domestici.  Durante  il  pranzo  tornò  Pétja,  che portò altre
    notizie.
    Disse che quel giorno il popolo era  andato  a  prendere  le  armi  al
    Cremlino  e  che,  sebbene  nel manifesto di Rastopcìn fosse detto che
    egli avrebbe chiamato alle armi due giorni  prima,  era  tuttavia  già
    stato  dato l'ordine affinché l'indomani il popolo salisse armato alle
    Tre Montagne, dove ci sarebbe stata una grande battaglia.
    La contessa guardava, timida e spaventata, il viso allegro e accaldato
    del figliuolo,  mentre riferiva altre notizie.  Ella  sapeva  che,  se
    avesse  detto  una  sola parola per pregare Pétja di non partecipare a
    quella battaglia (sapeva che il figlio  si  rallegrava  dell'imminente
    combattimento),  egli  avrebbe  obiettato  con  qualcosa sugli uomini,
    sull'onore,  sulla patria,  su  qualcosa  di  così  assurdo,  di  così
    ostinato  che  non  gli  si  sarebbe  potuto ribattere nulla,  e tutto
    sarebbe stato rovinato; perciò,  sperando di poter sistemare ogni cosa
    per  partire prima dell'avvenimento annunziato e di prendere Pétja con
    sé, come difensore e protettore, non disse nulla al figlio;  tuttavia,
    dopo  il  pranzo,  chiamò  il conte e,  con le lacrime agli occhi,  lo
    supplicò di condurla via al più presto, quella notte stessa,  se fosse
    stato possibile.  Con la femminile istintiva astuzia dell'amore, essa,
    che sino a quel  momento  aveva  dimostrato  un'assoluta  mancanza  di
    paura,  disse  che  sarebbe  morta  di spavento se non fossero partiti
    quella notte stessa. Ora, senza fingere, aveva davvero paura di tutto.


    CAPITOLO 14.

    "Madame" Schoss,  che era andata a trovare  sua  figlia,  accrebbe  la
    paura   della  contessa  raccontando  ciò  che  aveva  veduto  in  via
    Mjasnìtzkaja, in uno spaccio di liquori. Ritornando per quella strada,
    non era potuta passare perché vi si pigiava una folla di ubriachi  che
    urlava davanti allo spaccio. Aveva dovuto prendere una carrozza ed era
    tornata  a  casa  percorrendo  un  vicolo;  e  il  vetturino  le aveva
    raccontato che il popolo aveva sfondato  le  botti,  perché  così  era
    stato ordinato.
    Dopo  pranzo,  tutti  in  casa  Rostòv  si  diedero  con  entusiasmo a
    imballare la roba e a prepararsi  alla  partenza.  Il  vecchio  conte,
    mettendosi improvvisamente al lavoro, passava senza interruzione dalla
    casa  al cortile e viceversa,  rimproverando senza criterio la servitù
    che non si affrettava  abbastanza  e  incitandola  a  far  sempre  più
    presto.  Pétja dava disposizioni in cortile.  Sònja non sapeva più che
    fare,  tra  gli  ordini  contraddittori  del  conte,   e  si  smarriva
    completamente.  I  servitori  gridando,  discutendo  e facendo un gran
    chiasso, correvano attraverso le stanze e nel cortile. Anche Natascia,
    con la passione che sempre metteva in qualsiasi cosa, si era data a un
    tratto al lavoro.  Da  principio,  il  suo  intervento  nell'opera  di
    imballaggio  fu  accolto  con  una  certa diffidenza.  Da lei tutti si
    aspettavano sempre qualche scherzo e non le davano  ascolto  ma  essa,
    con ardore e con ostinazione,  esigeva obbedienza,  si irritava, e per
    poco non piangeva perché nessuno le dava retta,  ma finalmente ottenne
    di essere creduta.  La sua prima impresa, che le costò grandi sforzi e
    le conferì autorità,  fu l'imballaggio dei tappeti.  In casa del conte
    vi erano preziosi tappeti persiani e "gobelins" (40) di grande valore.
    Quando  Natascia  intraprese quel lavoro,  nella sala si trovavano due
    casse aperte: una,  piena sino  all'orlo  di  porcellane,  l'altra  di
    tappeti.  Molte  porcellane  erano  ancora posate sulle tavole,  altre
    venivano portate dalla dispensa.  Bisognava  pensare  a  riempire  una
    nuova, terza cassa, che i domestici erano andati a prendere.
    - Sònja, aspetta, riporremo tutto così...  -  disse Natascia.
    -  Impossibile,  signorina,  abbiamo  già  provato    -    osservò  il
    credenziere.
    - No,  aspetta,  per favore  -  e  Natascia  cominciò  a  tirar  fuori
    rapidamente  dall'altra  cassa  le  stoviglie e i piatti avvolti nella
    carta.
    - I piatti grandi vanno messi qui, tra i tappeti  -  disse.
    - Voglia Iddio che per i  soli  tappeti  bastino  tre  casse-disse  il
    credenziere.
    - Aspetta ti prego.   -  E Natascia, con abilità e rapidità, si mise a
    disfare le casse.   -  Questa roba non ha molta importanza-  diceva di
    certi piatti di Kiev.   -  Questa,  invece,  sì; questa va messa tra i
    tappeti  -  e si riferiva ai piatti di Sassonia.
    - Ma smettila, Natascia, ora basta,  ci penseremo noi  -  diceva Sònja
    in tono di rimprovero.
    - Eh,  signorina  -  faceva eco anche il maggiordomo.  Ma Natascia non
    cedette, vuotò la cassa da cima a fondo e ricominciò a riporre da capo
    ogni cosa,  decidendo che era inutile portar via  i  tappeti  di  meno
    valore o malandati e le stoviglie superflue. Quando tutto fu tolto, si
    ricominciò  a  riempire  le casse.  Ed effettivamente,  lasciato fuori
    quasi tutto ciò che non metteva conto di portar via,  gli  oggetti  di
    valore  trovarono posto in due casse.  Però il coperchio di quella che
    conteneva i tappeti non si chiudeva.  Bisognava togliere qualche cosa,
    ma Natascia insisteva.  Riponeva,  toglieva,  disponeva altrimenti gli
    oggetti, costringeva il credenziere e Pétja,  che aveva trascinato con
    sé  in  quel  lavoro di imballaggio,  a premere sul coperchio e faceva
    essa stessa sforzi disperati.
    - Ma smetti,  Natascia  -  le diceva Sònja.   -  Vedo che hai ragione,
    ma togline uno di sopra.
    - Non voglio  -  gridava Natascia,  trattenendo con una mano i capelli
    che le ricadevano sulla fronte  sudata  e  premendo  con  l'altra  sui
    tappeti.  -  Forza, Pétja, forza! Vassilyc', premi! -  gridava.
    I  tappeti  ben  pigiati  permisero  che  il  coperchio  fosse chiuso.
    Natascia,  battendo le mani,  strillava  di  gioia,  e  le  spuntavano
    persino le lacrime. Ma questo durò appena un secondo. Subito si dedicò
    a un altro lavoro: ormai tutti avevano fiducia in lei, il conte non si
    arrabbiava  più quando gli venivano a dire che Natàlija Ilìnisna aveva
    cambiato i suoi ordini,  e i servi  andavano  da  lei  a  chiedere  se
    dovessero legare un carro e se fosse già abbastanza carico.
    Il lavoro, grazie agli ordini di Natascia, progrediva: le cose inutili
    venivano lasciate e le altre,  le più preziose, imballate in modo tale
    da occupare poco spazio.  Ma,  nonostante l'attività dei domestici,  a
    notte  fatta  non  era  ancora  tutto  sistemato.  La  contessa si era
    addormentata e il conte,  rimandata la partenza alla mattina,  andò  a
    coricarsi.
    Sònja  e Natascia,  senza neppur svestirsi,  dormivano nel salotto dei
    divani.
    Quella notte un altro ferito fu portato lungo  la  via  Povàrskaja,  e
    Mavra  Kuzmìnisna,  che stava accanto al portone,  lo fece entrare nel
    cortile dei Rostòv.  Quel ferito,  secondo le  osservazioni  di  Mavra
    Kuzmìnisna,  era certo una persona molto importante.  Lo trasportavano
    in una carrozza interamente riparata da un copertone di cuoio e con il
    mantice abbassato a cassetta, accanto al cocchiere,  sedeva un vecchio
    cameriere  dall'aria  rispettabile.   Dietro,  in  un'altra  carrozza,
    viaggiavano con il ferito un dottore e due soldati.
    - Favorite,  favorite qui da noi.  I signori partono,  e tutta la casa
    rimane  vuota    -    disse  la  governante,  rivolgendosi  al vecchio
    servitore.
    Questi, sospirando, rispose:
    - Non speriamo neppure di portarlo sino a  casa!  Abbiamo  la  casa  a
    Mosca, ma è lontana e non c'è nessuno.
    -  Venite  qui,  vi  prego;  in  casa dei nostri padroni c'è di tutto.
    Favorite!   -  insisteva  Mavra  Kuzmìnisna.    -    Sta  molto  male?
    aggiunse.
    Il cameriere fece con la mano un gesto significativo.
    -  Non  siamo  sicuri  di  portarlo  sino a casa!  Bisogna chiedere al
    dottore.  -  E, sceso di cassetta, si avvicinò all'altra carrozza.
    - Va bene  -  disse il medico.
    Il vecchio tornò verso la vettura del ferito, guardò dentro, scosse il
    capo,  ordinò al cocchiere di entrare nel cortile e si fermò accanto a
    Mavra Kuzmìnisna.
    - Signore Gesù Cristo!  -  esclamò la donna.
    Mavra Kuzmìnisna propose di trasportare il ferito in casa.
    - I signori non diranno nulla...  -  aggiunse. Ma bisognava evitare al
    ferito  di  salire le scale e perciò lo trasportarono nel padiglione e
    lo sistemarono nella camera che era stata di "madame" Schoss.
    Quel ferito era il principe Andréj Bolkonskij.


    CAPITOLO 15.

    L'ultimo giorno di Mosca era venuto. Era domenica, una bella e limpida
    giornata di autunno e,  come in ogni domenica,  le campane sonavano in
    tutte  le  chiese.  Pareva  che  nessuno  si rendesse ancora conto del
    destino che si preparava per Mosca.  Soltanto  due  barometri  sociali
    indicavano  la condizione in cui si trovava la città: la plebe,  ossia
    la classe dei poveri,  e il prezzo delle  merci.  Un'enorme  folla  di
    operai delle fabbriche, di domestici e di contadini, ai quali si erano
    uniti impiegati,  seminaristi, nobili, si avviarono quel giorno, verso
    le Tre Montagne.  Dopo essere rimasta per un certo tempo lassù,  nella
    vana   attesa  di  Rastopcìn,   e  convinta  ormai  che  Mosca  veniva
    abbandonata al nemico,  la folla si era dispersa per la  città,  nelle
    osterie e nelle bettole.  Anche i prezzi,  quel giorno,  indicavano la
    situazione.  I prezzi delle armi,  dell'oro,  dei carri e dei  cavalli
    crescevano  continuamente,  mentre  quelli  della carta moneta e degli
    oggetti di uso casalingo andavano sempre  calando,  cosicché  accadeva
    che  a  metà  giornata  i vetturini portassero via a poco prezzo certe
    merci di valore,  quali le  pezze  di  panno,  e  che  un  cavallo  da
    contadini venisse pagato persino cinquecento rubli.  Mobili, specchi e
    bronzi si cedevano gratuitamente.
    Nella  vecchia  e  comoda  casa  dei  Rostòv  questo  decadere   delle
    condizioni  della  vita  di  prima si manifestava appena.  Di tutta la
    numerosa servitù scomparvero in quella notte soltanto tre  uomini,  ma
    nulla fu rubato;  quanto ai prezzi risultò che i trenta carri,  venuti
    dalla campagna, costituivano un'enorme ricchezza che molti invidiavano
    e per cui furono offerte ai Rostòv somme pazzesche.  Non solo,  ma sin
    dalla  sera  avanti  e nelle prime ore del primo settembre nel cortile
    dei Rostòv si susseguirono in  continuazione  attendenti  e  domestici
    mandati  dagli  ufficiali  feriti  e un trascinarsi dei feriti stessi,
    alloggiati nella casa dei Rostòv e nelle case vicine,  a supplicare la
    servitù  di casa perché facesse l'impossibile affinché si dessero loro
    dei carri per partire da Mosca. Il maggiordomo, a cui venivano rivolte
    tali preghiere,  pur provando  compassione  per  i  feriti,  rifiutava
    categoricamente,  dicendo  che  non  avrebbe neppure osato parlarne al
    conte.  Per quanto grande fosse la  pietà  che  ispiravano  i  feriti,
    costretti  a  rimanere,  era evidente che,  se fosse stato concesso un
    carro,  non c'era alcuna ragione per negarne un altro,  per non  darli
    tutti  e  per  non  dare  anche le carrozze.  Trenta carri,  poi,  non
    bastavano per salvare tutti i feriti e,  nella calamità generale,  era
    impossibile non pensare a sé e alla propria famiglia..  Così ragionava
    il maggiordomo per il suo padrone.
    Destandosi la mattina del primo settembre, il conte Iljà Andreic' uscì
    in punta di piedi dalla camera da letto per non svegliare la  contessa
    che  aveva  preso  sonno soltanto verso l'alba e,  con la sua veste da
    camera di seta viola, comparve sulla scalinata. I carri, con i carichi
    già legati, erano nel cortile, e le carrozze davanti all'ingresso.  Il
    maggiordomo,  in piedi presso la scalinata,  discorreva con un vecchio
    attendente e  con  un  giovane  ufficiale,  pallido,  con  un  braccio
    fasciato.  Vedendo il conte,  fece un cenno ai soldati e all'ufficiale
    perché si allontanassero.
    -  Dunque,  Vassilyc',  è  tutto  pronto?     -    domandò  il  conte,
    asciugandosi  la  calvizie,  guardando  bonariamente  l'ufficiale  e i
    soldati e facendo loro un cenno di  saluto  con  il  capo.  (Al  conte
    piaceva vedere i visi nuovi).
    - Si possono attaccare subito i cavalli, eccellenza.
    - Sta bene. Non appena la contessa si sveglierà, con l'aiuto di Dio ce
    ne andremo!  E voi,  signori,  -  disse, rivolgendosi all'ufficiale  -
    siete alloggiati in casa mia?
    L'ufficiale gli si avvicinò,  mentre la sua faccia pallida si  copriva
    improvvisamente di rossore.
    - Conte,  fatemi la grazia...  permettetemi, in nome di Dio, di salire
    su uno dei vostri carri. Non ho nulla qui con me... Qualsiasi posto va
    bene... è lo stesso... anche in mezzo ai bagagli...
    L'ufficiale non  aveva  ancora  finito  di  parlare  che  l'attendente
    rivolse al conte la medesima preghiera per il suo padrone.
    -  Ah  sì,  sì...    -   disse in fretta il conte.   -  Felicissimo...
    Vassilic',  provvedi tu...  fa' vuotare laggiù uno o due carri...  be'
    insomma,  fa' quello che occorre...   -  concluse, parlando in termini
    vaghi. Ma,  nello stesso momento,  l'espressione di calda riconoscenza
    dell'ufficiale  diede  forza  ai  suoi ordini.  Si guardò attorno: nel
    cortile, sul portone,  alla finestra del padiglione si vedevano feriti
    e attendenti. Tutti guardavano il conte e alcuni già venivano verso di
    lui.
    -  Eccellenza,  favorite  nella galleria.  Che disposizioni date per i
    quadri?   -  chiese il maggiordomo.  E il conte lo seguì  nella  casa,
    ripetendo  l'ordine di non negare i carri ai feriti che chiedessero di
    partire.
    - Be',  dai carri si può sempre togliere qualche cosa  -  aggiunse con
    voce dolce e misteriosa, quasi temesse che qualcuno potesse udirlo.
    Alle  nove  la contessa si svegliò e Matrëna Timoféevna,  che un tempo
    era stata la sua cameriera e che adesso funzionava presso  di  lei  da
    gendarme, entrò a riferire alla sua ex-padrona che Màrija Kàrlovna era
    molto  offesa  e  che gli abiti da estate delle signorine non potevano
    essere lasciati in città.  Dalle domande della contessa sul motivo del
    risentimento  di  "madame" Schoss risultò che esso dipendeva dal fatto
    che il suo baule era stato tolto dal carro sul  quale  era  stato  già
    caricato,  che  tutti  i  carri  venivano slegati,  che la roba veniva
    scaricata e che si conducevano via i feriti come il conte,  nella  sua
    bontà, aveva ordinato di fare. La contessa mandò a chiamare il marito.
    - Che cosa sento, amico mio? Si continua a scaricar roba?
    -  Ecco,  "ma  chère",  quello  che  volevo appunto dirti,  "ma chère"
    contessuccia.  E' venuto un ufficiale a chiedermi qualche carro per  i
    feriti.  Quelle  sono tutte cose recuperabili,  no?  Ma quei poveretti
    come possono rimanere qui?  Pensa!  Sono già nel  nostro  cortile,  li
    abbiamo  fatti  entrare  noi...  Ci sono degli ufficiali...  Sai,  "ma
    chère", penso davvero... Facciamoli trasportare...  tanto,  che fretta
    c'è?
    Il  conte  diceva tutto ciò timidamente,  come sempre faceva quando si
    trattava di denaro.  La contessa era ormai abituata a  quel  tono  che
    preannunziava sempre qualche affare rovinoso per i figliuoli,  come la
    costruzione di una galleria o  di  una  serra,  l'allestimento  di  un
    teatro  o di un'orchestra di casa.  Vi si era assuefatta e considerava
    suo dovere opporsi  sempre  a  ciò  che  il  marito  proponeva  quando
    assumeva quel timido tono di voce.
    Con un'aria di devota sottomissione, rispose al marito:
    - Ascolta,  conte... tu ci hai ridotti a tal punto che per la casa non
    ci danno niente,  e adesso vuoi perdere anche tutta  la  sostanza  dei
    nostri  figliuoli.  Tu  stesso  dici  che  in casa abbiamo oggetti per
    centomila rubli,  e adesso vuoi perdere  tutto.  No,  caro,  non  sono
    affatto d'accordo.  Fa' come ti pare!  Per i feriti c'è il governo. Lo
    sanno.  Guarda: dirimpetto a noi,  i Lopuchin da ben tre giorni  hanno
    portato via tutto. Ecco cosa fanno gli altri. Noi soli siamo scemi. Se
    non hai compassione per me, abbine almeno per i nostri figli.
    Il  conte  agitò le mani e,  senza dir nulla,  uscì dalla camera della
    moglie.
    - Papà, che cosa avete?  -  gli domandò Natascia che,  proprio in quel
    momento, entrava da sua madre.
    - Nulla, nulla che ti riguardi!  -  rispose in tono irritato.
    - No, ho sentito  -  ribatté Natascia.  -  Perché la mamma non vuole?
    - Che te ne importa?  -  gridò il conte.
    Natascia si avvicinò alla finestra e si fece pensierosa.
    -  Babbo,  Berg  sta venendo da noi  -  disse la fanciulla,  guardando
    fuori.


    CAPITOLO 16.

    Berg, genero del conte Rostòv, era già colonnello,  con le decorazioni
    di  San  Vladimiro e di Sant'Anna al collo e occupava ancora lo stesso
    posto, comodo e tranquillo, di aiutante del capo di stato maggiore del
    secondo corpo d'armata.
    Il primo settembre era partito dall'esercito per venire a Mosca.
    A Mosca non aveva nulla da fare,  ma aveva  notato  che  nell'esercito
    tutti chiedevano di recarsi a Mosca e che qui qualcosa facevano. Aveva
    quindi   ritenuto  necessario  ottenere  una  licenza  per  affari  di
    famiglia.
    Berg arrivò alla casa del suocero nel suo calessino,  tenuto con molta
    cura, e tirato da due cavalli ben nutriti, uguali in tutto a quelli di
    un  principe.  Quando  fu nel cortile,  guardò attentamente i carri e,
    mentre saliva le scale, cavò di tasca un fazzoletto e vi fece un nodo.
    Dall'anticamera, con il suo passo ondeggiante e affrettato,  entrò nel
    salotto,  abbracciò  il  conte,  baciò  la mano a Natascia e a Sònja e
    chiese premurosamente notizie della salute della mamma.
    - Come può essere la salute in momenti simili?  Suvvia,  racconta  che
    cosa  stanno facendo le truppe  -  disse il conte.   -  Indietreggiano
    ancora o si avrà una battaglia?
    - Soltanto l'eterno Iddio,  babbo,  può  conoscere  il  destino  della
    patria  -  rispose Berg.   -  L'esercito arde di eroismo e ora i capi,
    per così dire, si sono riuniti a discutere.  Che cosa accadrà?  Non si
    sa.  Ma,  in linea di massima,  vi dirò, babbo, che non ci sono parole
    degne per descrivere  il  valore,  l'eroismo,  il  coraggio  veramente
    antico  delle  truppe russe di cui essi,  esse (si corresse)  -  hanno
    dato prova nella battaglia del 26...  Vi dirò,  babbo,   -  (e  mentre
    parlava si picchiava il petto, proprio come aveva fatto un generale in
    sua  presenza,  sebbene  un  po'  in  ritardo  perché  avrebbe  dovuto
    picchiarselo alle parole "le truppe russe")  -  vi  dirò  sinceramente
    che noi comandanti non solo non avevamo bisogno di stimolare i soldati
    o  di  fare  qualche altra cosa del genere,  ma solo a fatica potevamo
    trattenere queste, queste... sì...  queste gesta valorose e antiche  -
    disse molto rapidamente.   -  Il generale Barclay de Tolly ha dovunque
    messo a rischio la propria vita, a capo delle truppe. Il nostro Corpo,
    poi, era schierato sulle pendici di una collina.  Figuratevi!   -  E a
    questo  punto  Berg  descrisse  tutto ciò che si ricordava dei diversi
    racconti che aveva udito in quei giorni.  Natascia,  senza distogliere
    da lui uno sguardo che lo imbarazzava, pareva cercasse nel suo viso la
    risposta a chi sa quale problema.
    - In generale,  non si può immaginare e lodare abbastanza l'eroismo di
    cui si mostrarono capaci i soldati russi!  -  continuò Berg, guardando
    Natascia e,  come  se  volesse  rabbonirla,  sorrise  al  suo  sguardo
    ostinato  e  soggiunse:  -  La Russia non è a Mosca,  ma nel cuore dei
    suoi figli. Non è vero, babbo?
    In quel momento,  dalla sala dei divani uscì la contessa  con  un'aria
    stanca e insoddisfatta.  Berg si alzò di scatto in piedi,  le baciò la
    mano,  s'informò della sua salute e,  esprimendo con cenni del capo la
    sua comprensione, rimase accanto a lei.
    -  Sì,  mamma,  vi  dirò  la verità: sono tempi penosi e tristi per il
    popolo russo. Ma perché siete tanto inquieta? Farete ancora in tempo a
    partire...
    - Non capisco che cosa facciano i domestici  -    disse  la  contessa,
    rivolgendosi  al  marito.   -  Mi si è detto or ora che nulla è ancora
    pronto.  Bisogna  che  qualcuno  dia  degli  ordini!  C'è  proprio  da
    rimpiangere Mìtenka! Non si finisce più...
    Il conte stava per dire qualcosa ma,  evidentemente,  si trattenne. Si
    alzò e si avviò verso l'uscio.
    In quel momento  Berg  si  tolse  il  fazzoletto  di  tasca  come  per
    soffiarsi  il  naso  e,  guardando il nodo che aveva fatto poco prima,
    scosse il capo con un'espressione triste e significativa.
    - Ho una grande preghiera da rivolgervi, babbo  -  disse.
    - Eh?  -  fece il conte, fermandosi.
    - Stavo passando poco fa davanti alla casa di Jussupov   -    proseguì
    Berg,  sorridendo  -  e l'amministratore,  che conosco da tempo,  mi è
    corso incontro per domandarmi se volessi acquistare qualche cosa. Sono
    entrato così per curiosità,  e vedo un  armadietto  e  una  tavola  da
    toeletta.  Voi  sapete  quanto  Vèruska  li  desidera e quanto abbiamo
    litigato per questo!   -  (Berg,  quando aveva  cominciato  a  parlare
    dell'armadietto e del tavolo,  aveva involontariamente assunto un tono
    gioioso per la sua casa così ben sistemata).   -  E quell'armadietto è
    un vero gioiello! Si apre con una serratura inglese, sapete? E Vèruska
    lo desidera da tanto tempo! Vorrei farle una sorpresa... Ho visto qui,
    nel vostro cortile,  parecchi contadini.  Datemene uno, per favore, lo
    pagherò bene e...
    Il conte aggrottò le sopracciglia e tossì.
    - Chiedetelo alla contessa. Io non do ordini.
    - Se la cosa è difficile,  non importa  -  disse Berg.   -   Lo  avrei
    voluto fare solamente per Vera.
    - Ah,  andate tutti quanti al diavolo,  al diavolo, al diavolo!  gridò
    il vecchio conte.  -  Mi gira la testa!  -  E uscì dalla stanza.
    La contessa si mise a piangere.
    - Sì, sì, mamma, i tempi sono molto duri!  -  disse Berg.
    Natascia uscì  con  il  padre;  dapprima  lo  seguì  come  riflettendo
    faticosamente, poi scese giù di corsa.
    Ai  piedi  della  scala,  Pétja  distribuiva  le armi ai servitori che
    partivano da Mosca.  Nel cortile c'erano ancora i carri  carichi.  Due
    erano stati slegati e in uno di essi,  sorretto dall'ordinanza,  stava
    salendo l'ufficiale.
    - Sai il perché?   -  domandò Pétja a Natascia,  la quale comprese ciò
    che  suo  fratello  intendeva:  perché  il  babbo  e la mamma avessero
    bisticciato. Ma Natascia non rispose.
    - Perché il babbo voleva dare tutti i carri ai feriti    -    proseguì
    Pétja.  -  Me l'ha detto Vassilyc'. Secondo me...
    - Secondo me...   -  quasi gridò a un tratto Natascia,  volgendo verso
    Pétja il viso corrucciato;  -  secondo me è una tale vigliaccata,  una
    tale indegnità,  una tale... non so che cosa! Siamo forse dei Tedeschi
    qualsiasi?
    La gola  le  tremava  per  i  singhiozzi  convulsi;  temendo  di  dare
    inutilmente  sfogo  alla  sua  collera,  si voltò e come una saetta si
    precipitò su per le scale.
    Berg era seduto accanto alla contessa e la confortava con il  rispetto
    affettuoso di un parente;  il conte,  con la pipa in mano, passeggiava
    per la stanza quando Natascia con  il  viso  sconvolto  dalla  collera
    irruppe  nella  stanza  come un uragano e a passi rapidi si avvicinò a
    sua madre.
    - E' una vergogna, una vigliaccheria!   -  cominciò a gridare.   Non è
    possibile che voi ordiniate...
    Berg e la contessa la guardarono spaventati e stupefatti.  Il conte si
    fermò presso la finestra, ascoltando.
    - Mamma, non è possibile. Guardate quello che avviene nel cortile!   -
    continuava a gridare.  -  Essi rimangono!
    - Che hai? Di chi parli? Che cosa vuoi?
    - Dei feriti,  ecco di chi parlo.  Non è possibile,  mamma, è una cosa
    inverosimile... No, mamma cara,  perdonatemi,  ma non è giusto,  mamma
    cara...  Mamma, che cosa importa se lasciamo i mobili? Guardate quello
    che avviene nel cortile. Mamma, non è possibile!
    Il conte stava presso la finestra e, senza voltare la testa, ascoltava
    le parole di Natascia. A un tratto aspirò forte con il naso e appoggiò
    il viso ai vetri.
    La contessa guardò sua figlia,  intuì dal suo volto che si  vergognava
    per lei, ne vide la commozione, capì perché il marito non si voltava e
    con aria smarrita si guardò attorno.
    - Ma sì,  fate come volete!  Forse che io voglio impedire qualcosa?  -
    disse senza ancora cedere del tutto.
    - Mamma, mamma cara, perdonatemi!
    Ma la contessa respinse la figlia e si accostò al conte.
    - "Mon cher",  da' gli ordini che si devono dare...  Io  non  so...  -
    disse, abbassando gli occhi con aria colpevole.
    -  I pulcini...  i pulcini insegnano alla chioccia  -  disse il conte,
    versando lacrime di gioia e abbracciando la moglie,  che era felice di
    nascondere sul petto del marito la faccia mortificata.
    - Papà,  mamma!  Posso dare l'ordine?  Sì?  -  chiedeva Natascia. - In
    ogni modo prenderemo con noi le cose più necessarie.
    Il conte fece un cenno affermativo con il capo e Natascia, veloce come
    quando giocava a rincorrersi attraverso la sala, entrò nell'anticamera
    e si precipitò in cortile.
    I domestici,  riuniti attorno a lei,  non poterono  subito  credere  a
    quello  strano  ordine  che essa impartiva,  sino a quando il conte in
    persona non venne a confermare,  anche a nome di sua moglie,  l'ordine
    di  dare tutti i carri per i feriti e di depositare in cantina tutti i
    bauli. Non appena ebbero compreso l'ordine, i domestici iniziarono con
    gioia e zelo il nuovo lavoro.  Ora la servitù non solo  non  giudicava
    più strana la cosa,  ma riteneva che non si potesse fare diversamente;
    proprio come un quarto d'ora prima non pareva strano a nessuno che  si
    prendessero  i  bauli  lasciando  i  feriti  e che non si potesse fare
    altrimenti.
    Tutte le persone di casa, quasi a espiare l'errore di non averlo fatto
    prima,  si dedicarono con slancio al lavoro di sistemare i feriti  sui
    carri.  I  feriti  uscivano  dalle  camere e,  con le facce pallide ma
    felici,  circondavano i carri.  La voce che  nel  cortile  dei  Rostòv
    c'erano  carri  disponibili  si sparse anche nelle case vicine,  e nel
    cortile  cominciarono  a  giungere  feriti  anche  dalle  altre  case.
    Parecchi  chiedevano  di  non scaricare la roba,  ma di poter soltanto
    sedervisi sopra.  Ma il lavoro di scarico,  una  volta  iniziato,  non
    poteva  più essere interrotto.  Era indifferente,  ormai,  abbandonare
    tutta o soltanto metà della roba. Le casse del vasellame,  dei bronzi,
    dei  quadri,  degli  specchi,  riempite la notte prima con tanta cura,
    erano ora sparse nel cortile;  si cercava e si trovava la  possibilità
    di scaricare ancora altra roba e di cedere altri carri ai feriti.
    - Possiamo prenderne altri quattro!   -  diceva l'amministratore.-  Io
    cedo il mio carro; se no, dove li mettiamo?
    - Ma date il carro della mia guardaroba  -  proponeva la contessa.   -
    Dunjascia verrà in carrozza con me.
    Anche  il  carro  della  guardaroba fu messo a disposizione,  e furono
    mandati a prendere dei feriti in due case più in là. Tutti i familiari
    e i domestici erano allegri e pieni di animazione. Natascia si trovava
    in uno stato di entusiastica felicità quale da un pezzo non aveva  più
    provato.
    -  E  questo  baule  dove  lo  si  lega?   -  domandarono i domestici,
    cercando di collocarlo sulla stretta predella di una carrozza. Bisogna
    tenere almeno un carro.
    - Cosa c'è dentro?
    - I libri del signor conte.
    - Lasciateli. Vassilyc' penserà a riporli. Non sono necessari.
    Nel calesse tutti i posti  erano  occupati!  non  si  sapeva  dove  si
    sarebbe potuto sedere Pëtr Ilìc'.
    -  Andrà a cassetta.  Vero,  Pétja,  che andrai a cassetta?   -  gridò
    Natascia.
    Anche Sònja si dava da fare senza un minuto  di  tregua,  ma  con  uno
    scopo opposto a quello di Natascia. Ella metteva in ordine le cose che
    dovevano  rimanere,  ne faceva l'elenco per desiderio della contessa e
    cercava di portarne via con sé la maggior quantità possibile.


    CAPITOLO 17.

    Alle due del pomeriggio,  quattro carrozze dei Rostòv,  pronte per  la
    partenza,  erano allineate davanti all'ingresso.  I carri con i feriti
    uscivano dal cortile uno dopo  l'altro.  La  carrozza  in  cui  veniva
    trasportato  il  principe  Andréj,  passando  davanti  alla scalinata,
    attirò l'attenzione di Sònja che,  aiutata  da  una  cameriera,  stava
    preparando il posto per la contessa nell'enorme e alta vettura di lei.
    -  Di  chi  è  quella  carrozza?    -  chiese Sònja,  affacciandosi al
    finestrino dello sportello.
    - Ma non lo sapete,  signorina?   -  rispose la cameriera.   -  C'è il
    principe ferito; ha trascorso la notte qui da noi e parte con noi.
    - Chi è? Come si chiama?
    -  E'  il  "nostro"  fidanzato di una volta,  il principe Bolkonskij!-
    rispose la cameriera, sospirando.  -  Dicono che sia moribondo.
    Sònja saltò giù dalla carrozza e corse  dalla  contessa  che,  già  in
    abito da viaggio,  con il cappello e lo scialle, camminava stancamente
    per il salotto,  in attesa dei familiari per sedersi con essi a  porte
    chiuse e dire le preghiere prima di mettersi in viaggio.  Natascia non
    era ancora nella stanza.
    - "Maman",   -  disse Sònja  -   il  principe  Andréj  è  qui,  ferito
    mortalmente. Egli parte con noi.
    La  contessa spalancò gli occhi spaventata e,  afferrando Sònja per un
    braccio, si guardò attorno.
    - E Natascia?   -  chiese.
    Tanto per Sònja quanto per la contessa quella  notizia,  in  un  primo
    momento,  aveva  un  solo  significato.  Esse conoscevano bene la loro
    Natascia, e il terrore dell'effetto, che poteva avere su di lei quella
    notizia,  soffocava qualsiasi sentimento di compassione verso un  uomo
    al quale tutte e due volevano bene.
    - Natascia non lo sa ancora, ma egli parte con noi  -  disse Sònja.
    - Tu dici che è moribondo?
    Sònja accennò di sì con il capo.
    La contessa abbracciò Sònja e si mise a piangere.
    "Le vie del Signore sono imperscrutabili!",  pensava, sentendo che, in
    tutto  ciò  che  ora  avveniva,   cominciava  a  mostrarsi   la   mano
    onnipotente, prima nascosta agli sguardi degli uomini.
    -  Ecco,  mamma,  è  tutto  pronto.  Che avete?   -  domandò Natascia,
    entrando di corsa nella stanza, con il viso animato.
    - Nulla  -  rispose la contessa.  -  Se tutto è pronto,  partiamo.   -
    E  si  chinò  sulla  borsetta  per  nascondere il turbamento che le si
    leggeva sul viso. Sònja abbracciò Natascia e la baciò.
    Natascia le lanciò un'occhiata interrogativa.
    - Che hai? Che è successo?
    - Nulla... no...
    - Qualcosa di brutto per me?  Che cosa?    -    domandò  la  sensibile
    Natascia.
    Sònja sospirò e non rispose.  Il conte,  Pétja, "madame" Schoss, Mavra
    Kuzmìnisna, Vassilyc' entrarono nel salotto e, chiuse le porte,  tutti
    si  sedettero  e,  senza  guardarsi,  rimasero  silenziosi  per alcuni
    minuti.
    Il conte si alzò per primo e con un profondo sospiro si fece il  segno
    della croce,  guardando l'icona.  Gli altri lo imitarono. Poi il conte
    abbracciò Mavra Kuzmìnisna e  Vassilyc'  che  rimanevano  a  Mosca  e,
    mentre  essi  cercavano  di  prendergli  la  mano e lo baciavano sulla
    spalla, batté loro leggermente sulla schiena mormorando parole vaghe e
    affettuose di conforto.  La contessa andò nella stanza delle  icone  e
    Sònja  ve  la  trovò  inginocchiata  davanti alle poche immagini sacre
    rimaste appese qua e là alle pareti.  Le icone più  preziose  venivano
    portate via, secondo la tradizione di famiglia.
    Sulla  scalinata  e nel cortile,  gli uomini che partivano e che Pétja
    aveva armato di pugnali e di sciabole,  con i calzoni  infilati  negli
    stivali  e la vita stretta da cinghie e da cinture,  si congedavano da
    coloro che rimanevano.
    Come sempre accade, al momento della partenza,  molte cose erano state
    dimenticate o non collocate come si doveva,  e due servitori in livrea
    rimasero abbastanza a  lungo  ai  due  lati  del  predellino  e  dello
    sportello della carrozza,  pronti a far salire la contessa,  mentre le
    cameriere correvano con cuscini e involti  dalla  casa  alla  carrozza
    chiusa, a quelle scoperte, al calessino e viceversa.
    -  Dimenticano  sempre  tutto!    -    diceva la contessa.   -  Eppure
    dovresti sapere che non posso stare seduta così!    -    E  Dunjascia,
    stringendo   i  denti  e  senza  rispondere,   con  un'espressione  di
    rimprovero sul viso,  correva verso la carrozza per sistemare meglio i
    cuscini.
    - Ah, che gente!  -  esclamò il conte, scuotendo il capo.
    Il vecchio cocchiere Efìm, il solo con cui la contessa acconsentisse a
    viaggiare  in  carrozza,  stava  immobile a cassetta sull'alto sedile,
    senza neppur voltarsi a guardare ciò che  accadeva  alle  sue  spalle.
    Secondo  la  sua  trentennale  esperienza,  egli sapeva che si sarebbe
    ancora tardato a dirgli: "Va' con Dio!",  che,  dopo aver  pronunziato
    quelle  parole,  almeno  due  volte  ancora  lo  avrebbero fermato per
    correre a prendere altre cose  dimenticate  e  che  poi  lo  avrebbero
    fermato  di  nuovo  perché  la  contessa in persona,  affacciandosi al
    finestrino,  gli potesse raccomandare in nome di Cristo  di  procedere
    più  cautamente  nelle  discese.  Sapeva  tutto questo e aspettava più
    pazientemente dei suoi cavalli (in particolare di quello di  sinistra,
    il  baio  Sokòl,  che  batteva con lo zoccolo e mordeva e masticava il
    morso), ciò che sarebbe accaduto.  Finalmente tutti presero posto,  il
    predellino  fu  alzato e ripiegato,  lo sportello fu chiuso con forza,
    qualcuno fu mandato a prendere un'ultima cassettina e la  contessa  si
    affacciò  per  pronunziare  le  parole  di rito.  Allora Efìm si tolse
    lentamente il cappello e si segnò.  Il postiglione e tutta la  servitù
    fecero altrettanto.
    - Con Dio!   -  esclamò Efìm, rimettendosi il cappello.  -  Avanti!  -
    Il postiglione fece muovere i cavalli. Quello di destra fece forza sul
    collare, le alte molle cigolarono e la vettura si mosse.  Un domestico
    balzò  a  cassetta,  mentre  già il veicolo era in moto.  La carrozza,
    uscendo dal cortile sull'acciottolato sconnesso, sobbalzò, allo stesso
    modo sobbalzarono le vetture che seguivano,  e il convoglio  si  avviò
    sulla strada in salita.  Nella vettura chiusa,  in quella aperta e nel
    calesse tutti si fecero il  segno  della  croce  voltandosi  verso  la
    chiesa  che  sorgeva  di  fronte.  I  domestici  che restavano a Mosca
    camminavano ai due lati delle carrozze, accompagnandole.
    Poche volte Natascia aveva provato un sentimento più lieto  di  quello
    che provava in quel giorno,  seduta in carrozza accanto alla contessa,
    mentre guardava i muri delle case di Mosca  abbandonata  e  sconvolta,
    che  le passavano lentamente davanti agli occhi.  Di tanto in tanto si
    sporgeva dal finestrino e guardava attorno e davanti  a  sé  il  lungo
    convoglio di feriti che precedeva le carrozze. Quasi in testa scorgeva
    il mantice alzato della carrozza del principe Andréj.  Ignorava chi ci
    fosse,  in quel calesse,  ma  ogni  volta,  per  calcolare  lo  spazio
    occupato dai suoi carri,  lo cercava con gli occhi.  Sapeva che era in
    testa a tutti.
    A  Kùdrino,   dalla  via  Nikìtzkaja  dalla   Prèsnaia,   dal   vicolo
    Podnvinskij,  sbucarono  altri  convogli  come quello dei Rostòv e già
    lungo la via Sadòvaja i carri procedevano su due file.
    Davanti alla torre di Sucharëv, Natascia che guardava con curiosità le
    persone che passavano in carrozza o a piedi,  a  un  tratto  diede  un
    grido di gioia e di stupore.
    - Santi benedetti! Mamma, Sònja, guardate! E' lui!
    - Chi? Chi?
    -  Guardate,  vi  giuro  che  è  Bezuchov    -    esclamava  Natascia,
    sporgendosi dal finestrino e  guardando  un  uomo  alto  e  grosso  in
    caffettano da cocchiere che, si vedeva dall'andatura e dal portamento,
    doveva  essere  un  signore  travestito  il quale,  in compagnia di un
    vecchietto dal viso giallognolo e glabro,  con  un  cappotto  di  lana
    ricciuta, passava sotto l'arcata della torre.
    -  Com'è  vero  Dio,  quello è Bezuchov in caffettano,  con un vecchio
    qualsiasi! Lo giuro: guardate! guardate!  -  insisteva Natascia.
    - Ma no, non è lui. E' possibile dire simili sciocchezze?
    - Mamma,   -  gridava Natascia  -  mi  lascio  tagliare  la  testa  se
    quello  non  è  lui.  Ve  lo assicuro!  Ferma!  Ferma!   -  gridava al
    cocchiere.  Ma il cocchiere  non  poteva  fermarsi  perché  dalla  via
    Mesànskaja uscivano altri carri e altre carrozze e si imprecava contro
    i Rostòv perché si muovessero e non impacciassero gli altri.
    In  realtà,  per  quanto  molto  più lontano di prima,  tutti i Rostòv
    videro Pierre o un uomo che somigliava a Pierre in modo straordinario,
    in caffettano da cocchiere che camminava a testa bassa e con la faccia
    seria,  accanto a un piccolo vecchietto glabro che aveva l'aria di  un
    domestico. Il vecchietto notò il viso che si sporgeva dalla carrozza e
    che  lo guardava e,  toccando rispettosamente il gomito a Pierre,  gli
    disse qualcosa,  accennando alla carrozza.  Pierre non riuscì  per  un
    pezzo  a capire ciò che gli diceva il vecchio giacché,  evidentemente,
    era tutto preso dai suoi pensieri.  Finalmente,  quando ebbe compreso,
    guardò  nella  direzione  indicata e,  ravvisata Natascia,  cedette al
    primo impulso e corse verso la  carrozza.  Ma,  dopo  una  diecina  di
    passi, ricordandosi evidentemente di qualche cosa, si fermò.
    Il   viso   di   Natascia,   nella   cornice  del  finestrino,   aveva
    un'espressione di tenerezza un po' canzonatoria.
    - Pëtr Kirillyc', venite! Vi abbiamo riconosciuto! Che bella sorpresa!
    -  gridava la fanciulla,  tendendogli la mano.   -  Come  mai?  Perché
    siete vestito così?
    Pierre  prese  la mano che gli veniva tesa e,  camminando accanto alla
    carrozza che continuava la sua strada, la baciò goffamente.
    - Che vi succede,  conte?   -  domandò la contessa con stupore  e  con
    voce piena di compassione.
    - Che cosa?  Che cosa?  Perché?  Non chiedetemelo  -  disse Pierre,  e
    guardò Natascia,  il cui sguardo luminoso e felice  (egli  lo  sentiva
    anche senza guardarla) lo avvolgeva con il suo fascino.
    - Cosa fate? Restate a Mosca?
    Pierre taceva.
    -  A  Mosca?    -  disse poi in tono interrogativo.   -  Sì,  a Mosca.
    Addio!
    - Ah, come desidererei essere un uomo!  Resterei certamente con voi...
    Come sarebbe bello!   -  esclamò Natascia.   -  Mamma, permettetemi di
    restare!
    Pierre guardò distrattamente Natascia e fu sul punto di  dire  qualche
    cosa, ma la contessa lo prevenne.
    - Abbiamo saputo che siete stato in battaglia, vero?
    - Sì, ci sono stato  -  rispose Pierre.  -  Domani ci sarà di nuovo un
    combattimento...  -  prese a dire, ma Natascia lo interruppe.
    - Che avete, conte? Non siete come al solito...
    -  Ah,  non domandatemelo,  non domandatemelo!  Non lo so neppur io...
    Domani... Ma no! Addio, addio!  -  esclamò.   -  Sono tempi terribili!
    -  e, scostandosi dalla carrozza, salì sul marciapiede.
    Natascia  rimase a lungo affacciata al finestrino,  guardandolo con un
    sorriso affettuoso, gaio, lievemente canzonatorio.


    CAPITOLO 18.

    Pierre,   scomparso  da  casa  sua,   alloggiava  già  da  due  giorni
    nell'appartamento vuoto del defunto Bazdeev. Ecco come erano andate le
    cose.
    Svegliatosi  il  giorno  successivo  a quello del suo ritorno a Mosca,
    dopo il colloquio con il conte Rastopcìn,  tardò  parecchio  a  capire
    dove fosse e che cosa si volesse da lui.  Quando poi, tra i nomi delle
    persone che lo aspettavano nel salotto,  gli fu riferito anche  quello
    di  un  tale  che gli portava una lettera da parte della contessa Elen
    Vassìlevna,  fu colto tutto a un tratto da quel senso di smarrimento e
    di  disperazione  cui  andava  soggetto.  Si  immaginò che tutto fosse
    finito, che tutto fosse confuso,  tutto crollato,  che non esistessero
    più  né torto né ragione,  che l'avvenire non gli offrisse più nulla e
    che non ci fosse più alcun  modo  per  uscire  da  quella  situazione.
    Sorridendo  macchinalmente  e borbottando qualcosa,  ora si sedeva sul
    divano in atteggiamento disperato,  ora si alzava,  si avvicinava alla
    porta  e  guardava  attraverso  una fessura nella sala di ricevimento,
    ora,   gesticolando,   tornava  indietro  e  prendeva  un  libro.   Il
    maggiordomo  gli  annunziò  per  la  seconda volta che il latore della
    lettera della contessa desiderava parlargli,  fosse anche solo per  un
    momento e che, inoltre, era venuto un incaricato della vedova di S. A.
    Bazdeev  per  pregarlo  di  prendere  in  consegna i libri,  poiché la
    signora stessa era partita per la campagna.
    - Ah sì!  Subito,  subito,  aspetta...  Anzi no,  va' a dire che vengo
    immediatamente  -  disse al maggiordomo.
    Ma non appena questi si fu ritirato,  Pierre prese il cappello che era
    sulla tavola e uscì dallo studio attraverso una porta secondaria.  Nel
    corridoio  non  c'era  nessuno.  Pierre lo percorse sino alla scala e,
    corrugando il viso e fregandosi la fronte con ambo  le  mani,  discese
    sino al pianerottolo. Il portiere stava ritto all'ingresso principale.
    Dal pianerottolo, sul quale era sceso Pierre, un'altra scala conduceva
    all'ingresso  di  servizio.  Pierre  la  discese  e  uscì nel cortile.
    Nessuno lo aveva veduto.  Ma non appena fu sulla strada,  i  cocchieri
    che sostavano con le loro carrozze e il portiere scorsero il padrone e
    si  tolsero  il  berretto.  Sentendo  tanti sguardi puntati su di lui,
    Pierre fece come lo struzzo che nasconde la testa in un cespuglio  per
    non  essere  visto,  chinò  la  testa  e,  accelerando  il  passo,  si
    allontanò.
    Di tutti gli affari che Pierre avrebbe dovuto sbrigare quella mattina,
    il più importante gli parve l'esame dei libri e delle carte di  Jussif
    Alekséevic'.
    Fermò il primo vetturino di piazza che gli capitò e si fece portare al
    Patrjarsce Prudy, dove sorgeva la casa della vedova Bazdeev.
    Volgendosi  di  continuo a guardare i carri della gente che partiva da
    Mosca,  che affluivano  da  ogni  parte,  e  drizzando  il  suo  corpo
    massiccio per non scivolare dal sedile della vecchia carrozza,  Pierre
    provava una gioia simile a  quella  che  prova  un  ragazzino  che  ha
    marinato la scuola e si mise a discorrere con il vetturino.
    Questi  gli  raccontò  che quel giorno al Cremlino si distribuivano le
    armi e che il giorno dopo tutto il popolo sarebbe stato  mandato  alla
    barriera  delle  Tre  Montagne,  dove si sarebbe combattuta una grande
    battaglia.
    Giunto al Patrjarsce Prudy,  Pierre cercò la casa di Bazdeev  dove  da
    gran tempo non si recava. Si avvicinò al cancelletto e bussò. Gerasim,
    quello  stesso vecchietto dal viso giallognolo e glabro che egli aveva
    visto cinque anni innanzi a Torgëk con Jussif Alekséevic',  uscì  alla
    sua chiamata.
    - E' in casa?  -  domandò Pierre.
    - Date le circostanze attuali,  eccellenza, Sòfija Danìlovna è partita
    con i figliuoli per la campagna di Torcëk.
    - Entrerò ugualmente: devo scegliere i libri  -  rispose Pierre.
    - Favorite, eccellenza, favorite!  Il fratello del defunto,  che Iddio
    l'abbia  in  gloria!,  Makàr  Alekséevic'  è in casa.  Ma,  come certo
    saprete, è debole di mente  -  disse il vecchio domestico.
    Makàr Alekséevic',  come  Pierre  sapeva,  era  il  fratello  pazzo  e
    alcolizzato di Jussif Alekséevic'.
    - Sì, sì, lo conosco. Andiamo  -  disse Pierre, ed entrò in casa.
    Un vecchio in veste da camera,  alto,  calvo,  dal naso rosso,  con le
    soprascarpe infilate sui piedi nudi, stava nell'anticamera; alla vista
    di Pierre,  borbottò  irosamente  qualche  cosa  e  si  allontanò  nel
    corridoio.
    - Era un uomo di grande intelligenza e ora,  come vedete,  è debole di
    mente  -  disse Gerasim.  -  Volete entrare nello studio?  Pierre fece
    un cenno affermativo.   -  Come sono stati messi  i  sigilli,  così  è
    rimasto.  Sòfija Danìlovna ha dato ordine, se qualcuno fosse venuto da
    parte vostra, di consegnare i libri.
    Pierre entrò nello studiolo semibuio nel quale,  mentre era in vita il
    benefattore,  entrava tremando. Quello studio, polveroso e abbandonato
    dopo la morte di Jussif Alekséevic', apparve ancora più tetro.
    Gerasim aprì un'imposta e uscì in punta di piedi.  Pierre fece il giro
    della  stanza,   si  avvicinò  all'armadio  in  cui  erano  riposti  i
    manoscritti  e  ne  trasse  un  documento,   uno  dei  più  importanti
    dell'Ordine.  Si  trattava degli Atti originali scozzesi,  con le note
    esplicative scritte dal benefattore. Sedette alla scrivania coperta di
    polvere,  si pose dinanzi  i  manoscritti,  li  aprì,  li  richiuse  e
    finalmente,  allontanatili  da sé,  si prese la testa tra le mani e si
    sprofondò nei suoi pensieri.
    Parecchie volte Gerasim  gettò  cautamente  un'occhiata  nello  studio
    dalla porta socchiusa e sempre vide Pierre nello stesso atteggiamento.
    Trascorse più di due ore,  Gerasim si permise di fare un po' di rumore
    accanto alla porta per attirare l'attenzione di Pierre,  ma Pierre non
    lo udì.
    - Ordinate di licenziare la carrozza?
    -  Ah,  sì    -  rispose Pierre,  riscuotendosi e alzandosi in fretta.
    Senti...  -  soggiunse,  prendendo Gerasim per un bottone della giubba
    e  guardandolo dall'alto in basso con occhi lucenti,  umidi e pieni di
    entusiasmo.  -  Senti... sai che domani si avrà una battaglia?
    - Così dicono  -  rispose Gerasim.
    - Ti prego di non rivelare a nessuno chi io sia e di fare ciò  che  ti
    dirò...
    -  Sono  pronto  a  obbedirvi  -  rispose Gerasim.   -  Mi ordinate di
    portarvi da mangiare?
    - No,  mi occorre altro.  Mi occorrono  un  abito  da  contadino,  una
    pistola  -  disse Pierre, arrossendo improvvisamente.
    - Sissignore  -  disse Gerasim, dopo un momento di riflessione.
    Pierre  trascorse  tutto  il  resto  della  giornata  nello studio del
    benefattore,  camminando  irrequieto  da  un  angolo  all'altro,  come
    Gerasim  udì,  e  parlando  tra  sé,  e trascorse la notte su un letto
    preparato per lui nello studio stesso.
    Gerasim,  con l'abitudine del servo che nella sua  vita  aveva  veduto
    molte cose strane,  accettò senza stupirsi che Pierre si stabilisse lì
    e parve felice di avere qualcuno da servire. Quella stessa sera, senza
    chiedere perché fossero necessari,  portò a Pierre un caffettano e  un
    cappello e gli promise che per il giorno dopo gli avrebbe procurato la
    pistola  richiesta.  Makàr  Alekséevic'  quella  sera  si avvicinò due
    volte,  ciabattando,  alla porta dello studio e vi si fermò  guardando
    Pierre come se volesse ingraziarselo.  Ma non appena Pierre si voltava
    verso di lui,  egli si stringeva con gesto irritato e vergognoso nella
    veste  da  camera e si allontanava in fretta.  Mentre,  vestito con il
    caffettano da cocchiere procuratogli e lavato da  Gerasim,  Pierre  si
    recava con lui ad acquistare la pistola,  aveva incontrato,  presso la
    torre di Sucharëv, i Rostòv.


    CAPITOLO 19.

    Nella notte del primo settembre Kutuzòv diede ordine  alle  truppe  di
    ritirarsi attraverso Mosca sulla strada di Rjazàn.
    I  primi  reparti  si  misero in moto durante la notte.  Le truppe che
    marciavano di notte non si affrettavano,  ma si movevano lentamente  e
    ordinatamente,  quelle  invece  che  iniziarono a muoversi sul far del
    giorno,  arrivate presso il ponte di Dorogomìlovo videro innanzi a sé,
    dall'altra  parte,  masse  compatte  di  truppe  che affollavano vie e
    vicoli,  si accalcavano sul ponte e salivano sulla riva opposta;  alle
    loro  spalle,  altre  masse  di  truppe le premevano.  Una fretta e un
    allarme  senza  motivo  si  impadronirono  dei   soldati.   Tutti   si
    slanciarono  in  avanti,  verso  il  ponte,  ai  guadi e sulle barche.
    Kutuzòv si fece  condurre  per  vie  traverse  sull'altra  riva  della
    Moscova.
    Il  2  settembre,   verso  le  dieci  di  mattina,   nel  sobborgo  di
    Dorogomìlovo non restavano più che le truppe della retroguardia. Tutto
    l'esercito era già sull'altra riva della Moscova, oltre Mosca.
    Nello  stesso  tempo,  alle  dieci  della  mattina  del  2  settembre,
    Napoleone  era  con le sue truppe sulla collina Poklònnaja e osservava
    lo spettacolo che si presentava ai suoi occhi. Dal 26 agosto sino al 2
    settembre,  dalla battaglia di Borodinò sino all'entrata del nemico in
    Mosca,  durante  tutte  le  giornate  di  quella  torbida e memorabile
    settimana,  era continuato quell'insolito tempo autunnale  che  sempre
    meraviglia  gli  uomini  quando  il  sole  basso  scalda  più  che  in
    primavera,  quando tutto brilla nell'aria limpida e pura  in  modo  da
    abbagliare la vista, quando il petto respira largamente e si rinfresca
    ai  profumi  dell'autunno,  quando  anche  le notti sono tiepide e dal
    cielo,  in quelle notti buie e calde,  si vede cadere una  pioggia  di
    stelle dorate che spaventa e rallegra gli uomini.
    Il  2  settembre,  alle  dieci  antimeridiane,  il tempo era così.  Lo
    splendore della mattinata aveva un non so  che  di  fantastico.  Dalla
    collina  Poklònnaja,  Mosca appariva distesa in tutta la sua ampiezza,
    con il suo fiume, i suoi giardini,  le sue chiese e sembrava vivere di
    una vita particolare, tra le sue cupole scintillanti come stelle sotto
    i raggi del sole.
    Alla vista di quella strana città dalle insolite forme architettoniche
    mai  vedute,  Napoleone  provava  quella  curiosità un po' invidiosa e
    inquieta che l'uomo prova al cospetto delle forme di una vita nuova  e
    ignota. Evidentemente quella città viveva con tutte le forze della sua
    vita.  Per  quegli  indizi  indefinibili,  dai  quali  si può anche da
    lontano distinguere con sicurezza un corpo vivo  da  un  corpo  morto,
    Napoleone,  dalla  collina  Poklònnaja,  sentiva vibrare la vita nella
    città e sentiva, per così dire, il respiro di quel grande,  bellissimo
    corpo.
    Ogni  uomo  russo che guardi Mosca,  sente che Mosca è la madre;  ogni
    straniero che la guardi, pur ignorandone il significato materno,  deve
    senza  dubbio sentire il carattere femminile della città,  e Napoleone
    lo sentiva.
    - "Cette ville asiatique aux innombrables églises,  Moscou la  sainte.
    La voilà donc enfin, cette fameuse ville! Il était temps!" [41. Questa
    città  asiatica  dalle  innumerevoli  chiese,  Mosca la santa,  eccola
    dunque, finalmente, questa città famosa. Era ora!]  -  disse e,  sceso
    di sella,  ordinò che gli fosse portata la carta topografica di quella
    bella Mosca e fece chiamare l'interprete Lelorme Dideville. "Une ville
    occupée par l'ennemi ressemble à une fille qui a  perdu  son  honneur"
    [42. "Una città occupata dal nemico somiglia a una fanciulla che abbia
    perduto  il  suo  onore!"]  pensava  (come già aveva detto a Tucikòv a
    Smolènsk).  E in tale disposizione di spirito guardava  la  bellissima
    orientale  che  non  aveva  ancora  visto e che giaceva ai suoi piedi.
    Pareva strano anche a lui che  il  suo  vecchio  desiderio,  giudicato
    irrealizzabile,  fosse  ora  esaudito.  Nella chiara luce del mattino,
    egli  guardava  ora  la  città,   ora  la  pianta,   controllandone  i
    particolari, e la certezza del possesso lo commoveva e lo sgomentava.
    "Ma  poteva  forse  non  essere  così?",  pensava.  "Eccola,  la  gran
    capitale,  ai miei piedi,  in  attesa  della  sua  sorte.  Dov'è,  ora
    Aleksàndr e a che cosa pensa? Strana, bella, grandiosa città! E strano
    e grandioso veramente il momento che sto vivendo!  Sotto quale luce mi
    vedono ora?", si chiedeva, pensando ai suoi soldati. "Eccolo il premio
    per  tutti  questi  scettici",   pensava,   guardando  coloro  che  lo
    attorniavano e le truppe che avanzavano e via via si schieravano. "Una
    mia  sola  parola,  un gesto della mia mano e questa antica città "des
    Czars" perirebbe.  "Mais ma clémence est toujours prompte à  descendre
    sur  les vaincus" [43.  "Ma la mia clemenza è sempre pronta a scendere
    sui vinti"]. Io devo essere magnanimo e veramente grande... Ma no, non
    è vero che io sono a Mosca...",  gli passava  improvvisamente  per  la
    mente.  "Eppure sì,  è vero;  eccola che giace ai miei piedi, e le sue
    cupole dorate e le sue croci scintillano ai raggi del sole.  Ma io  la
    risparmierò.  Sugli antichi monumenti della barbarie e del dispotismo,
    io scriverò le grandi  parole  della  giustizia  e  della  clemenza...
    Aleksàndr  capirà  questo  meglio  di ogni altra cosa: io lo conosco".
    (Pareva a Napoleone che il significato principale di ciò che  avveniva
    si  concentrasse nella sua lotta personale con Aleksàndr).  "Dall'alto
    del Cremlino... sì, quello è il Cremlino...  io darò ai Russi le leggi
    della  giustizia,  dimostrerò  loro  l'importanza  della vera civiltà,
    obbligherò i nati dai boiardi a ricordare con amore il nome  del  loro
    conquistatore.  Dirò  alla loro deputazione che io non ho voluto e non
    voglio la  guerra,  che  ho  mosso  guerra  unicamente  alla  politica
    menzognera  della  loro  Corte,  che  amo  e  rispetto Aleksàndr e che
    accetterò a Mosca condizioni di pace degne di me e del mio popolo. Non
    voglio  approfittare  dell'esito  felice  della  guerra  per  umiliare
    l'imperatore,  che  rispetto.  Boiardi,  dirò  loro,  io non voglio la
    guerra,  voglio la pace  e  la  felicità  di  tutti  i  miei  sudditi.
    D'altronde,  so  che  la  loro presenza mi ispirerà e parlerò con loro
    come parlo sempre: con precisione, solennità e grandezza. Ma è proprio
    vero che sono a Mosca? Sì, eccola!".
    - "Qu'on m'amène les boyards" [44.  Mi si conducano i boiardi]  disse,
    rivolgendosi al suo séguito.
    Un generale,  accompagnato da uno splendido séguito,  partì al galoppo
    alla ricerca dei boiardi.
    Trascorsero due ore.  Napoleone aveva fatto colazione e ora  stava  di
    nuovo  al  posto di prima,  sulla collina Poklònnaja,  in attesa della
    deputazione. Il discorso che avrebbe fatto ai boiardi gli si disegnava
    già nella mente.  Era un discorso pieno di  dignità  e  di  grandezza,
    quale poteva intenderla Napoleone.
    Il tono di magnanimità con il quale aveva intenzione di agire a Mosca,
    trascinava  anche  lui.  Nella  sua  immaginazione fissava i giorni di
    "réunion dans le palais des Czars" [45.  riunione  nel  palazzo  degli
    zar],  dove  i  grandi  signori  russi  si  sarebbero incontrati con i
    dignitari  dell'imperatore   francese.   Pensava   già   di   nominare
    governatore  uno  che  fosse  capace  di acquistarsi la simpatia della
    popolazione.  Avendo saputo che a Mosca esistevano molti  istituti  di
    beneficenza, aveva già deciso in cuor suo di colmarli dei suoi favori.
    Pensava  che,  come in Africa si deve indossare il "burnus" (46) nelle
    moschee, così a Mosca il conquistatore doveva essere caritatevole come
    gli zar. E,  per toccare definitivamente il cuore ai Russi,  lui,  che
    come  ogni  francese non poteva immaginare nulla di sentimentale senza
    ricordare "ma chère,  ma tendre,  ma pauvre mère" [47.  La  mia  cara,
    tenera,  povera  madre],  stabilì  che avrebbe ordinato di scrivere su
    tutti quegli edifici,  a lettere cubitali: "Etablissement dédié  à  ma
    chère  Mère".  No,  più  semplice: "Maison de ma Mère" [48.  "Istituto
    dedicato alla mia cara madre",  "Casa di mia madre"],  decise tra  sé.
    "Ma è possibile che io sia a Mosca? Eppure sì, eccola davanti a me. Ma
    come mai la deputazione impiega tanto tempo a venire?", si chiedeva.
    Frattanto,   nelle  ultime  file  del  séguito  dell'imperatore,   una
    discussione inquieta, a mezza voce,  si svolgeva tra alcuni generali e
    marescialli.  Coloro  che  erano andati a cercare la deputazione erano
    tornati con la notizia che Mosca  era  deserta,  che  tutti  l'avevano
    abbandonata  ed erano partiti.  I generali si consultavano,  pallidi e
    preoccupati.  Non  li  sgomentava  il  fatto  che  Mosca  fosse  stata
    abbandonata  dai  suoi  abitanti  (per  quanto  grave  la cosa potesse
    apparire),   ma  li  atterriva  il  pensiero  di  doverlo   comunicare
    all'imperatore,  senza porre sua maestà in quella situazione terribile
    che i Francesi definiscono "ridicule";  di  dovergli  dire  che  aveva
    aspettato  così  a  lungo,  inutilmente,  i  boiardi,  che  in  città,
    all'infuori di una folla ubriaca non era rimasto nessun altro.  Alcuni
    erano d'avviso che bisognasse,  a qualunque costo, mettere insieme una
    deputazione qualsiasi, altri erano contrari e sostenevano la necessità
    di preparare con  prudenza  e  abilità  l'imperatore  a  conoscere  la
    verità.
    -  "Il  faudra  le  lui  dire tout de même"  -  dicevano i signori del
    séguito.  -  "Mais,  messieurs..." [49.  Bisognerà dirglielo,  in ogni
    modo. (...) Ma, signori...].
    La  situazione  era  tanto  più  imbarazzante  in quanto l'imperatore,
    mentre  elaborava  i   suoi   progetti   di   magnanimità,   camminava
    pazientemente  su  e giù davanti alla carta topografica,  guardando di
    tanto in tanto la strada di Mosca e sorridendo con orgogliosa letizia.


    CAPITOLO 20.

    Mosca  frattanto  era  vuota.  C'era  ancora  della  gente,  sì,   una
    cinquantesima  parte della popolazione,  ma la città era vuota.  Vuota
    come un'arnia senza regina.
    In  un'arnia  senza  regina  non  c'è  più  vita  ma,  a  uno  sguardo
    superficiale, essa sembra viva come le altre.
    Ai  caldi raggi del sole meridiano,  attorno all'alveare senza regina,
    le api roteano lietamente come attorno agli alveari vivi;  allo stesso
    modo  da lontano si sente l'odor di miele e allo stesso modo le api vi
    entrano  e  ne  escono  a  volo.  Ma  se  si  osserva  con  attenzione
    quell'alveare,  si capisce che in esso non esiste più vita. Le api non
    volano come nelle arnie  vive,  l'odore  che  si  avverte  è  diverso,
    diverso  è  il  ronzio  che  l'apicultore  sente.   A  un  colpo  dato
    dall'apicultore  su  una  parete  dell'alveare  malato,   anziché   la
    consueta,  immediata,  concorde  risposta   -  il ronzio di diecine di
    migliaia di api che minacciosamente inarcano il dorso e con il  rapido
    battere delle ali producono quell'aereo suono di vita  -  gli giungono
    ronzii   dispaiati   che   risuonano   sordamente   in  punti  diversi
    dell'alveare vuoto.  Dall'apertura non si diffonde  più,  come  prima,
    quel  profumo eccitante di miele e di resina,  non spira più il tepore
    dell'alveare vibrante di vita,  ma  all'aroma  del  miele  si  mescola
    quello del vuoto e della putrefazione.  All'ingresso non stanno più le
    api guardiane,  pronte a morire per difendere l'alveare,  inarcando il
    dorso  e  sonando l'allarme;  non si ode quel regolare e calmo rumore,
    quel fremito del lavoro simile al bollore dell'acqua,  ma si sente  il
    rumore  irregolare  e  discorde del disordine.  Volano nell'arnia e ne
    escono, timide e scaltre, le api predatrici, nere,  oblunghe,  coperte
    di  miele;  non  pungono,  ma  si  sottraggono al pericolo.  Un tempo,
    entravano soltanto le api cariche di bottino e  ne  uscivano  spoglie,
    ora escono con il bottino.  L'apicultore apre lo sportello inferiore e
    osserva la parte inferiore dell'arnia: non più grappoli  neri  di  api
    gonfie  di  succo,  pacificate  dal lavoro,  pendenti sino al piano di
    sotto,  appese l'una all'altra con le zampine e che,  con il  continuo
    ronzio del lavoro,  costruiscono le celle, ma poche api sonnacchiose e
    rinsecchite  che  vagano  distrattamente  sul  fondo  e  sulle  pareti
    dell'alveare.  Invece  di  un  impiantito  accuratamente  spalmato  di
    propoli e spazzato dal  ventaglio  delle  ali,  egli  vede  sul  fondo
    frammenti  di  cera,  escrementi di api,  api moribonde che riescono a
    malapena a muovere le zampine e api morte, abbandonate.
    L'apicultore apre lo sportello superiore e osserva la parte  superiore
    dell'alveare.  Anziché  le  fitte  schiere  di  api  che chiudono ogni
    fessura tra i favi e scaldano le larve, egli scorge, sì il complicato,
    artistico lavoro dei favi, ma nota che esso ha perso l'intatto aspetto
    di prima. Tutto è imbrattato e abbandonato.  Le nere api ladre vanno e
    vengono,   rapide  e  furtive,  tra  i  lavori;  quelle  dell'alveare,
    disseccate, avvizzite, inerti, come se fossero vecchie,  vagano lente,
    incapaci  di  impedire il furto,  senza nulla desiderare,  incoscienti
    della vita. Calabroni, fuchi, pecchioni,  farfalle della cera,  urtano
    volando  contro  le  pareti  dell'arnia.  Qua  e là,  tra le celle che
    racchiudono le larve morte e il miele,  si ode a  tratti  giungere  da
    varie  parti  un  iroso  brusio;  in un altro cantuccio due api stanno
    ripulendo, per vecchia abitudine,  il nido dell'arnia e faticosamente,
    con  grandi  sforzi,  trascinano  fuori un'ape morta o un fuco,  senza
    sapere a quale scopo lo facciano. In un altro angolo,  due vecchie api
    combattono tra loro pigramente, o si puliscono e si nutrono a vicenda,
    ignorando se lo fanno per amicizia o per ostilità.  In un terzo punto,
    un gruppo di api che si schiacciano a vicenda,  assalgono una  vittima
    qualsiasi,  l'abbattono e la soffocano.  E l'ape,  indebolita e uccisa
    lentamente,  fatta leggera come una piuma,  cade dall'alto nel mucchio
    dei cadaveri. L'apicultore rovescia le due pareti mediane per guardare
    la  cella nido.  Invece della massa compatta e nerastra di migliaia di
    api appiccicate dorso a dorso per  custodire  i  più  sublimi  misteri
    dell'alveare,   vede  soltanto  poche  centinaia  di  api  intristite,
    istupidite,  sonnacchiose.  Sono quasi tutte morte senza  avvedersene,
    ferme  al  loro  posto  di vigilatrici di quel santuario che ormai non
    esiste più. Emanano fetore di putrefazione e di morte. Soltanto alcune
    si muovono,  volano pigramente,  si posano sulla mano del nemico senza
    aver  la  forza  di morire pungendola;  le altre,  quelle ormai morte,
    cadono  lentamente  come  squame  di  pesce.  L'apicultore  chiude  lo
    sportello,  segna con il gesso l'alveare e,  al momento opportuno,  lo
    spezza e lo brucia.
    Così era vuota Mosca quando Napoleone  stanco,  inquieto,  accigliato,
    camminava avanti e indietro presso il bastione del Collegio dei Paggi,
    aspettando  almeno  quella  manifestazione,  esteriore sì,  ma per lui
    necessaria, dell'arrivo della deputazione.
    In vari punti di Mosca si aggiravano ancora senza ragione,  per antica
    abitudine, alcune persone, senza sapere che cosa facessero.
    Quando,  con la dovuta cautela,  fu fatto sapere a Napoleone che Mosca
    era  deserta,   egli  guardò  con  ira  il  latore  della  notizia  e,
    voltandogli le spalle, continuò a passeggiare in silenzio.
    -  Fate  avanzare  la  mia  carrozza    -   ordinò.  Vi si sedette con
    l'aiutante di campo e mosse verso i sobborghi.
    "Moscou désert! Quel événement invraisemblable!" [50.  "Mosca deserta!
    Che avvenimento inverosimile!"], diceva tra sé.
    Non  entrò  in  città,  ma  si  fermò  alla  locanda  del  sobborgo di
    Dorogomìlovo.
    "Le coup de théatre avait raté!" [51. Il colpo di scena era fallito!].


    CAPITOLO 21.

    Le truppe russe attraversarono Mosca  dalle  due  di  notte  alle  due
    pomeridiane,  trascinandosi dietro gli ultimi abitanti che partivano e
    gli ultimi feriti.
    Durante  il  passaggio  delle  truppe  regnò   un'enorme   confusione,
    specialmente sui ponti Kamenni, Moskvoretz e Jasùsk.
    Quando le truppe, divise in due colonne attorno al Cremlino, si furono
    affollate  sui ponti,  un gran numero di soldati,  approfittando della
    sosta e dello scompiglio,  ritornarono indietro e sgattaiolarono zitti
    e  furtivi  accanto  alla  chiesa  del Beato Vassilij e sotto la porta
    Borovitzki, dirigendosi alla Piazza Rossa dove prevedevano, per chi sa
    quale fiuto,  di poter prendere,  senza fatica,  la roba  altrui.  Una
    densa folla,  come quella che si accalca davanti alle mercanzie a poco
    prezzo, gremiva tutte le gallerie e i passaggi del Gostinnij-Dvor.  Ma
    non  si  udivano le voci allettanti e falsamente cortesi dei mercanti,
    giacché mancavano i venditori  ambulanti  e  mancava  la  folla  delle
    compratrici  dalle  vesti variopinte.  Si vedevano soltanto uniformi e
    cappotti di soldati senza fucile che  entravano  a  mani  vuote  nelle
    botteghe e ne uscivano,  in silenzio,  carichi di roba. I mercanti e i
    commessi  -  poco numerosi  -   si  aggiravano  come  smarriti  tra  i
    soldati,  aprivano  e  chiudevano  le loro botteghe portando via,  con
    l'aiuto dei garzoni, tutto ciò che potevano.  Sulla piazza,  presso il
    Gostinnij-Dvor,  i  tamburini  chiamavano a raccolta.  Ma il rullo dei
    tamburi non faceva accorrere, come un tempo,  i soldati alla chiamata,
    ma li induceva,  al contrario,  a fuggire più lontano.  Tra i soldati,
    nelle botteghe e nei passaggi, si vedevano uomini con caffettani grigi
    e la testa rasata.  Due ufficiali,  uno con una sciarpa sull'uniforme,
    in sella a un magro cavallo grigio scuro e l'altro con il cappotto,  a
    piedi,  stavano sulla cantonata di Ilinka e  parlavano  tra  loro.  Un
    terzo ufficiale li raggiunse al galoppo.
    - Il generale ha dato ordine di cacciar via tutti quanti,  a qualunque
    costo. Roba mai vista! Metà degli uomini se l'è data a gambe!
    - Tu dove vai?  Voi dove andate?   -  gridò uno degli ufficiali a  tre
    soldati  di  fanteria  che,  senza  fucile,  con  i lembi del cappotto
    sollevati, sgattaiolavano davanti a lui verso le botteghe.   -  Fermi,
    canaglie!
    - Eh sì,  provatevi a radunarli!  -  esclamò un altro ufficiale.-  Non
    è possibile...  Bisogna marciare più in fretta perché non se ne vadano
    anche gli ultimi. Ecco tutto!
    - Marciare,  e come?  Si sono fermati lassù,  si accalcano sul ponte e
    non si muovono.  Oppure far spiegare una linea affinché gli ultimi non
    se la squaglino?
    - Ma andate laggiù! Cacciateli via!  -  gridò l'ufficiale più anziano.
    L'ufficiale  con  la  sciarpa  al  collo  scese da cavallo,  chiamò un
    tamburino e con lui si avviò sotto le arcate. Alcuni soldati fuggirono
    a gambe levate.  Un mercante,  con le guance e il naso rosseggianti di
    foruncoli e con l'espressione calma e sicura di chi sta facendo i suoi
    calcoli,  si avvicinò in fretta, con andatura quasi elegante, agitando
    le braccia, verso l'ufficiale.
    - Vostra nobiltà,  -  disse  -  fateci la grazia, difendeteci. Noi non
    badiamo a piccolezze,  lo facciamo con  piacere.  Entrate,  vi  prego,
    tirerò  subito fuori del panno,  anche due pezze per un gentiluomo,  e
    con vero piacere!  Perché noi comprendiamo: ma questo  che  cos'è.  E'
    brigantaggio  bello  e  buono.  Favorite!  Ci  mettessero almeno delle
    sentinelle per poter chiudere...
    Alcuni mercanti attorniarono l'ufficiale.
    -  Quante  ciance  inutili!     -    disse   uno   di   essi,   magro,
    dall'espressione  severa.   -  Tagliata la testa,  non si piange per i
    capelli.  Ognuno prenda quel che vuole!   -  E,  con un gesto energico
    della mano, si voltò di fianco verso l'ufficiale.
    -  Tu  hai  un bel dire,  Ivàn Sidoryc'  -  ribatté il primo mercante,
    irritato. - Favorite, vostra nobiltà.
    - Un bel dire!   -  gridò il tipo magro.    -    Ma  io  qui,  in  tre
    botteghe,  ho  merce  per  centomila  rubli.  Chi te la può mettere in
    salvo, quando le truppe se ne saranno andate? Ehi,  gente mia,  contro
    la volontà di Dio chi può lottare?
    - Favorite, vostra nobiltà  -  ripeté il primo mercante, inchinandosi.
    L'ufficiale era dubbioso: sul suo viso si leggeva la perplessità.
    -  Ma  che  me ne importa!   -  gridò a un tratto,  e si avviò a passi
    rapidi lungo la fila delle botteghe.
    Da una bottega aperta si udivano giungere colpi e improperi e,  mentre
    l'ufficiale si avvicinava,  balzò fuori, scacciato a spintoni, un uomo
    in camiciotto grigio e con la testa rasata.
    Curvandosi, sgattaiolò via tra i mercanti e gli ufficiali. L'ufficiale
    si slanciò sui soldati che si trovavano  nella  bottega.  Ma  in  quel
    momento  si  udì  il clamore formidabile di un'immensa folla ferma sul
    ponte Moskvoretz, e l'ufficiale tornò di corsa sulla piazza.
    - Che succede?  Che succede?   -  domandava.  Ma il suo  compagno  già
    galoppava,  in  direzione del clamore,  verso un lato della chiesa del
    Beato Vassilij. L'ufficiale saltò a cavallo e lo seguì.  Quando arrivò
    al  ponte  vide  due  cannoni  staccati  dall'affusto,  una colonna di
    fanteria che attraversava il ponte, alcune carrette rovesciate,  facce
    sgomente  e facce ridenti di soldati.  Accanto ai cannoni era un carro
    trainato da due cavalli.  Dietro al carro si  pigiavano,  legati  alle
    ruote,  quattro  levrieri.  Sul  carro era stato ammassato un monte di
    roba e,  proprio sulla cima,  accanto a un seggiolino da bambini messo
    con le gambe all'insù,  sedeva una donna che urlava disperatamente con
    voce acuta e penetrante.  I colleghi raccontarono all'ufficiale che le
    grida  della  folla  erano  causate dal fatto che il generale Ermolov,
    imbattutosi  in  quella  calca  e  avendo   saputo   che   i   soldati
    saccheggiavano  le botteghe mentre gli abitanti ingombravano il ponte,
    aveva  dato  ordine  di  staccare  due  cannoni  dall'avantreno  e  di
    minacciare  di  sparare  sul  ponte.  La  folla,  rovesciando i carri,
    pigiandosi, gridando disperatamente,  aveva lasciato libero il ponte e
    le truppe si erano mosse in avanti.


    CAPITOLO 22.

    La  città  intanto  era  vuota.  Per le strade non si vedeva quasi più
    nessuno. I portoni e le botteghe erano chiusi; qua e là,  accanto alle
    bettole,  si  udivano  grida  isolate  o canti di ubriachi.  Nelle vie
    nessuno circolava in carrozza, raramente si udivano i passi di qualche
    pedone.  La via Povàrskaja  era  silenziosa  e  deserta.  Nell'immenso
    cortile  della  casa  dei  Rostòv  si  vedevano  disseminati  qua e là
    rimasugli di fieno,  sterco  di  animali,  ma  non  un  essere  umano.
    Nell'interno  della casa,  dove erano rimasti tutti i beni dei Rostòv,
    c'erano due uomini: il portiere Ignàt e il servitorello Miska,  nipote
    di  Vassilyc',  restato  a  Mosca  con  il  nonno.  Miska,  aperto  il
    clavicembalo, vi sonava su con un dito solo. Il portiere,  con le mani
    sui fianchi,  sorridendo allegramente, stava ritto davanti a un grande
    specchio.
    - Che musica,  eh,  zio Ignàt  -  esclamò il  bambino,  cominciando  a
    pestare con tutt'e due le mani sulla tastiera.
    - To'!   -  rispose Ignàt meravigliandosi che,  nello specchio, il suo
    viso sorridesse sempre di più.
    - Gente svergognata!  Proprio svergognata!   -  gridò alle loro spalle
    Mavra Kuzmìnisna,  che era entrata piano piano.  -  Guardatelo un po',
    quel brutto muso come mette in  mostra  i  denti!  Solo  questo  siete
    capaci  di  fare.  Di  là  c'è  ancora  tutto  da  mettere in ordine e
    Vassilyc' è stanco morto. Vi insegnerò io...
    Ignàt, accomodandosi la cintura,  smise di sorridere e,  abbassati gli
    occhi, uscì docilmente dalla stanza.
    - Zietta, sonerò pian pianino  -  pregò il ragazzetto.
    -  Te  lo  do  io  il  pian pianino...  bricconcello!   -  gridò Mavra
    Kuzmìnisna,  facendo l'atto di alzare la mano.   -  Va' a preparare il
    samovàr al nonno.
    Mavra  Kuzmìnisna,  dopo  aver spolverato il clavicembalo,  abbassò il
    coperchio e,  sospirando profondamente,  lasciò la  sala  e  chiuse  a
    chiave la porta.
    Uscendo  nel  cortile,  Mavra  Kuzmìnisna rimase incerta sul da farsi:
    andare nel padiglione a prendere il  tè  con  Vassilyc'  oppure  nella
    dispensa  a  mettere  in  ordine  ciò che non era ancora stato messo a
    posto?
    Nella via silenziosa si udì un  rumore  di  passi  affrettati  che  si
    fermarono  al cancello;  il chiavistello stridette,  mosso da una mano
    che cercava di aprire.
    Mavra Kuzmìnisna andò al cancello.
    - Chi cercate?
    - Il conte, il conte Iljà Andreic' Rostòv.
    - E voi chi siete?
    - Un ufficiale.  Ho bisogno di parlargli  -   rispose  una  simpatica,
    signorile voce russa.
    Mavra  Kuzmìnisna  aprì  il  cancello.  Entrò nel cortile un ufficiale
    giovanissimo, sui diciotto anni, dal viso tondo, tipico dei Rostòv .
    - E' partito,  caro.  Sono partiti tutti ieri,  verso l'ora del vespro
    -   rispose affabilmente Mavra Kuzmìnisna.
    Il  giovane  ufficiale,  ritto  presso  il cancello,  come indeciso se
    dovesse o no entrare, fece schioccare la lingua.
    - Ah, che disdetta!  -  esclamò.  -  Sarei dovuto venire ieri...  Come
    mi dispiace!
    Mavra  Kuzmìnisna,  frattanto,  osservava attentamente e con simpatia,
    sulla faccia del giovane ufficiale,  i tratti a  lei  ben  noti  della
    famiglia  Rostòv  e  il  cappotto logoro e gli stivali scalcagnati che
    egli indossava.
    - Perché vi occorreva parlare con il conte?  -  domandò al giovane.
    - Ma ormai non c'è niente da fare!   -  disse l'ufficiale contrariato,
    e  posò  la mano sul cancello come se avesse intenzione di uscire.  Ma
    poi si fermò, esitante.
    - Sapete?  -  disse a un tratto.  -  Sono un parente del conte ed egli
    è sempre stato molto buono con me. E ora,  vedete  -  (e con un gaio e
    bonario  sorriso  si  guardò il mantello e gli stivali)  -  ora ho gli
    abiti in cattivo stato e non  ho  denaro;  volevo  perciò  pregare  il
    conte...
    Mavra Kuzmìnisna non lo lasciò dire.
    - Volete aspettare un minutino, caro, un minutino soltanto?  -  disse.
    E,  non  appena  l'ufficiale  ebbe  tolto la mano dal cancello,  Mavra
    Kuzmìnisna si voltò e,  con i suoi passettini frettolosi  di  vecchia,
    attraversò il cortile per andare nel suo padiglione.
    Mentre  Mavra  Kuzmìnisna  correva  nella  sua  camera,   l'ufficiale,
    chinando il capo e guardandosi gli  stivali  scalcagnati,  passeggiava
    avanti e indietro per il cortile, sorridendo lievemente.
    "Peccato  che  non abbia trovato lo zio!  Ma che simpatica vecchietta!
    Dove sarà andata con tanta fretta?  E come fare a sapere quale  strada
    dovrò  seguire  per raggiungere il mio reggimento che a quest'ora sarà
    nei  pressi  di  via  Rogòzkaja?",  si  chiedeva  intanto  il  giovane
    ufficiale.
    Mavra  Kuzmìnisna,  con  il  viso  a  un  tempo spaventato e risoluto,
    ricomparve da dietro un angolo, tenendo in mano un fazzoletto a quadri
    arrotolato.  Quando  fu  a  pochi  passi  dal  giovane,   rispiegò  il
    fazzoletto  e  ne  estrasse una banconota bianca da venticinque rubli,
    che si affrettò a porgergli.
    -  Se  sua  eccellenza  fosse  stata  in  casa,  avrebbe  certo,  come
    parente... ma ecco... ora, forse...
    La vecchia si intimidì e si confuse.  Ma l'ufficiale, senza schermirsi
    e senza affrettarsi,  prese la banconota e ringraziò Mavra Kuzmìnisna.
    -    Se il conte fosse stato a casa  -  ripeteva la vecchietta,  quasi
    scusandosi.   -  Cristo vi accompagni,  caro,  e  vi  protegga  !    -
    aggiunse, inchinandosi e accompagnando il giovane.
    L'ufficiale,  sorridendo  e scuotendo il capo come se si facesse beffe
    un poco di se stesso, se ne andò, quasi correndo, per le vie deserte a
    raggiungere il suo reggimento sul ponte Jasùsk.
    E Mavra Kuzmìnisna,  con gli occhi umidi di lacrime,  rimase ancora  a
    lungo  davanti  al  cancello  chiuso,  scuotendo pensierosa la testa e
    sentendo un inatteso impeto  di  tenerezza  materna  e  di  pietà  per
    quell'ufficialetto sconosciuto.


    CAPITOLO 23.

    In  una  bettola,  al  pianterreno  di  una  casa in costruzione m via
    Varvarka,  risonavano canti e  grida  di  ubriachi.  In  un'angusta  e
    sudicia stanzetta sedevano sulle panche,  lungo le tavole, una diecina
    di operai ubriachi, sudati, con gli occhi intorpiditi che, spalancando
    la bocca,  urlavano una canzone.  Cantavano ognuno per proprio  conto,
    con sforzi faticosi,  evidentemente non perché ne avessero voglia,  ma
    per far vedere che erano ubriachi e  che  facevano  baldoria.  Uno  di
    essi,  un giovanotto alto e biondo,  con un lindo camiciotto turchino,
    stava in piedi accanto a coloro che cantavano.  Il suo viso  dal  naso
    diritto  e  sottile  sarebbe  stato  bello  se non avesse avuto troppo
    sottili e troppo rincagnate le labbra che egli moveva incessantemente,
    e se i suoi occhi non avessero avuto uno sguardo torbido, accigliato e
    fisso.  Stava in piedi presso  quelli  che  cantavano  e,  figurandosi
    evidentemente  Dio  sa  che  cosa,  con  una manica rimboccata sino al
    gomito,  mostrando un braccio bianchissimo,  lo  agitava  solennemente
    sopra  le  loro teste,  sforzandosi di allargare in modo innaturale le
    sudicie  dita  della  mano.   La   manica   del   camiciotto   tendeva
    continuamente a scendere,  ed egli la rimboccava diligentemente con la
    sinistra,  come se fosse molto importante  che  quel  braccio  bianco,
    muscoloso  e  gesticolante,  fosse nudo.  Nel bel mezzo di una canzone
    risonarono,  nel vestibolo e sul terrazzino coperto,  le  grida  e  il
    rumore di una rissa. Il giovane alto fece un gesto con la mano.
    - Basta!    -  gridò in tono autoritario.  -  Una rissa, ragazzi!-  e,
    senza smettere di rimboccarsi la manica, uscì sul terrazzino.
    Gli operai lo seguirono. Gli operai, che quella mattina avevano bevuto
    nella bettola sotto la guida del  giovane  alto,  avevano  portato  al
    bettoliere alcune pelli dalla fabbrica e in cambio avevano ricevuto il
    vino.  I  fabbri  della  fucina  accanto,  udendo  quel  baccano nella
    bettola,  pensarono che questa fosse stata presa d'assalto e  volevano
    entrare per forza. E sulla soglia era scoppiata la rissa.
    Sulla porta il taverniere si batteva con un fabbro;  mentre gli operai
    stavano uscendo,  il fabbro,  svincolatosi dal taverniere,  era caduto
    bocconi sul selciato;  un altro fabbro, cercando di entrare per forza,
    s'era buttato con il petto addosso all'oste.
    Il giovanotto con la manica rimboccata, passando, colpì con un ceffone
    l'uomo che voleva entrare e gridò selvaggiamente:
    - Ragazzi, picchiano i nostri!
    Intanto il primo fabbro si era alzato da terra e,  passandosi le  mani
    sul viso insanguinato e pesto, prese a gridare con voce lamentosa:
    - Aiuto! Mi hanno assassinato! Hanno ammazzato un uomo! Compagni!
    - Santi benedetti, hanno ucciso un uomo, l'hanno picchiato a morte!  -
    gridò una donna,  uscendo da un portone vicino.  Una numerosa folla si
    radunò attorno al fabbro insanguinato.
    - Non ti bastava di derubare la  gente,  di  portargli  via  anche  la
    camicia    -    disse  qualcuno rivolgendosi all'oste.   -  Perché hai
    ammazzato un uomo? Brigante!
    Il giovanotto alto,  ritto sul  terrazzino,  guardava  con  gli  occhi
    torbidi ora il fabbro,  ora il taverniere, come se riflettesse con chi
    dovesse ora venire alle mani.
    - Assassino!   -   urlò  improvvisamente  all'oste  .    -    Ragazzi,
    legatelo!
    - Sì, hai proprio trovato uno da legare!  -  gridò l'oste, respingendo
    coloro  che gli si erano avventati contro e,  strappatosi il berretto,
    lo scaraventò violentemente a terra.
    Come se quel gesto avesse avuto un misterioso significato di minaccia,
    gli operai che avevano circondato l'oste si fermarono perplessi.
    - Io, mio caro, conosco molto bene le leggi. Andrò al commissariato di
    polizia.  Credi che non ci vada?  Oggigiorno non è  lecito  a  nessuno
    agire da briganti!  -  gridò il bettoliere, raccattando il berretto.
    - Andiamoci,  su,  andiamoci pure!   -  ripetevano uno dopo l'altro il
    bettoliere e il giovanotto alto,  e tutti e due si  avviarono  insieme
    lungo la via.
    All'angolo  di  via  Morosséjka,  di  fronte  a  una grande casa dalle
    finestre chiuse, sulla quale spiccava l'insegna di una calzoleria, una
    ventina di calzolai erano fermi in gruppo,  una ventina di uomini  dal
    viso  stanco  e  magro,  che  indossavano laceri camiciotti e bluse da
    lavoro.
    - La gente la deve pagare come si deve!   -  diceva un calzolaio dalla
    barbetta a punta e dal viso accigliato.   -  Ci ha succhiato il sangue
    e adesso ci pianta. Per tutta la settimana ci ha menati per il naso ed
    ecco che ora, all'ultimo, se ne è andato anche lui.
    Alla vista della folla e dell'uomo insanguinato, l'artigiano che stava
    parlando tacque e tutti i calzolai,  incuriositi,  si  affrettarono  a
    unirsi alla folla in cammino.
    - Dove va questa gente?
    - Facile da immaginarselo: va al commissariato.
    - E' vero che i nostri le hanno prese?
    - Ma tu cosa credevi? Senti un po' ciò che dice la gente...
    Le domande e le risposte si incrociavano. Il bettoliere, approfittando
    della  folla  che  si faceva sempre più numerosa,  si scostò e ritornò
    alla sua taverna.
    Il  giovanotto  alto,   senza  accorgersi  della  scomparsa  del   suo
    avversario,  continuava a parlare, agitando il braccio nudo e attirava
    sopra di sé l'attenzione di tutti. Il popolo gli si accalcava attorno,
    sperando di avere da lui la soluzione dei problemi  che  preoccupavano
    tutti.
    - Devono farci vedere l'ordine, farci vedere la legge: per questo sono
    lì.  Dico bene,  fratelli ortodossi?   -  chiedeva il giovanotto alto,
    sorridendo di un impercettibile sorriso.
    - Crede forse che non ci siano le autorità?  Come si può farne  senza?
    Altro che saccheggiare allora...
    -  Quante  assurdità  si  dicono!   -  rispondevano alcune voci tra la
    folla. - Come! Si abbandona Mosca?  Te l'hanno detto per burla e tu ci
    hai  creduto.  Eppure,  soldati  nostri ne passano.  E così "lo" hanno
    lasciato entrare!  Per questo ci sono le autorità!  Ascolta un po' ciò
    che dice la gente!  -  ripetevano, indicando il giovanotto alto.
    Presso  le  mura di Kitàj-Gorod,  un'altra piccola folla circondava un
    uomo dal cappotto di lana crespa che  teneva  in  mano  un  foglio  di
    carta.
    - Stanno leggendo un'ordinanza!  Stanno leggendo un'ordinanza!  si udì
    gridare tra la folla, e la gente si accalcò attorno al lettore.
    L'uomo dal cappotto di lana leggeva il manifesto del 31 agosto. Quando
    la folla lo circondò, parve confondersi, ma alla richiesta del giovane
    alto, che si era fatto largo sino a lui,  prese a leggere il manifesto
    con voce che, sulle prime, tremava.
    "Domattina,  di  buon'ora,  mi  recherò  da  sua  altezza  serenissima
    (serenissima, ripeté in tono solenne il giovanotto alto con il sorriso
    sulla bocca e le sopracciglia aggrottate)  -  per conferire  con  lui,
    agire e aiutare le truppe a debellare i malfattori; ci metteremo anche
    noi a...   -  proseguì il lettore e si interruppe. ("Hai visto?" gridò
    in tono vittorioso il giovanotto.  "Egli li spazzerà via tutti  quanti
    e...")    -  distruggerli e a mandarli al diavolo.  Tornerò domani per
    l'ora di pranzo e ci daremo da fare,  agiremo e  daremo  il  colpo  di
    grazia ai malfattori".
    Queste ultime parole furono lette in mezzo a un profondo silenzio.  Il
    giovanotto alto chinò tristemente il capo.  Era evidente  che  nessuno
    aveva  compreso queste ultime parole.  Specialmente la frase: "tornerò
    domani per l'ora del pranzo" aveva rattristato, era chiaro, il lettore
    e gli ascoltatori.  La comprensione del popolo era sintonizzata  a  un
    più  alto  livello,  mentre  questo  era troppo semplice e inutilmente
    comprensibile,  era ciò che ognuno dei presenti avrebbe potuto dire  e
    che perciò un'ordinanza emanata dall'autorità suprema non doveva dire.
    Tutti rimanevano muti e tristi.  Il giovane alto moveva le labbra e si
    dondolava.
    - Bisognerebbe domandarlo a lui!  E' proprio lui che ce lo può dire...
    Lui  ci spiegherà...   -  si udì tra le ultime file della folla,  e la
    generale attenzione fu rivolta al calessino del capo della polizia che
    entrava nella piazza, scortato da due dragoni a cavallo.
    Il capo della polizia,  che quella mattina per ordine  del  conte  era
    andato a incendiare le chiatte sul fiume,  incarico che gli aveva reso
    una bella somma di denaro che ora portava in tasca,  vedendo una folla
    di gente che moveva alla sua volta, ordinò al cocchiere di fermarsi.
    -  Chi  sono  costoro?    -    gridò  alle  persone che timidamente si
    avvicinavano al calesse.   -  Chi sono?  Vi domando  -  ripeté il capo
    della polizia, non avendo ricevuto risposta.
    - Essi,  eccellenza,   -  prese a dire il commesso in cappotto di lana
    crespa  -  essi,  eccellenza,  secondo l'ordine del  conte  Rastopcìn,
    desiderano rendersi utili senza risparmio della vita. Non si tratta di
    una rivolta com'è stato detto dall'eccellentissimo conte...
    -  Il  conte  non  è partito.  E' qui,  e voi riceverete degli ordini-
    dichiarò il capo della polizia.   -   Avanti!    -    comandò  poi  al
    cocchiere.
    La  folla si fermò,  raggruppandosi attorno a coloro che avevano udito
    le parole del capo della polizia e seguendo con gli occhi il calessino
    che si allontanava.
    Il capo della polizia, intanto, si voltò indietro con aria spaventata,
    disse qualcosa al cocchiere, e i cavalli accelerarono l'andatura.
    - E' un inganno, compagni! Andiamo da lui!   -  gridò il giovane alto.
    -  Fermatelo! Ci renda conto! Fermatelo!  -  gridarono alcune voci; la
    folla  si  precipitò  dietro  al calessino e,  parlando rumorosamente,
    seguì il capo della polizia sino alla via Lubjanka.
    - Ma come? I signori e i mercanti se ne sono andati,  e noi per questo
    dobbiamo  morire di fame?  Siamo forse dei cani,  noi?   -  si sentiva
    sempre più spesso gridare in mezzo alla folla.


    CAPITOLO 24.

    La sera del primo settembre,  dopo il colloquio con Kutuzòv,  il conte
    Rastopcìn,  afflitto  e  offeso  perché  non  era  stato  invitato  al
    Consiglio di guerra e perché Kutuzòv non si era curato  affatto  della
    sua  proposta di prender parte alla difesa della città,  stupito della
    nuova opinione di cui aveva avuto la rivelazione al campo e secondo la
    quale la  questione  della  sicurezza  della  capitale  e  quella  dei
    sentimenti patriottici della popolazione erano non solo secondarie, ma
    addirittura insignificanti e intugli; addolorato, offeso e stupito per
    tutto  questo,  il  conte  Rastopcìn tornò a Mosca.  Dopo aver cenato,
    senza neppure svestirsi,  si coricò su un divano e all'una di notte fu
    destato  da  un  corriere,  latore  di  una lettera di Kutuzòv.  Nella
    lettera era detto che,  siccome le truppe indietreggiavano  di  là  da
    Mosca  sulla  via  di  Rjazàn,  si  pregava il conte di mandare alcuni
    agenti di polizia  per  accompagnarle  attraverso  la  città.  Non  si
    trattava  di  una novità per Rastopcìn.  Non solo dal suo incontro del
    giorno avanti con Kutuzòv,  ma sin dalla  battaglia  di  Borodinò,  da
    quando   tutti   i  generali  venuti  a  Mosca  avevano  concordemente
    dichiarato che era impossibile dare un'altra battaglia, da quando, con
    il suo consenso,  ogni notte si  portavano  via  i  beni  appartenenti
    all'erario e la metà degli abitanti erano partiti,  il conte Rastopcìn
    sapeva che Mosca sarebbe stata abbandonata; tuttavia una tale notizia,
    comunicata mediante un  semplice  biglietto  in  forma  di  ordine  da
    Kutuzòv  e  ricevuta di notte,  durante il primo sonno,  lo stupì e lo
    irritò.
    In seguito,  spiegando la sua  attività  di  quel  periodo,  il  conte
    Rastopcìn scrisse parecchie volte,  nelle sue memorie, di avere mirato
    allora a due cose importanti: "de maintenir la tranquillité  à  Moscou
    et d'en faire partir les habitants" [52. di mantenere l'ordine a Mosca
    e  di  farne  partire  gli abitanti].  Se si ammettesse questo duplice
    scopo, la condotta di Rastopcìn apparirebbe irreprensibile. Perché non
    erano state portate via da  Mosca  le  sante  reliquie,  le  armi,  le
    munizioni,  la  polvere,  i  depositi  di  grano?  Perché  migliaia di
    abitanti furono ingannati e ridotti alla rovina con l'affermazione che
    Mosca non sarebbe stata abbandonata?  "Per mantenere  la  calma  nella
    capitale",  risponde il conte Rastopcìn.  Perché furono fatti partire,
    dalle varie amministrazioni,  mucchi di carte  inutili  e  il  pallone
    aerostatico  di  Leppich e altre cose?  "Per lasciare vuota la città",
    risponde ancora il  conte  Rastopcìn.  Basta  soltanto  ammettere  che
    qualcosa  minacciasse  la  tranquillità  del  popolo  e qualsiasi atto
    appare giustificato.
    Tutte le efferatezze del Terrore furono commesse  soltanto  avendo  di
    mira la tranquillità del popolo.
    Su  che  cosa  si  fondava  la  paura  del  conte  Rastopcìn  circa la
    tranquillità del popolo a Mosca nell'anno 1812?  Quale motivo  vi  era
    per  presumere  nella  città  una tendenza alla rivolta?  Gli abitanti
    partivano, le truppe, ritirandosi,  gremivano Mosca.  Perché il popolo
    si sarebbe dovuto sollevare?
    Non soltanto a Mosca,  ma in tutta la Russia,  all'entrare del nemico,
    non accadde nulla di simile a una rivolta. Nei giorni 1 e 2 settembre,
    più  di  diecimila  persone  erano  ancora  a  Mosca  e,   tranne  gli
    assembramenti   della   folla   nel  cortile  del  generale  in  capo,
    assembramenti da lui stesso provocati, non avvenne nulla.  E' evidente
    che  una rivolta popolare sarebbe stata ancor meno probabile se,  dopo
    la battaglia di Borodinò,  quando l'abbandono di  Mosca  era  divenuto
    certo o almeno probabile,  Rastopcìn, anziché turbare il popolo con la
    distribuzione di armi e di manifesti,  avesse provveduto a far  uscire
    dalla città tutti gli oggetti sacri,  le munizioni, il denaro e avesse
    apertamente  dichiarato  al  popolo  che  la   città   doveva   essere
    abbandonata.
    Rastopcìn,  uomo  collerico,  sanguigno,  che era sempre vissuto nelle
    alte sfere amministrative,  non  aveva,  malgrado  i  suoi  sentimenti
    patriottici,  la  benché  minima  idea  dell'anima  di quel popolo che
    credeva di governare.  Da quando il nemico era  entrato  in  Smolènsk,
    Rastopcìn   aveva  immaginato  di  assumere  la  parte  di  guida  del
    sentimento popolare,  di guida del cuore della Russia.  Non  solo  gli
    sembrava  (come  sembra  a  ogni  amministratore) di dirigere gli atti
    esteriori degli  abitanti  di  Mosca,  ma  anche  di  guidare  i  loro
    sentimenti per mezzo dei suoi appelli e dei suoi proclami,  scritti in
    quel linguaggio  da  trivio,  che  il  popolo  disprezza  nel  proprio
    ambiente  e  che  non comprende quando gli giunge dall'alto.  La bella
    parte di guida del sentimento popolare piaceva tanto a  Rastopcìn,  ed
    egli  se  ne era immedesimato a tal punto che la necessità di uscirne,
    la necessità di abbandonare Mosca senza alcun eroismo,  lo aveva colto
    alla  sprovvista;  a un tratto si era sentito mancare sotto i piedi il
    terreno su cui poggiava e non sapeva assolutamente  che  cosa  dovesse
    fare. Pur sapendo che Mosca sarebbe stata abbandonata, sino all'ultimo
    minuto,  con tutta l'anima, non riuscì a crederci e non fece nulla per
    prepararsi a quell'abbandono. Gli abitanti erano partiti contro la sua
    volontà.  Se gli uffici pubblici erano stati  sgombrati,  ciò  si  era
    verificato  soltanto  per  un'esigenza dei funzionari,  a cui il conte
    aveva di mala voglia acconsentito. Per parte sua, egli era tutto preso
    unicamente dalla parte che si era assunta.  Come  spesso  accade  agli
    uomini  dotati  di fervida immaginazione,  egli sapeva da un pezzo che
    Mosca  sarebbe  stata  abbandonata,   ma  lo   sapeva   soltanto   per
    ragionamento;  con l'anima non ci credeva,  giacché non si trasportava
    mai con la fantasia in quella nuova situazione.
    Tutta la sua attività,  zelante ed energica (quanto essa fosse utile e
    si riflettesse sul popolo è un'altra questione), tutta la sua attività
    era  diretta  unicamente  a suscitare negli abitanti il sentimento che
    egli stesso provava: l'odio patriottico contro i Francesi e la fiducia
    nelle proprie forze.
    Ma quando l'avvenimento assunse la sua vera storica dimensione, quando
    divenne insufficiente esprimere l'odio contro i  Francesi  soltanto  a
    parole,  quando  non fu più possibile esprimere quest'odio neppure con
    una battaglia,  quando la fiducia  in  sé  apparve  inutile  anche  in
    rapporto  al  solo  problema  di  Mosca;  quando  tutta la popolazione
    abbandonò i suoi beni e fuggì,  dimostrando  con  quest'atto  negativo
    tutta  la  forza  del  proprio  sentimento nazionale,  allora la parte
    assunta da Rastopcìn si rivelò ad un tratto priva di  senso.  Egli  si
    sentì improvvisamente solo, debole e ridicolo, senza più terreno sotto
    i piedi.
    Quando,  destato  nel  primo  sonno,  ricevette  il freddo,  imperioso
    biglietto di Kutuzòv, Rastopcìn si sentì tanto più irritato quanto più
    sentì di essere in colpa.  A Mosca rimaneva precisamente tutto ciò che
    gli  era stato affidato: vi rimanevano tutti quei beni dell'erario che
    doveva portare via. Ma portar via tutto non era più possibile.
    "Ma di chi è la colpa se siamo giunti a questo punto?", pensava.  "Non
    mia,  certamente.  Per  parte mia,  tutto era pronto.  Tenevo Mosca in
    pugno  così.  Ed  ecco  a  che  cosa  ci  hanno  ridotti!  Mascalzoni!
    Traditori!  Traditori!",  pensava  senza  stabilire  chi  fossero quei
    mascalzoni e quei traditori, ma sentendo la necessità di odiare quegli
    indefiniti traditori e mascalzoni,  colpevoli della condizione falsa e
    ridicola in cui si trovava.
    Per tutta quella notte il conte Rastopcìn impartì ordini, per ricevere
    i  quali  si veniva da lui da tutte le parti di Mosca.  Coloro che gli
    stavano accanto non l'avevano mai visto tanto accigliato e irritato.
    - Eccellenza, sono venuto a prendere ordini da parte del direttore del
    demanio...  del  concistoro...  dell'università...   dell'ospizio  dei
    trovatelli...  Quali  ordini avete per i pompieri?  Il direttore delle
    carceri vuol sapere... Il direttore del manicomio...   -  per tutta la
    notte fu un susseguirsi di richieste del genere.
    A  tutte  quelle  domande  il  conte  dava  risposte brevi e aspre che
    dimostravano come gli ordini fossero ormai inutili, come tutta l'opera
    da lui diligentemente preparata si sfasciasse per  colpa  di  qualcuno
    che  avrebbe  portato su di sé la responsabilità di tutto quanto stava
    per accadere.
    - Di' a quell'imbecille  -  rispondeva alla richiesta rivoltagli da un
    dipartimento del demanio  -  che  resti  a  far  la  guardia  ai  suoi
    documenti.  Ma  che  assurdità mi chiedi a proposito dei pompieri!  Se
    hanno dei cavalli,  vadano a Vladimir: non si possono mica lasciare ai
    Francesi!
    - Eccellenza, è venuto il custode del manicomio. Quali ordini gli devo
    trasmettere?
    - Ordini?  Che se ne vadano tutti.  Ecco!  E i pazzi li lascino uscire
    per la città.  Visto che da noi ci sono dei pazzi  che  comandano  gli
    eserciti, vuol dire che le cose devono andare così...
    E  quando  gli  domandarono  che  cosa si dovesse fare dei prigionieri
    chiusi in carcere, il conte gridò con violenza al direttore:
    - E che?  Vorreste  forse  due  battaglioni  di  scorta  che  non  ho?
    Lasciamoli tutti liberi, e basta!
    -   Eccellenza,   ci  sono  dei  prigionieri  politici:  Meskòv  (53),
    Veresciagin...
    - Veresciagin? Non l'hanno ancora impiccato?   -  gridò Rastopcìn.   -
    Portatemelo qui!


    CAPITOLO 25.

    Verso  le  nove  di  mattina,  mentre  le truppe attraversavano già la
    città,  nessuno veniva più a chiedere ordini a Rastopcìn.  Chi poteva,
    partiva per proprio conto; chi rimaneva, decideva da sé che cosa fare.
    Il  conte  aveva  ordinato  di  far  attaccare  i cavalli per andare a
    Sokòlniki e cupo, giallo e taciturno,  stava seduto a braccia conserte
    nel suo studio.
    In  periodi  di  tranquillità,  non burrascosi,  ogni amministratore è
    convinto che la popolazione si muova soltanto grazie ai suoi sforzi  e
    nella  consapevolezza  di  essere  indispensabile  trova la ricompensa
    principale alle sue fatiche e al suo lavoro;  si capisce che,  sino  a
    quando  il  mare della storia si mantiene calmo,  l'amministratore che
    con la sua fragile barchetta,  appoggiandosi con una pertica alla nave
    del popolo,  si muove anche lui, debba credere che siano i suoi sforzi
    a muovere la nave sulla quale egli si appoggia;  ma basta che si  levi
    una bufera, che il mare si agiti e la nave stessa si muova, perché non
    ci  sia  più  possibilità  di  errore.  La  nave  va avanti con il suo
    formidabile  moto  indipendente,   la  pertica  non   riesce   più   a
    raggiungerla e colui che governa scende a un tratto,  dalla condizione
    di  dominatore  e  di  fonte  di  forza,  a  quella  di  uomo  debole,
    insignificante, inutile.
    Rastopcìn si rendeva conto di tutto ciò e ne era irritato.
    Il capo della polizia, che era stato fermato dalla folla, e l'aiutante
    di  campo,  venuto ad avvertire che la carrozza era pronta,  entrarono
    contemporaneamente nello studio del conte.  Erano entrambi pallidi,  e
    il capo della polizia,  dopo aver riferito circa l'adempimento del suo
    incarico,  comunicò al  conte  che  una  immensa  folla  radunata  nel
    cortile, voleva vederlo.
    Rastopcìn,  senza  dir  nulla,  si alzò e a passi rapidi entrò nel suo
    lussuoso salone pieno di luce,  si avvicinò alla vetrata del  balcone,
    pose la mano sulla maniglia, la ritrasse e passò a una finestra, dalla
    quale scorgeva la folla. Il giovane alto si trovava in una delle prime
    file e con espressione severa diceva qualcosa, agitando il braccio. Il
    fabbro  insanguinato  gli  stava  accanto,  accigliato.  Attraverso la
    finestra chiusa, si udiva il brusio delle voci.
    - E' pronta la carrozza?   -   domandò  Rastopcìn,  scostandosi  dalla
    finestra.
    - Pronta, eccellenza  -  rispose l'aiutante di campo.
    Rastopcìn si avvicinò di nuovo alla vetrata del balcone.
    - Ma che cosa vogliono?  -  domandò al capo della polizia.
    - Dicono, eccellenza, che si sono riuniti per andar contro i Francesi,
    secondo  i  vostri  ordini...  Poco  fa  gridavano  di  non  so  quale
    tradimento. Ma è una folla molto agitata, eccellenza.  Sono riuscito a
    stento a farmi largo. Mi permetto di dirvi, eccellenza...
    - Vi prego di andare;  so ciò che devo fare senza i vostri consigli  -
    gridò Rastopcìn, irritato,  continuando a guardare la folla attraverso
    la vetrata del balcone.
    "Ecco  come  hanno  ridotto la Russia!  Ecco cosa hanno fatto di me!",
    pensava,  sentendo salirgli dal fondo dell'anima un'ondata di  collera
    contro  qualcuno  al  quale  si  potesse attribuire la colpa di quanto
    avveniva. Come spesso accade alle persone impulsive, la collera si era
    già impadronita di lui,  ma egli cercava  ancora  un  oggetto  su  cui
    sfogarsi. "La voilà la populace, la lie du peuple!" pensava, guardando
    la folla, "la plèbe qu'ils ont soulevée par leur sottise. Il leur faut
    une  victime" [54.  "Eccola,  la plebaglia,  la feccia del popolo!  la
    plebe che con la loro stupidità hanno sollevata.  Hanno bisogno di una
    vittima"],  concluse,  guardando il giovane alto che gesticolava.  Gli
    passò per  la  mente  questo  pensiero  proprio  perché  anche  a  lui
    occorreva una vittima su cui sfogare la sua ira.
    - E' pronta la carrozza?  -  domandò per la seconda volta.
    - Pronta, eccellenza. Che ordini date a proposito di Veresciagin? Egli
    aspetta presso la scalinata  -  rispose l'aiutante di campo.
    -  Ah!    -  esclamò Rastopcìn,  come colpito all'improvviso da chissà
    quale ricordo.
    E,  aperta di colpo la vetrata,  uscì con andatura decisa sul balcone.
    La  folla  di  colpo  ammutolì.  Copricapi e berretti si sollevarono e
    tutti gli occhi si fissarono sul governatore.
    - Salve,  ragazzi!   -  disse il conte in fretta,  ad alta voce.    Vi
    ringrazio  di essere venuti.  Tra poco sarò da voi,  ma prima di tutto
    dobbiamo regolare i  conti  con  un  malfattore,  dobbiamo  punire  il
    furfante che ha causato la rovina di Mosca. Aspettatemi!  -  E, con lo
    stesso  passo  veloce,  il  conte rientrò in casa,  sbattendo forte la
    porta.
    Un mormorio soddisfatto di approvazioni percorse la folla.
    - Così metterà a posto tutti i malfattori! E tu dici che i Francesi...
    ti farà veder lui come si fa!  -  dicevano qua e là tra la folla, come
    se la gente si rimproverasse a vicenda la propria mancanza di fede.
    Dopo qualche minuto, uscì dalla porta principale un ufficiale, impartì
    un ordine e i dragoni si schierarono. La folla si precipitò avidamente
    verso la scalinata,  in cima alla quale comparve,  a passi  irosamente
    concitati, Rastopcìn, guardandosi attorno, come se cercasse qualcuno.
    - Dov'è?   -  domandò e,  nel momento stesso in cui pronunziava quelle
    parole,  vide sbucare da dietro l'angolo della casa,  in mezzo  a  due
    dragoni,  un giovane magro,  dal lungo collo sottile e la testa rasa a
    metà, sulla quale stavano rispuntando i capelli.
    Il giovane indossava un pellicciotto corto di volpe ricoperto di panno
    turchino,  che un tempo era stato elegante,  larghi e sudici pantaloni
    di  tela  infilati  in stivali fini,  non lucidi e scalcagnati.  Dalle
    caviglie deboli  e  scarne  pendevano  pesanti  catene  che  rendevano
    esitante e faticosa l'andatura del giovane.
    - Ah!   -  disse Rastopcìn, distogliendo subito lo sguardo dal giovane
    in pellicciotto di  volpe  e  indicando  il  gradino  inferiore  della
    scalinata.  -  Mettetelo lì!
    Il giovane,  trascinando i ferri, salì a fatica il gradino, si allentò
    con un dito il collo della pelliccia che gli dava  fastidio,  voltò  a
    destra  e  a sinistra il lungo collo,  sospirò e poi,  con un gesto di
    rassegnazione, incrociò sul ventre le mani sottili non use al lavoro.
    Mentre il prigioniero si spostava sul gradino,  la folla continuava  a
    tacere;  soltanto dalle ultime file,  dove la gente premeva verso quel
    punto,  si  udivano  brontolii,  lamenti,   spintoni  e  un  frusciare
    incessante di piedi.
    Rastopcìn,  in attesa che il giovane si fermasse al punto indicato, si
    fregava con una mano le sopracciglia aggrottate.  Ragazzi!  -  esclamò
    con voce sonora e  metallica.    -    Quest'uomo,  Veresciagin,  è  il
    miserabile che ha cagionato la rovina di Mosca!
    Il  giovane  in  pellicciotto  rimaneva  lì,   nel  suo  atteggiamento
    rassegnato,  con le mani incrociate sul ventre e con il dorso  un  po'
    curvo.  Il  suo  viso  magro,  giovanile,  dall'espressione disperata,
    alterato dalla tosatura parziale del cranio,  era chino  verso  terra.
    Alle  prime  parole  del conte alzò lentamente il capo e lo guardò dal
    basso,  come se volesse dirgli qualcosa o,  almeno,  incontrare i suoi
    occhi.  Ma  Rastopcìn  non lo guardava.  Sul collo lungo e sottile del
    giovane una vena dietro l'orecchio si tese,  come una  corda,  divenne
    violacea e il viso improvvisamente si coprì di rossore.
    Gli  occhi  di  tutti erano puntati su di lui.  Egli fissò la folla e,
    quasi incoraggiato dall'espressione che leggeva su quei visi,  sorrise
    e, abbassato di nuovo il capo, posò saldamente i piedi sul gradino.
    -  Costui  ha  tradito lo zar e la patria,  si è venduto a Buonaparte!
    Unico tra tutti i Russi ha disonorato il nome  russo!  Per  opera  sua
    Mosca perisce  -  diceva Rastopcìn con voce dura e uguale;  ma diede a
    un tratto una rapida occhiata a Veresciagin che continuava ad avere un
    atteggiamento rassegnato.  E,  come se  quello  sguardo  avesse  fatto
    esplodere il suo sdegno,  alzando un braccio,  si rivolse al popolo e,
    quasi gridando, esclamò:
    - Fate voi giustizia! Ve lo consegno!
    La folla taceva. La gente si accalcava sempre di più, addossandosi gli
    uni agli  altri.  Quel  serrarsi  a  vicenda,  quel  respirare  l'aria
    soffocante senza avere la forza di muoversi,  in attesa di qualcosa di
    ignoto,  di inconcepibile e di spaventoso,  diventava  insopportabile.
    Coloro che stavano nelle prime file,  che udivano e capivano tutto ciò
    che avveniva dinanzi a loro,  con gli occhi sbarrati dallo spavento  e
    con  la bocca aperta,  tendevano tutte le loro forze per trattenere la
    continua spinta di quelli che stavano alle loro spalle.
    - Colpitelo! Perisca il traditore e non disonori più il nome russo!  -
    gridò Rastopcìn.  -  Fatelo a pezzi: ve lo ordino!
    Non udendo le parole,  ma il suono iroso della voce di  Rastopcìn,  la
    folla fremette, si mosse in avanti, ma subito si fermò.
    -  Conte!    -  si levò,  durante un breve momento di silenzio la voce
    timida e insieme teatrale di Veresciagin.  -  Conte,  Dio solo è sopra
    di noi  -  disse alzando la testa,  mentre di nuovo la grossa vena del
    collo sottile si inturgidiva di sangue,  il rossore  gli  affluiva  al
    viso e scompariva immediatamente. Non poté finire ciò che voleva dire.
    -  Fatelo  a pezzi!  Ve lo ordino!   -  gridò Rastopcìn,  fattosi a un
    tratto pallido come Veresciagin.
    - Sguainate le sciabole  -  urlò l'ufficiale dei  dragoni,  sguainando
    la sua.
    Una  seconda  e più violenta ondata percorse la folla;  giungendo alle
    prime file, urtò quelli davanti e, oscillando,  le sospinse sino sotto
    i  gradini.  Il  giovanotto,  con  il  viso  impietrito  e  il braccio
    sollevato, si trovò vicino a Veresciagin.
    - Colpitelo!   -  ordinò quasi in un sussurro l'ufficiale dei dragoni,
    e  subito  uno  dei soldati colpì Veresciagin con una piattonata sulla
    testa.
    - Ah!  -  gemette la vittima, quasi con stupore, guardandosi attorno e
    non riuscendo a capire perché lo trattassero così. Lo stesso gemito di
    meraviglia e di orrore percorse la folla.
    - Oh, Signore!  -  mormorò tristemente qualcuno.
    Ma dopo quell'esclamazione di stupore,  Veresciagin  lanciò  un  grido
    lamentoso di dolore, e quel grido fu causa della sua perdita.
    Il  freno  del  sentimento  umano,  che  era  teso  al massimo grado e
    tratteneva ancora la  folla,  si  spezzò  di  colpo.  Il  delitto  era
    cominciato, bisognava perpetrarlo sino in fondo. Quel lamentoso gemito
    di   rimprovero   fu   soffocato  dall'urlo  minaccioso  della  folla.
    Un'ondata,  simile alla settima e ultima ondata,  quella che distrugge
    la  nave,  si rovesciò dalle ultime file,  giunse sino alla prima,  la
    travolse e inghiottì  tutto.  Il  dragone  che  aveva  colpito,  volle
    colpire ancora.  Veresciagin,  con un urlo di orrore e riparandosi con
    le braccia,  si slanciò verso la folla,  cadde addosso  al  giovanotto
    alto,  questi serrò le mani attorno al collo delicato di Veresciagin e
    con un grido selvaggio stramazzò con la vittima sotto  i  piedi  della
    folla in delirio.
    Alcuni  percuotevano  e  ferivano  Veresciagin,   altri  colpivano  il
    giovanotto alto. Le grida degli uomini,  che soffocavano nella calca e
    di  quelli  che  cercavano  di  proteggere il giustiziere,  eccitavano
    sempre più la folla.  Il dragone stentò a lungo a  liberare  l'operaio
    insanguinato,  pesto, mezzo morto e per un pezzo, nonostante la fretta
    febbrile con cui la folla cercava di compiere l'opera cominciata,  gli
    uomini  che  colpivano,  soffocavano  e  straziavano Veresciagin,  non
    riuscivano a ucciderlo.  La folla che li premeva da  tutti  i  lati  e
    ondeggiava  come  massa  compatta  da una parte all'altra non lasciava
    loro la possibilità di finire la vittima né di abbandonarla.
    - Colpitelo con la scure,  no?  L'hanno schiacciato...  Traditore!  Ha
    venduto Cristo!  E' ancora vivo...  Ben gli sta! Con la scure, avanti!
    E' ancora vivo?
    Soltanto quando la  vittima  cessò  di  dibattersi  e  alle  sue  urla
    seguirono gemiti prolungati e regolari,  la folla cominciò ad agitarsi
    rapidamente attorno al corpo insanguinato che giaceva a terra.  Ognuno
    si  avvicinava,  guardava  ciò  che  era  stato fatto e indietreggiava
    inorridito, con biasimo e stupore.
    - Oh,  Signore Iddio!  Il popolo è come una bestia  feroce!  Come  può
    essere vivo?   -  si udiva tra la gente.   -  Ed era giovane... figlio
    di mercanti,  pare...  Dicono che non  sia  lui  il  colpevole...  Oh,
    Signore!  Ne hanno finito un altro...  pare che respiri appena...  Eh,
    gli uomini...  non hanno paura di peccare...   -   diceva  ora  quella
    stessa gente,  guardando con un'espressione di dolore e di compassione
    il cadavere dal viso livido,  imbrattato di sangue e di polvere,  e il
    lungo collo squarciato dai colpi.
    Uno zelante funzionario di polizia, ritenendo sconveniente la presenza
    di  quel cadavere nel cortile di sua eccellenza,  ordinò ai dragoni di
    trascinarlo sulla strada.  Due dragoni,  afferrata la vittima  per  le
    gambe schiacciate, la trascinarono via. La testa insanguinata, rasa da
    un  lato,  imbrattata  di  polvere,  rimbalzò  sul suolo.  La gente si
    pigiava indietro, lontano dal cadavere.
    Mentre Veresciagin cadeva  e  la  folla,  urlando  selvaggiamente,  si
    accalcava ondeggiando attorno a lui, Rastopcìn si fece improvvisamente
    pallido  e  invece  di  andare  verso  l'ingresso  di servizio dove lo
    attendevano i suoi cavalli, senza sapere dove si dirigesse e perché, a
    capo chino e a rapidi passi si era incamminato lungo un corridoio  che
    portava  nelle  camere  del  piano  terreno.  Il  volto  del conte era
    pallido, ed egli non poteva frenare il tremito febbrile della mascella
    inferiore.
    - Di qua,  eccellenza,  dove volete andare?  Favorite di qua  -  disse
    alle sue spalle una voce tremante e spaventata. Il conte Rastopcìn non
    era  in grado di rispondere e,  voltandosi docilmente,  si avviò nella
    direzione  indicatagli.  All'ingresso  di  servizio  lo  attendeva  la
    vettura. Anche lì giungeva il sordo rumoreggiare della folla. Il conte
    Rastopcìn  prese rapidamente posto in carrozza e si fece condurre alla
    sua casa di Sokòlniki, fuori città.
    Giunto in via Mjasnìtzkaja,  non udendo più le grida della  folla,  il
    conte cominciò a pentirsi.  Ricordava ora con rammarico l'agitazione e
    lo spavento che aveva  dimostrato  davanti  ai  suoi  subalterni.  "La
    populace est terrible, elle est hideuse", pensava. "Ils sont comme les
    loups qu'on ne peut apaiser qu'avec de la chair" [55.  "La plebaglia è
    terribile,  odiosa.  Sono come lupi che non è possibile acquietare  se
    non con la carne".].
    "Conte,  soltanto  Dio è sopra di noi",  ricordò,  all'improvviso,  le
    parole di Veresciagin, e una fastidiosa sensazione di freddo gli corse
    per la schiena. Ma fu una sensazione momentanea.
    il conte  sorrise  con  disprezzo  di  se  stesso.  "J'avais  d'autres
    devoirs", pensò. "Il fallait apaiser le peuple. Bien d'autres victimes
    ont  péri et périssent pour le bien public" [56.  "Avevo altri doveri.
    Bisognava calmare il popolo.  Ben altre vittime sono cadute  e  cadono
    per il bene pubblico"] e cominciò a pensare a quegli obblighi generali
    che  egli  aveva verso la sua famiglia,  verso la sua (a lui affidata)
    capitale e verso  se  stesso  non  come  Fëdor  Vassìlevic'  Rastopcìn
    (riteneva che Fëdor Vassìlevic' Rastopcìn si sacrificasse per "le bien
    public"),  ma come generale in capo, come rappresentante del governo e
    delegato del potere  dallo  zar.  "Se  io  fossi  semplicemente  Fëdor
    Vassìlevic',  "ma  ligne de conduite aurait été tout autrement tracée"
    [57.  "La mia linea di condotta sarebbe stata  ben  diversa"],  ma  io
    dovevo salvare la vita e la dignità del comandante in capo".
    Dolcemente cullato dalle elastiche molle della carrozza e non sentendo
    più  i  terribili urli della folla,  Rastopcìn si calmò fisicamente e,
    come sempre accade, mentre riacquistava la calma fisica,  la sua mente
    gli  suggeriva  anche  gli  argomenti per un acquietamento morale.  Il
    pensiero che calmava Rastopcìn non era  nuovo.  Da  quando  esiste  il
    mondo e gli uomini si uccidono a vicenda, nessuno ha mai perpetrato un
    delitto  contro  un  suo simile senza giustificarsi con quell'identico
    pensiero,  il pensiero del "bien public",  ossia il bene  degli  altri
    uomini.
    Per  un  uomo  non  dominato  dalla passione,  questo è un bene sempre
    sconosciuto;  ma l'uomo che ha  compiuto  un  delitto  contro  un  suo
    simile,  sa  sempre  con certezza in che cosa questo bene consista.  E
    Rastopcìn lo sapeva.
    Non solo nei  suoi  ragionamenti  non  si  rimproverava  per  l'azione
    compiuta,  ma  trovava  motivo  di  soddisfazione  nel  fatto di avere
    felicemente saputo approfittare di quell'"à propos" [58.  opportunità]
    per punire un delinquente e calmare nello stesso tempo la folla.
    "Veresciagin era stato giudicato e condannato alla pena capitale",  si
    diceva Rastopcìn  (sebbene  Veresciagin  fosse  stato  condannato  dal
    senato  soltanto  ai  lavori  forzati).  "Egli  era  un criminale e un
    traditore;  io non potevo lasciarlo impunito e poi "je  faisais  d'une
    pierre deux coups" [59. "Prendevo due piccioni con una fava"]: offrivo
    al popolo una vittima per placarlo e punivo un malfattore".
    Giunto  nella  sua  casa suburbana e dedicatosi a dare disposizioni di
    indole domestica, il conte ritrovò tutta la sua calma.
    Mezz'ora  dopo,   in  una  carrozza  tirata  da  cavalli  velocissimi,
    attraversava  la  campagna  di  Sokòlniki,  già immemore di quanto era
    accaduto e pensoso soltanto dell'avvenire.  Andava ora verso il  ponte
    di  Jasùsk  dove,  gli  avevano  detto,  si trovava Kutuzòv.  Il conte
    Rastopcìn immaginava i rimproveri brevi e acerbi che  avrebbe  rivolto
    al  generalissimo  per il suo inganno.  Avrebbe fatto sentire a quella
    vecchia volpe di Corte che la  responsabilità  di  tutte  le  sventure
    risultanti  dall'abbandono  della capitale,  dalla rovina della Russia
    (come pensava Rastopcìn),  sarebbe ricaduta soltanto su  di  lui,  che
    aveva  certo  perso il senno.  Rimuginando in cuor suo ciò che avrebbe
    detto,  Rastopcìn si rigirava irosamente nella vettura e  si  guardava
    attorno, invaso dalla collera.
    I campi di Sokòlniki erano deserti.  Solo in fondo, presso l'ospizio e
    il manicomio,  si vedevano gruppi di uomini vestiti di bianco e alcuni
    altri,  isolati,  vestiti  allo  stesso  modo,  che camminavano per il
    campo, gridando e agitando le braccia.
    Uno di questi correva verso la carrozza di Rastopcìn,  tagliandole  la
    strada.  Il conte stesso, il suo cocchiere e i suoi dragoni guardavano
    con un vago senso di curiosità e di spavento quei pazzi in libertà  e,
    in  particolare,  quello che correva verso di loro.  Barcollando sulle
    lunghe gambe scarne, con una vestaglia sventolante, quel pazzo correva
    rapidamente e senza distogliere lo sguardo da Rastopcìn,  gli  gridava
    qualcosa con voce rauca e gli faceva dei segni perché si fermasse.  Il
    viso cupo e solenne del pazzo,  incorniciato da ciuffi  irregolari  di
    barba,  era  scarno  e  giallastro;  le  pupille,  nere  come l'agata,
    mobilissime  e  inquiete,   erravano  nel  basso  della  cornea  color
    zafferano.
    - Ferma!  Fermati, ti dico!  -  gridava con voce acuta e poi, ansando,
    riprendeva a gridare con intonazione e gesti imponenti.
    Raggiunta la carrozza, le correva a fianco.
    - Mi hanno ucciso tre volte e tre volte sono risuscitato ai morti.  Mi
    hanno  lapidato  e  poi  crocifisso....  Ma  io risorgerò risorgerò...
    risorgerò.  Hanno dilaniato il mio corpo.  Il regno di Dio  sparirà...
    Tre  volte  lo  distruggerò  e tre volte lo ricostruirò  -  gridava il
    pazzo, a voce sempre più alta.
    Il conte Rastopcìn tutto a un tratto impallidì,  come nel  momento  in
    cui  la  folla  si  era scagliata su Veresciagin.  Si voltò dall'altra
    parte.
    - Va'... va' avanti più in fretta!  -  ordinò al cocchiere con la voce
    che gli tremava.
    La carrozza correva velocissima;  ma ancora  per  parecchi  minuti  il
    conte  udì  alle  sue  spalle  le grida lontane e disperate del pazzo,
    mentre dinanzi agli occhi vedeva la  faccia  insanguinata,  stupita  e
    insieme sgomenta del traditore in pellicciotto corto.
    Per  quanto  questo  ricordo fosse recente,  Rastopcìn sentiva ora che
    esso gli era penetrato profondamente nel cuore, sentiva che la traccia
    sanguinosa di quel ricordo non si sarebbe mai più cancellata  ma  che,
    sempre  più  tormentosa e atroce,  essa sarebbe rimasta viva sino alla
    fine dei suoi giorni. Gli pareva ora di riudire il suono delle proprie
    parole: "Sciabolatelo!  Me ne risponderete con la vostra testa!".  "Ma
    perché  ho  detto  così?  Ho parlato a caso...  avrei potuto non dirle
    quelle parole", pensava,  "e allora nulla sarebbe accaduto".  Rivedeva
    il  viso prima spaventato e poi inferocito del dragone che colpiva,  e
    lo sguardo di silenzioso,  timido  rimprovero  che  gli  rivolgeva  il
    giovane  in pellicciotto.  "Ma non l'ho fatto per me.  Io dovevo agire
    così. "La plèbe, le traître... le bien public..." [60. "La plebe... il
    traditore... il bene pubblico"], pensava.
    Al ponte di Jasùsk le truppe  si  ammassavano  ancora.  Faceva  caldo.
    Kutuzòv accigliato,  triste,  stanco, sedeva su una panchina presso il
    ponte,  e con lo scudiscio stava tracciando segni sulla sabbia  quando
    gli si avvicinò rumorosamente una vettura che giungeva al gran trotto.
    Un uomo in uniforme di generale e cappello piumato con occhi sfuggenti
    ora  pieni  di collera,  ora spaventati,  gli si avvicinò e cominciò a
    parlargli in francese.  Era il conte Rastopcìn.  Disse  a  Kutuzòv  di
    essere venuto lì perché Mosca, la capitale, non esisteva più, esisteva
    soltanto un esercito.
    -  Le cose non sarebbero andate così se vostra altezza serenissima non
    mi avesse detto che Mosca non sarebbe stata  abbandonata  senza  prima
    dare battaglia: tutto questo non sarebbe accaduto!  -  disse.
    Kutuzòv guardava Rastopcìn e,  come se non comprendesse il senso delle
    parole che gli  venivano  rivolte,  cercava  dl  leggere  qualcosa  di
    particolare  sul  viso  del  suo  interlocutore.  Rastopcìn,  turbato,
    tacque. Kutuzòv scosse leggermente il capo e,  senza staccar gli occhi
    scrutatori dal viso dell'altro, disse a bassa voce:
    - Sì, io non cederò Mosca senza aver dato battaglia!
    Pensava  forse a tutt'altro Kutuzòv,  mentre diceva queste parole o le
    diceva a bella posta, sentendole prive di senso? Ma il conte Rastopcìn
    non  rispose;  si  allontanò  in  fretta  da  Kutuzòv.   Strana  cosa!
    L'orgoglioso  conte  Rastopcìn,   il  comandante  in  capo  di  Mosca,
    afferrato il frustino, andò verso il ponte e, gridando, cominciò a far
    cacciare avanti i carri che impedivano il passaggio.


    CAPITOLO 26.

    Alle quattro pomeridiane le truppe di  Murat  entravano  m  Mosca.  In
    testa  marciavano  un distaccamento di ussari de Württemberg;  dietro,
    con un gran séguito, cavalcava il re di Napoli in persona.
    A metà circa dell'Arbàt,  nei pressi della chiesa dell'Apparizione  di
    San  Nikolàj,  Murat  si  fermò per aspettare notizie dall'avanguardia
    circa le condizioni in cui si trovava la  fortezza  della  città,  "le
    Kremlin".
    Attorno a Murat si era riunito un piccolo gruppo di abitanti rimasti a
    Mosca.   Tutti  guardavano  con  stupore  e  timidezza  quello  strano
    comandante dalla lunga chioma, ornato di pennacchi e d'oro.
    - E che?  E' quello,  forse,  il loro zar?  Mica male...   -  dicevano
    alcuni, sottovoce.
    L'interprete si avvicinò al gruppo.
    - Togliti il berretto... il berretto...  -  cominciarono a dirsi nella
    folla.  L'interprete si rivolse a un vecchio portiere e gli domandò se
    il Cremlino fosse lontano. Il portiere, ascoltando perplesso l'accento
    polacco  di  quell'uomo  e  non  riuscendo  a  comprendere  nei  suoni
    pronunziati  dall'interprete  la parlata russa,  non capì che cosa gli
    diceva e si nascose dietro gli altri.
    Murat si accostò  all'interprete  e  gli  ordinò  di  informarsi  dove
    fossero le truppe russe. Uno dei russi capì la domanda e allora alcune
    voci presero a rispondere tutte insieme. Un ufficiale dell'avanguardia
    francese venne da Murat e gli riferì che le porte della fortezza erano
    sbarrate e che, forse, era stata preparata un'imboscata.
    -  Va  bene    -  rispose Murat e,  rivoltosi a uno dei personaggi del
    séguito,  ordinò di far venire avanti quattro  cannoni  leggeri  e  di
    sparare sulle porte.
    L'artiglieria  uscì  al  trotto  dalla  colonna che seguiva Murat e si
    avviò per  l'Arbàt.  Dopo  essere  discesa  sino  in  fondo  alla  via
    Vzdvizenka,  si  fermò  e  si  allineò sulla piazza.  Alcuni ufficiali
    francesi fecero mettere i cannoni in posizione di  tiro  e  guardarono
    con il cannocchiale il Cremlino.
    Nell'interno  del  Cremlino  le  campane  sonavano i Vespri,  e quello
    scampanio turbava i Francesi. Essi supponevano che fosse un segnale di
    chiamata alle armi.  Alcuni soldati di fanteria corsero alla porta  di
    Kutàfja,  sbarrata  da  travi  e  tavolati  di  legno.  Non  appena un
    ufficiale con il suo plotone avanzò di corsa verso il portone,  al  di
    là  di esso risonarono due fucilate.  Un generale,  che stava presso i
    cannoni,  gridò alcune parole di comando all'ufficiale e questi  tornò
    indietro con i suoi soldati.
    Si udirono altri tre colpi di fucile.
    Un  proiettile  ferì a una gamba un soldato francese,  mentre un grido
    strano,  ripetuto da parecchie voci,  passò attraverso l'intrico delle
    travi. Allora l'espressione di calma e di allegria scomparve, come per
    un  ordine,  dal  viso  del  generale,  degli  ufficiali e dei soldati
    francesi, mutandosi in una espressione attenta e concentrata di uomini
    pronti a lottare  e  a  soffrire.  Per  tutti  loro,  dal  maresciallo
    all'ultimo  soldato,  quei  luoghi  non  erano  le  vie  Vzdvizenka  e
    Mochovàja, le porte Kutàfja e della Trinità,  ma il nuovo campo di una
    nuova  e probabilmente sanguinosa battaglia.  E tutti,  a questa nuova
    battaglia,  erano pronti.  Le grida dietro  alla  porta  cessarono.  I
    cannoni  furono  tratti  più  avanti.  Gli artiglieri soffiarono sulle
    micce accese.
    - "Feu!" [61. Fuoco!]  -  comandò un ufficiale,  e due colpi sibilanti
    tuonarono uno dopo l'altro. I proiettili a mitraglia crepitavano sulle
    pietre e sulle travi,  e due nuvole di fumo si levarono,  ondeggiando,
    sulla piazza.
    Poco dopo,  non appena cessò il rombo delle cannonate lungo le  pietre
    della  porta del Cremlino,  uno strano rumore si levò al disopra delle
    teste dei Francesi. Un immenso stormo di cornacchie si alzò dalle mura
    e, gracchiando e agitando migliaia di ali, turbinò nell'aria.  Insieme
    con  quel frastuono risonò di sotto la porta un altissimo grido umano,
    isolato,  e attraverso il fumo  comparve  la  figura  di  un  uomo  in
    caffettano,  a capo scoperto. Aveva un fucile tra le mani e lo puntava
    contro i Francesi.
    - "Feu!"  -  ripeté l'ufficiale di artiglieria.  Una  fucilata  e  due
    cannonate echeggiarono contemporaneamente. Il fumo nascose di nuovo la
    porta.
    Dietro  le  travi e gli assiti nulla più si moveva,  e i soldati e gli
    ufficiali della fanteria francese avanzarono verso il Cremlino.  Sotto
    la  porta  giacevano  tre  feriti  e  quattro  morti.  Due  uomini  in
    caffettano fuggivano lungo le mura, verso via Znàmenka.
    -  "Enlevez-moi  ca"  [62.  Portate  via  questa  roba!]    -    disse
    l'ufficiale,  indicando le travi e i cadaveri,  e i Francesi,  dato il
    colpo di grazia ai feriti,  gettarono i cadaveri dall'altra parte  del
    muro.  Nessuno sapeva chi fossero quei morti.  "Enlevez-moi ca" furono
    le sole parole pronunziate per loro: li tolsero  di  mezzo  e  poi  li
    seppellirono affinché non puzzassero. Soltanto Thiers dedicò alla loro
    memoria  alcune  righe:  "Ces  misérables  avaient envahi la citadelle
    sacrée,  s'étaient emparés des fusils de l'arsenal,  et tiraient  (ces
    misérables) sur les Francais. On en sabra quelques-uns et on purgea le
    Kremlin  de  leur  présence"  [63.  "Quei miserabili avevano invaso la
    cittadella sacra,  si erano impadroniti  dei  fucili  dell'arsenale  e
    sparavano (quei miserabili) sui Francesi.  Se ne sciabolò qualcuno,  e
    il Cremlino fu liberato dalla loro presenza"].
    Murat venne avvertito che la via era libera. I Francesi entrarono e si
    accamparono sulla piazza del Senato.  I soldati gettarono sedie  dalle
    finestre  del  palazzo  dei  senatori,  le  accatastarono  e  con esse
    accesero roghi.
    Altri reparti attraversarono il Cremlino e si  sistemarono  sulle  vie
    Marosséjka,  Lubjanka,  Pokrovka.  Altri ancora si disposero sulle vie
    Vzdvizenka, Znàmenka, Nikòlskaja, Tverskàja. Non trovando i padroni di
    casa,  i Francesi presero alloggio  ovunque,  non  già  accantonandosi
    nelle  case  come  in  una  città,  ma  come  se  si  trattasse  di un
    accampamento situato nel cuore della città stessa.  Quantunque laceri,
    affamati,  sfiniti  e  ridotti  a un terzo del loro numero,  i soldati
    francesi entrarono in Mosca ancora in buon ordine.  Erano un  esercito
    esausto, stremato, ma ancora temibile e pronto a combattere. Ma rimase
    un  esercito  soltanto  sino  al  momento  in  cui  i  soldati  non si
    dispersero per gli alloggi.  Non appena si sparpagliarono per le  case
    vuote e ben provvedute,  quell'esercito fu annientato per sempre;  non
    ci furono più né abitanti né soldati, ma un qualcosa di intermedio: ci
    furono dei predoni.  Quegli stessi uomini,  quando uscirono  da  Mosca
    cinque settimane dopo, non costituivano già più un esercito, bensì una
    banda di predoni,  ciascuno dei quali si portava via tutto ciò che gli
    era parso utile e prezioso. Lo scopo di ogni francese,  quando uscì da
    Mosca,  non era più,  come prima, quello di combattere, ma soltanto di
    conservare ciò che aveva potuto conquistare.  Come  una  scimmia  che,
    dopo  aver  introdotto  la  mano  nella stretta gola di un vaso e aver
    afferrato una manciata di noci,  non apre le dita per non  perdere  la
    preda,  causando  in  tal  modo  la  propria rovina,  così i Francesi,
    uscendo da Mosca,  dovevano fatalmente perire perché  si  trascinavano
    dietro  tutto  quanto avevano predato;  ma abbandonare ciò che avevano
    rubato era per loro impossibile,  quanto  alla  scimmia  schiudere  il
    pugno che serra le noci. Dieci minuti dopo l'ingresso di un reggimento
    francese in un qualsiasi rione di Mosca,  non rimaneva né un ufficiale
    né un soldato.  Dalle  finestre  delle  case  si  vedevano  uomini  in
    cappotto e in ghette aggirarsi per le stanze, ridendo; nelle cantine e
    nei sotterranei quegli stessi uomini si impadronivano delle provviste;
    nei  cortili  aprivano  e  sfondavano  le  porte delle rimesse e delle
    stalle; nelle cucine accendevano i fuochi e con le maniche rimboccate,
    impastavano,  cuocevano,  arrostivano,  spaventavano,   divertivano  e
    accarezzavano donne e bambini.
    Dappertutto,  nelle  botteghe  e  nelle case,  c'erano molti di quegli
    uomini in divisa, ma l'esercito non esisteva più.
    In quello stesso giorno le autorità  francesi  emanarono  ordini,  uno
    dopo l'altro,  per proibire alle truppe di sbandarsi per la città, per
    vietare  severamente  qualsiasi  violenza  contro  gli  abitanti,  per
    impedire  i  saccheggi e per render noto che la sera stessa si sarebbe
    fatto un appello generale.  Ma,  nonostante tutte le misure  adottate,
    gli   uomini   che   avevano   costituito  l'esercito  continuavano  a
    sparpagliarsi per la città, ricca e vuota,  nella quale abbondavano le
    comodità e i viveri. Come un gregge affamato attraversa unito un campo
    arido,  ma  si  disperde non appena giunge a un pingue pascolo,  così,
    irresistibilmente, si sbandava l'esercito per la doviziosa città.
    Mosca non aveva più abitanti,  e i soldati come  acqua  dalla  sabbia,
    venivano  assorbiti  e  irresistibilmente  si disperdevano a stella in
    tutte le direzioni dal Cremlino, dove erano in un primo tempo entrati.
    Soldati  di  cavalleria,  preso  possesso  di  una  casa  di  mercanti
    abbandonata  con tutti i suoi beni,  pur trovando nelle scuderie posti
    sufficienti non solo per i cavalli ma anche per sé,  andavano tuttavia
    a  occupare  un'altra  casa  che  a  loro  pareva  migliore.  Molti ne
    occupavano più di una,  vi  segnavano  con  il  gesso  il  loro  nome,
    discutevano e venivano persino alle mani con soldati di altri reparti.
    Prima ancora di sistemarsi, i soldati correvano a visitare la città e,
    sentendo  dire  che  tutto era stato abbandonato,  si precipitavano là
    dove era possibile trovare  oggetti  preziosi.  I  capi  andavano  per
    frenare i soldati, ma anch'essi finivano con il cedere alla tentazione
    e si abbandonavano a compiere le stesse imprese.  Nel mercato Karetnij
    esistevano ancora  magazzini  di  carrozze,  e  là  si  affollavano  i
    generali  per  scegliere  carrozze  e  calessi.  Gli  abitanti rimasti
    invitavano i capi ad alloggiare nelle loro case,  sperando di salvarsi
    in  tal modo dal saccheggio.  Vi era una quantità enorme di ricchezze,
    di cui non si vedeva la fine;  ovunque attorno alla zona già  occupata
    dai Francesi, esistevano altri luoghi, ignoti e non ancora visitati in
    cui,  così  pareva  ai  Francesi,  le  ricchezze dovevano essere anche
    maggiori. E Mosca ne assorbiva sempre di più. Come l'acqua,  scorrendo
    su  un  terreno  arido,  sparisce  insieme  con  l'aridità del terreno
    stesso, così, per il fatto che un esercito affamato era entrato in una
    città vuota e opulenta,  scomparvero insieme  l'esercito  e  la  città
    opulenta; rimasero il fango, gli incendi e i saccheggi.
    I  Francesi attribuirono l'incendio di Mosca "au patriotisme féroce de
    Rastopchine" [64.  al patriottismo feroce di Rastopcìn],  i  Russi  al
    fanatismo selvaggio dei Francesi.  In realtà,  l'incendio di Mosca non
    ebbe né poteva avere alcuna  causa,  nel  senso  che  fosse  possibile
    addossarne la responsabilità a una o più persone.  Mosca bruciò perché
    si trovava in condizioni tali per cui ogni città  costruita  in  legno
    deve  bruciare,  indipendentemente  dal  fatto che si abbiano o non si
    abbiano centotrenta pompe da incendio difettose. Mosca doveva bruciare
    in conseguenza del fatto che gli abitanti l'avevano abbandonata,  come
    è  inevitabile  l'infiammarsi di un mucchio di trucioli sul quale cada
    per parecchi giorni una pioggia di  scintille.  Una  città  di  legno,
    nella quale,  anche quando sono presenti i proprietari delle case e la
    polizia,  scoppiano quasi ogni giorno  incendi,  non  può  non  ardere
    quando,  abbandonata dai suoi abitanti,  viene occupata da soldati che
    fumano la pipa,  accendono fuochi sulla piazza del  Senato  servendosi
    dei  seggi  senatoriali e fanno cuocere il rancio due volte al giorno.
    Se anche in tempo di pace basta che un reparto si accampi nei villaggi
    di una qualsiasi zona perché in essa il numero degli  incendi  aumenti
    in modo notevole,  in quale misura deve aumentare la probabilità degli
    incendi in una città costruita  in  legno,  deserta,  nella  quale  si
    accampi un esercito straniero?  "Le patriotisme féroce de Rastopchine"
    e il fanatismo feroce dei Francesi non  hanno  in  questo  caso  colpa
    alcuna.  Mosca è bruciata per colpa delle pipe, delle cucine da campo,
    dei  fuochi  di  bivacchi,  dei  falò,  della  mancanza  di  qualsiasi
    precauzione da parte dei soldati nemici e degli abitanti che non erano
    i proprietari delle case. Se pur vi furono incendi dolosi (anche se la
    cosa è molto dubbia giacché nessuno aveva motivo di appiccare il fuoco
    e giacché, in ogni caso, gli incendi erano pericolosi e tutt'altro che
    facili),  tali incendi dolosi non possono essere messi in causa perché
    anche senza di essi sarebbe avvenuta la stessa cosa.
    Per quanto sia piaciuto ai Francesi accusare la ferocia di Rastopcìn e
    ai Russi incolpare la barbarie del Bonaparte o,  in seguito,  porre la
    torcia  eroica  nelle mani del suo popolo,  non è possibile non vedere
    che simile causa immediata  d'incendio  non  poteva  esistere,  perché
    Mosca  era  destinata  a  bruciare,  come  lo  è  qualsiasi villaggio,
    fabbrica,  casa,  che vengano abbandonati e in cui si lascino  entrare
    uomini  a  farla  da padroni e a farsi cuocere la "kascia".  Mosca,  è
    vero,  fu incendiata dai suoi abitanti,  ma non da quelli che vi erano
    rimasti,  bensì da quelli che l'avevano abbandonata.  Mosca,  occupata
    dal nemico, non rimase intatta, come intatte rimasero Berlino,  Vienna
    e altre città, soltanto perché i suoi abitanti non portarono l'offerta
    del pane e del sale e le chiavi ai Francesi, ma l'abbandonarono.


    CAPITOLO 27.

    Quello  sparpagliarsi  a  stella  dei  Francesi  a Mosca,  il giorno 2
    settembre, non raggiunse che verso sera il quartiere in cui Pierre era
    andato ad abitare.
    Dopo  gli  ultimi  due  giorni  trascorsi  nella  solitudine  in  modo
    inconsueto, Pierre si sentiva vicino alla pazzia. Un unico pensiero si
    era impadronito di tutto il suo essere. Egli stesso non sapeva né come
    né da quando,  ma quel pensiero lo ossessionava talmente da impedirgli
    di ricordarsi del passato e di comprendere qualcosa  del  presente,  e
    tutto  ciò che egli vedeva o udiva,  gli pareva di udirlo e di vederlo
    come in sogno.
    Pierre aveva lasciato la sua casa soltanto per sottrarsi al complicato
    groviglio della sua esistenza nel quale si trovava irretito e che dato
    il suo stato d'animo di allora,  non avrebbe  saputo  districare.  Era
    andato  a  stabilirsi nella casa di Jussif Alekséevic' con il pretesto
    di riordinare i libri e le carte del defunto, ma in verità per cercare
    un acquietamento alle agitazioni della vita;  e al ricordo  di  Jussif
    Alekséevic'  si  collegava  nel  suo  animo tutto un mondo di pensieri
    eterni,  calmi  e  solenni,  assolutamente  in  contrasto  con  quella
    confusione  inquietante nella quale si sentiva trascinato.  Cercava un
    rifugio tranquillo,  e lo aveva  realmente  trovato  nello  studio  di
    Jussif  Alekséevic'.  Quando,  nel silenzio di tomba di quella stanza,
    egli si era seduto con i gomiti appoggiati  alla  polverosa  scrivania
    del defunto, i ricordi degli ultimi giorni e specialmente quelli della
    battaglia  di  Borodinò  cominciarono ad affacciarsi chiari e precisi,
    uno  dopo  l'altro,   alla  sua  mente,   e  con  essi  la   coscienza
    insopprimibile  della  propria  nullità  e  falsità in paragone con la
    sincerità,  la semplicità e la forza di quella categoria di uomini che
    egli evocava dentro di sé con questo solo nome: "essi".
    Allorché  Gerasim  lo aveva destato da quella specie di sogno,  Pierre
    aveva immediatamente  pensato  che  avrebbe  partecipato  alla  difesa
    popolare della città, della quale gli era noto il progetto, e a questo
    scopo aveva pregato Gerasim di procurargli un caffettano e una pistola
    e gli aveva dichiarato la propria intenzione di rimanere nella casa di
    Jussif  Alekséevic',  nascondendo  a  tutti la propria identità.  Poi,
    durante la prima giornata  trascorsa  nella  solitudine  e  nell'ozio,
    Pierre aveva tentato più volte,  ma senza riuscirvi, di fermare la sua
    attenzione  sui  manoscritti  massonici,   gli   si   era   presentata
    confusamente,  a  parecchie riprese,  l'idea che aveva avuto un giorno
    sul significato cabalistico del proprio nome in relazione a quello del
    Bonaparte;   ma  il  pensiero  che  lui,   "l'russe   Besuhof"   fosse
    predestinato a mettere fine al potere della bestia,  gli si affacciava
    ancora soltanto come uno di quei  sogni  che  attraversano  l'immagine
    senza avere alcuna causa e senza lasciare traccia.
    Quando,  dopo  avere  acquistato  il  caffettano (fatto unicamente per
    partecipare alla difesa popolare di Mosca),  Pierre aveva incontrato i
    Rostòv,  e Natascia gli aveva detto: "Voi rimanete? Ah, com'è bello!",
    gli era balenato il pensiero che realmente sarebbe stato bello,  anche
    se  Mosca venisse occupata,  restare in città per compiere ciò che gli
    era assegnato dal destino.
    Il giorno successivo egli,  con l'unico pensiero di non risparmiarsi e
    di  non restare indietro a "essi",  era andato alla barriera delle Tre
    Montagne.  Ma,  tornato a casa e convinto che Mosca non sarebbe  stata
    difesa,  sentì  improvvisamente  che  ciò  che prima gli si presentava
    soltanto come una possibilità,  ora gli appariva  come  una  necessità
    inevitabile. Egli doveva rimanere a Mosca, tenendo nascosta la propria
    identità,  incontrare Napoleone per ucciderlo, o per morire lui stesso
    o per far cessare le sventure di tutta l'Europa, sventure delle quali,
    secondo Pierre, Napoleone era l'unica causa.
    Pierre conosceva tutti i particolari dell'attentato  di  uno  studente
    tedesco  contro  Bonaparte,  a Vienna,  nel 1809,  e sapeva che quello
    studente era stato fucilato (65).  E il pensiero del pericolo al quale
    si sarebbe esposto,  realizzando il suo proposito,  lo eccitava sempre
    di più.
    Due sentimenti, ugualmente forti, spingevano Pierre verso la sua meta.
    Il primo  era  quel  bisogno  di  sacrifizio  e  di  sofferenza  nella
    consapevolezza della sventura comune,  lo stesso sentimento in seguito
    al quale il 25 agosto si era recato a Mozaisk  a  gettarsi  nel  cuore
    della battaglia, e che ora lo aveva spinto a lasciare la sua casa e ad
    adattarsi,  rinunziando al lusso e alle comodità della vita, a dormire
    vestito sopra un divano scomodo e duro e a mangiare lo stesso cibo  di
    Gerasim; l'altro sentimento era quello vago, esclusivamente russo, del
    disprezzo per tutto ciò che è artificioso,  convenzionale,  umano, per
    tutto ciò che la maggioranza degli uomini considera  come  il  supremo
    bene  del  mondo.  Pierre  aveva  provato  per  la  prima volta questo
    sentimento, affascinante e strano, nel palazzo Slobodskij quando, a un
    tratto, aveva sentito che la ricchezza, il potere, la vita,  tutto ciò
    che  gli  uomini  bramano  e conservano con tanto ardore,  se pur vale
    qualcosa,  lo vale unicamente per il piacere con cui lo si può  buttar
    via.
    Era questo il sentimento che spinge la recluta volontaria a bersi sino
    all'ultimo  centesimo,  l'ubriaco  a  spezzare  vetri  e specchi senza
    nessun motivo apparente e sapendo che quel gesto gli  costerà  i  suoi
    ultimi  denari;  quel  sentimento per cui un uomo compiendo (nel senso
    più volgare) azioni  insensate,  pare  voler  mettere  alla  prova  il
    proprio potere personale e la propria forza,  manifestando l'esistenza
    di un giudizio sulla vita al di sopra e al di fuori  delle  condizioni
    umane.
    Dal  giorno in cui nell'animo di Pierre,  nel palazzo Slobodskij,  era
    sorto  questo  sentimento,   egli   ne   era   rimasto   continuamente
    influenzato;  ma  soltanto  ora  aveva  trovato il modo di soddisfarlo
    completamente.  Inoltre,  al momento presente,  Pierre era più che mai
    fisso  nel suo proposito e privato della possibilità di rinunziarvi da
    quanto aveva già compiuto su quella via.  E  la  fuga  da  casa  e  il
    caffettano  e  la pistola e la sua dichiarazione ai Rostòv che sarebbe
    rimasto a Mosca,  tutto ciò avrebbe non solo perduto  ogni  senso,  ma
    sarebbe stato disprezzabile e ridicolo (e al ridicolo Pierre era molto
    sensibile) se egli fosse partito da Mosca come tutti gli altri.
    Come sempre avviene,  le condizioni fisiche di Pierre concordavano con
    quelle morali. Il cibo rozzo cui non era avvezzo,  la vodka che beveva
    in  quei  giorni,  la privazione del vino e dei sigari,  la biancheria
    sudicia e non mutata,  le due  notti  trascorse  quasi  senza  chiuder
    occhio  su di un divano troppo corto,  mantenevano Pierre in uno stato
    di eccitazione molto vicino alla pazzia.
    Erano ormai le due pomeridiane. I Francesi erano già entrati in Mosca.
    Pierre lo sapeva ma, invece di agire,  non faceva che pensare alla sua
    impresa,   soppesandone   ogni   possibile   particolare.   Nelle  sue
    fantasticherie non si raffigurava  con  vivezza  né  il  modo  in  cui
    avrebbe  colpito,  né come sarebbe morto Napoleone ma,  con inconsueta
    chiarezza e con triste  voluttà,  immaginava  la  propria  fine  e  il
    proprio eroico coraggio.
    "Sì, io solo per tutti devo compiere questo gesto o perire!", pensava.
    "Sì,  andrò..."  e  poi  tutto  a  un  tratto "con la pistola o con il
    pugnale?  Del resto è indifferente.  Non sono io,  dirò,  ma è la mano
    della  Provvidenza  che ti punisce..." (Pierre pensava alle parole che
    avrebbe detto uccidendo Napoleone): "Suvvia, prendetemi,  condannatemi
    a  morte",  ripeteva  tra  sé  a  capo  basso  e col viso atteggiato a
    un'espressione triste ma decisa.
    Mentre Pierre,  ritto in mezzo alla stanza,  ragionava così,  la porta
    dello studio si aprì e sulla soglia comparve, completamente mutata, la
    figura  di  solito  così timida di Makàr Alekséevic'.  Con la veste da
    camera sbottonata,  il viso  acceso  e  stravolto,  era  evidentemente
    ubriaco.  Alla  vista di Pierre,  sulle prime si turbò ma poi,  avendo
    notato che anche il volto di Pierre si  turbava,  si  fece  ardito  e,
    vacillando sulle lunghe gambe, entrò nella stanza.
    - Hanno avuto paura  -  disse con la voce rauca e piena di fiducia.  -
    Io dico: non mi arrenderò,  io dico... non è vero, signore?  -  Rimase
    pensoso e a  un  tratto,  vedendo  la  pistola  sulla  tavola,  se  ne
    impadronì con una rapidità inaspettata e corse nel corridoio.
    Gerasim  e  il  portiere,  che  lo  avevano seguito,  lo fermarono nel
    vestibolo e cercarono di  strappargli  l'arma.  Pierre,  uscito  dallo
    studio,  guardava  con  pietà e con disgusto quel vecchio mezzo pazzo.
    Makàr Alekséevic',  con la faccia  stravolta  per  lo  sforzo,  teneva
    stretta  la  pistola  e  gridava  con  voce  rauca parole che dovevano
    sembrargli molto solenni.
    - All'armi! All'abbordaggio! Ti inganni... Non me la toglierai!
    - Basta, vi prego, basta. Fate il favore, smettetela, signore... ve ne
    prego...  -  diceva Gerasim, cercando con precauzione di prenderlo per
    i gomiti e di spingerlo vero l'uscio.
    - Chi sei, tu? Buonaparte?  -  gridava Makàr Alekséevic'.
    - Non fate così, signore, non sta bene.  Favorite nella vostra camera,
    vi riposerete. E ridatemi, vi prego, la pistola.
    -  Vattene,  spregevole servo!  Non toccarmi!  Hai visto?   -  gridava
    Makàr Alekséevic', brandendo la pistola.  -  All'abbordaggio!
    - Prendilo!  -  mormorò Gerasim al portiere.
    Makàr Alekséevic' venne afferrato per le braccia e trascinato verso la
    porta.
    Il vestibolo si riempì di rumori disordinati e confusi di una lotta  e
    dei suoni rauchi e ubriachi di una voce ansimante.
    A  un  tratto,  un grido acutissimo di donna risonò dall'ingresso e la
    cuoca si precipitò nell'altra camera.
    -  Eccoli!  Santi  benedetti...  Giuro  che  sono  loro!  Quattro,   a
    cavallo...  -  gridava la donna.
    Gerasim  e  il  portiere  lasciarono  andare  Makàr  Alekséevic' e nel
    corridoio,  tornato silenzioso,  si udirono distintamente i  colpi  di
    alcune mani che bussavano alla porta d'ingresso.


    CAPITOLO 28.

    Pierre,  che  aveva  deciso  entro  di  sé  di  non rivelare né la sua
    identità,  né la sua conoscenza  della  lingua  francese  prima  della
    realizzazione  del  suo progetto,  stava presso la porta socchiusa del
    corridoio, deciso a nascondersi non appena i Francesi fossero entrati.
    Ma  quelli  entrarono,   e  Pierre  non  si  scostò  dall'uscio:   una
    invincibile curiosità lo tratteneva.
    Erano  due.  Uno,  un  ufficiale alto,  bello,  dall'aspetto marziale;
    l'altro,  evidentemente un soldato e forse un'ordinanza,  era un  uomo
    basso,  magro  e  abbronzato,  con le guance incavate e un'espressione
    ottusa.  L'ufficiale,  appoggiandosi a un bastone e zoppicando,  entrò
    per  primo.  Dopo  aver fatto qualche passo,  e deciso tra sé e sé che
    l'appartamento andava bene,  si fermò e  si  voltò  indietro  verso  i
    soldati che stavano sulla soglia,  e con voce forte e imperiosa, gridò
    loro di far entrare i cavalli.  Poi,  sollevando con un gesto spavaldo
    il gomito destro, si lisciò i baffi e portò la mano al berretto.
    -  "Bonjour,  la  compagnie!"  [66.  Buongiorno  alla  compagnia!]   -
    esclamò allegramente, sorridendo e guardandosi attorno.
    Nessuno rispose.
    - "Vous êtes le bourgeois?" [67.  Siete voi il padrone?]  -   riprese,
    rivolto a Gerasim.
    Gerasim   fissava   l'ufficiale   con   uno  sguardo  interrogativo  e
    spaventato.
    - "Quartire, quartire, logement"  -  disse l'ufficiale,  guardando con
    un  sorriso bonario e condiscendente il piccolo vecchio,  dall'alto in
    basso.  -  "Les Francais sont le bons enfants. Que diable! Voyons!  Ne
    nous fâchons pas,  mon vieux" [68. Alloggio, alloggio. I Francesi sono
    bravi ragazzi.  Che diamine!  Suvvia non arrabbiamoci,  vecchio...]  -
    aggiunse,  battendo  una  mano  sulle spalle di Gerasim,  silenzioso e
    spaventato.
    - "Ah,  ca!  Dites donc,  on ne parle donc  pas  francais  dans  cette
    boutique?" [69. Ma guarda! Dite un po' non si parla francese in questa
    bottega?]  -  proseguì,  guardando in giro e incontrando lo sguardo di
    Pierre. Pierre si ritrasse.
    L'ufficiale si rivolse di nuovo a Gerasim: pretendeva che  il  vecchio
    gli mostrasse le stanze della casa.
    - Il padrone non c'è...  capisco,  ma...  mia...  vostra...  -  diceva
    Gerasim cercando di fargli intendere che neppur lui lo capiva.
    L'ufficiale francese sorridendo allargò le braccia davanti a  Gerasim,
    facendogli  intendere  che  nemmeno  lui lo capiva e,  zoppicando,  si
    diresse verso la porta presso la quale  stava  Pierre.  Questi  voleva
    tirarsi  indietro  per  nascondersi,  ma  in quel preciso istante vide
    schiudersi l'uscio della cucina e comparire Makàr Alekséevic',  con la
    pistola in mano.  Con l'astuzia del pazzo, egli fissava l'ufficiale e,
    alzando l'arma, prendeva la mira.
    - All'abbordaggio!   -  gridò l'ubriaco,  cercando il grilletto  della
    pistola.
    L'ufficiale  francese  a  quel grido si volse e in quell'attimo stesso
    Pierre balzò sull'ubriaco.  Mentre Pierre  afferrava  e  sollevava  la
    pistola,  Makàr  Alekséevic'  era  riuscito  finalmente  a  toccare il
    grilletto con il dito: il colpo partì,  assordando e avvolgendo  tutto
    di fumo. L'ufficiale impallidì e si slanciò indietro, verso la porta.
    Dimenticando  l'intenzione di non rivelare la propria conoscenza della
    lingua francese Pierre,  strappata la  pistola  dalle  mani  di  Makàr
    Alekséevic,  la  scaraventò  a  terra  e,  avvicinatosi  all'ufficiale
    francese, gli domandò:
    - "Vous n'êtes pas blessé?" [70. Non siete mica ferito?].
    - "Je crois que non",   -  rispose l'ufficiale,  tastandosi;"  -  mais
    je  l'ai  manquée  belle cette fois-ci"  -  aggiunse,  indicando nella
    parete un pezzo di intonaco colpito.   -  "Quel est cet  homme?"  [71.
    Credo di no,  ma questa volta l'ho scampata bella!  Chi è quest'uomo?]
    -  chiese infine, guardando severamente Pierre.
    - "Ah, je suis vraiment au désespoir de ce qui vient d'arriver"- disse
    rapidamente Pierre,  dimentico in modo assoluto della sua  parte.    -
    "C'est un fou,  un malheureux qui ne savait pas ce qu'il faisait" [72.
    Sono veramente desolato di quanto è accaduto. E' un pazzo, un infelice
    che non sapeva quello che faceva].
    L'ufficiale si avvicinò a Makàr Alekséevic e lo afferrò per il bavero.
    Il  folle,  con  le  labbra  semiaperte,  appoggiandosi  alla  parete,
    barcollava, come se stesse per addormentarsi.
    -  "Brigand,  tu  me  la payeras"  -  disse l'ufficiale,  ritirando la
    mano.   -  "Nous autres nous sommes cléments après  la  victoire  mais
    nous  ne pardonnons pas aux traîtres" [73.  Canaglia,  me la pagherai!
    Noi siamo clementi,  dopo la vittoria,  ma non perdoniamo i traditori]
    -    aggiunse con un gesto energico e un'espressione di cupa solennità
    sul viso.
    Pierre continuò, in francese,  nel tentativo di persuadere l'ufficiale
    di  non  chieder  conto  del  suo gesto a quel folle,  povero vecchio.
    L'ufficiale  lo  ascoltava  in   silenzio,   senza   tuttavia   mutare
    l'espressione   accigliata   del  volto;   ma  a  un  tratto  sorrise,
    rivolgendosi a Pierre e,  per alcuni minuti,  lo guardò senza parlare.
    Il  suo  bel  viso assunse un'espressione tragica e affettuosa insieme
    mentre tendeva a Pierre la mano.
    - "Vous m'avez sauvé la vie!  Vous êtes francais" [74.  Voi  mi  avete
    salvato la vita!  Siete francese]  -  gli disse.  Per lui non potevano
    esistere dubbi.  Soltanto un cittadino francese  poteva  compiere  una
    grande  azione  e  l'aver  salvato la vita a lui,  "monsieur Ramballe,
    capitaine  du  13me  léger"  [75.   signor  Ramballe,   capitano   del
    tredicesimo reggimento di cavalleria],  era,  senza dubbio, una grande
    azione.
    Ma,  per quanto indubitabile fosse quella conclusione e la conseguente
    deduzione dell'ufficiale, Pierre ritenne necessario disingannarlo.
    - "Je suis russe" [76. Sono russo]  -  disse in fretta.
    - "Ti-ti-ti, à d'autres"  -  disse l'ufficiale, agitando un dito sotto
    il proprio naso.   -  "Tout à l'heure vous allez me conter tout ca"  -
    proseguì.    -    "Charmé  de  rencontrer  un  compatriote.  Eh  bien!
    qu'allons-nous faire de cet homme?" [77.  Già, già, raccontatela ad un
    altro!  Poi mi  racconterete  tutto.  Felice  di  aver  incontrato  un
    compatriota!  Be',  che  ne  facciamo  di  quest'uomo?]   -  continuò,
    rivolgendosi a Pierre come se parlasse veramente a un compatriota.
    Anche se Pierre non era francese,  battezzato una volta per sempre con
    quel nome,  il più grande del mondo, non poteva ormai più rinunziarvi:
    questo dicevano chiaramente il viso e il tono  dell'ufficiale.  Ancora
    una  volta  Pierre spiegò chi fosse Makàr Alekséevic,  spiegò che poco
    prima del loro arrivo quel folle  ubriaco  si  era  impadronito  della
    pistola  carica,  che  non  avevano fatto in tempo a strappargliela di
    mano e pregò di non punirlo per quel gesto.
    Il capitano sporse il petto in avanti e assunse un'aria maestosa.
    - "Vous m'avez sauvé la vie.  Vous êtes francais.  Vous me demandez sa
    grace?  Je vous l'accorde.  Qu'on emmène cet homme!" [78. Voi mi avete
    salvato la vita,  siete francese.  Mi chiedete la sua  grazia?  Ve  la
    concedo.  Si  conduca  via  quest'uomo]   -  disse in fretta e in tono
    energico  l'ufficiale,   prendendo  sottobraccio  Pierre,   che  aveva
    promosso  cittadino  di  Francia per compensarlo di avergli salvato la
    vita, ed entrò con lui nelle stanze interne.
    I  soldati,   rimasti  nel  cortile,   all'udire  lo  sparo  si  erano
    precipitati   nel   vestibolo   chiedendo  che  cosa  fosse  accaduto,
    dimostrandosi pronti a punire il colpevole.  Ma l'ufficiale li fermò e
    disse loro severamente:
    - "On vous demandera quand on aura besoin de vous" [79. Vi si chiamerà
    quando si avrà bisogno di voi]  -.  I soldati uscirono.  L'attendente,
    che  non  aveva  trascurato  di  visitare  la  cucina,   si   avvicinò
    all'ufficiale.
    -  "Capitaine,  ils  ont  de  la  soupe  et du gigot de mouton dans la
    cuisine"  -  disse.  -  "Faut-il vous l'apporter?" [80.  Capitano,  in
    cucina   c'è   della  minestra  e  del  cosciotto  di  montone.   Devo
    portarvelo?].
    - "Oui, et le vin" [81. Sì, e anche del vino]  -  rispose il capitano.


    CAPITOLO 29.

    Quando l'ufficiale francese entrò nelle  stanze  interne  insieme  con
    Pierre,  questi  ritenne  suo dovere dichiarargli ancora una volta che
    era russo e non francese, e fece per allontanarsi;  ma l'ufficiale non
    ne volle neppur sentir parlare, si mostrava talmente cortese, affabile
    e riconoscente verso Pierre che gli aveva salvato la vita,  che questi
    non seppe dirgli di no e si sedette con  lui  nel  salotto,  la  prima
    stanza in cui erano entrati.
    All'affermazione  di Pierre di non essere francese,  il capitano senza
    capire, evidentemente, come si potesse rinunziare a una qualifica così
    lusinghiera,  si strinse nelle spalle e disse che,  se proprio  Pierre
    voleva passare per un russo, ebbene, fosse pur così ma che, nonostante
    questo,  egli  sarebbe stato legato a lui per sempre dalla gratitudine
    perché gli aveva salvato la vita.
    Se quell'uomo avesse avuto in dono una  sia  pur  minima  capacità  di
    comprendere  i  sentimenti  altrui  e avesse intuito quelli di Pierre,
    questi  si  sarebbe  potuto  allontanare;   ma  la  incomprensione  di
    quell'uomo  verso  tutto  ciò  che non si riferiva a se stesso ebbe la
    meglio.
    - "Francais ou  prince  russe  incognito",    -    disse  l'ufficiale,
    osservando  la biancheria sudicia ma fine di Pierre e l'anello che gli
    ornava un dito  -  "je vous dois la vie et le vous offre  mon  amitié.
    Un  Francais  n'oublie jamais ni une insulte,  ni un service.  Je vous
    offre mon amitié.  Je ne vous dis que ca" [82.  Francese,  o  principe
    russo in incognito,  io vi devo la vita e vi offro la mia amicizia. Un
    francese non dimentica mai né un insulto né una cortesia.  Vi offro la
    mia amicizia. Non aggiungo altro].
    Nel   tono  di  voce,   nell'espressione  del  viso  e  nei  gesti  di
    quell'ufficiale vi erano tanta bonarietà e tanta  nobiltà  (nel  senso
    che  i Francesi danno a questa parola) che Pierre,  rispondendo con un
    sorriso istintivo al sorriso di lui,  strinse la mano che  l'ufficiale
    gli tendeva.
    - "Capitaine Ramballe du 13me léger, décoré pour l'affaire du Sept"  -
    così  si  presentò  con  un  incontenibile  sorriso  di soddisfazione,
    sorriso che gli increspò le labbra sotto i baffi.-  "Voudrez-vous bien
    me dire à présent à qui j'ai l'honneur de parler aussi agréablement au
    lieu de rester à l'ambulance avec la balle de ce fou dans  le  corps?"
    [83.    Capitano  Ramballe,  del  tredicesimo reggimento cavalleggeri,
    decorato per il fatto d'arme del giorno sette.  Volete ora  dirmi  con
    chi  ho  l'onore di discorrere così piacevolmente,  invece di trovarmi
    all'ambulanza con in corpo una pallottola di quel pazzo?].
    Pierre rispose  che  non  poteva  dire  il  suo  nome  e,  arrossendo,
    cominciò,  mentre tentava di inventarne uno,  a esporre le ragioni che
    gli impedivano di rivelarlo, ma l'ufficiale lo interruppe subito.
    - "De grace"  -  disse.   -   Je  comprends  vos  raisons,  vous  êtes
    officier...  officier  supérieur,  peut-être vous avez porté les armes
    contre nous.  Ce n'est pas mon affaire.  Je vous dois la vie.  Cela me
    suffit.  Je suis tout à vous. Vous êtes gentilhomme?"  -  aggiunse con
    una  sfumatura  interrogativa.  Pierre  fece  con  il  capo  un  cenno
    affermativo.  -  "Votre nom de baptême, s'il vous plaît? Je ne demande
    pas davantage.  Monsieur Pierre,  dites vous... Parfait. C'est tout ce
    que je désire savoir" [84. Prego.  Capisco le vostre ragioni...  siete
    un ufficiale...  forse un ufficiale superiore;  forse avete combattuto
    contro di noi.  Ma non è cosa che mi riguardi.  Io vi devo la vita,  e
    questo mi basta. Sono pronto a favorirvi. Siete nobile? Il vostro nome
    di battesimo,  se non vi spiace.  Non vi chiedo altro.  Signor Pierre,
    dite? Benissimo. E' tutto quello che desidero sapere].
    Quando furono portati il montone, una frittata, il samovàr, la vodka e
    il vino,  preso da una cantina russa,  che i Francesi avevano  portata
    con  sé,  Ramballe  pregò  Pierre  di  prendere  parte al pranzo e lui
    stesso, con l'avida fretta di un uomo sano e affamato, cominciò subito
    a  mangiare  masticando  rapidamente  con  i  denti   forti,   facendo
    continuamente  schioccare la lingua e ripetendo: "excellent,  exquis!"
    [85. eccellente, squisito!]
    Il viso arrossato era coperto di sudore.  Pierre,  anch'egli affamato,
    accettò  l'invito con molto piacere.  Morel,  l'attendente,  portò una
    casseruola piena di acqua calda,  nella quale immerse una bottiglia di
    vino  rosso.  Portò,  poi,  una bottiglia di "kvas" che aveva preso in
    cucina, per assaggiarlo.  Era questa una bevanda già nota ai Francesi,
    che  le  avevano  dato  un  nome:  la chiamavano "limonade de cochon",
    limonata di porco,  e Morel faceva l'elogio della "limonade de cochon"
    trovata  in  cucina.  Ma  siccome  il  capitano  aveva  con sé il vino
    procuratosi nell'attraversare Mosca,  lasciò il "kvas" a Morel e prese
    la  bottiglia  di  Bordeaux.  Ne  avvolse il collo in un tovagliuolo e
    versò da bere a sé e a Pierre.  La fame placata e il vino  resero  più
    vivace il capitano, che non smise di chiacchierare per tutta la durata
    del pranzo.
    -  "Oui,  mon  cher  M.  Pierre,  je  vous dois une fière chandelle de
    m'avoir sauvé... de cet enragé... J'en ai assez, voyez-vous, de balles
    dans mon corps.  En voilà une"  -  (e indicò il fianco)  "à Wagram  et
    deux  à Smolènsk"  -  (e indicò una cicatrice sulla guancia).   -  "Et
    cette jambe,  comme vous voyez,  qui ne veut pas marcher.  C'est à  la
    grande  bataille  du  7  à  la  Moskowa que j'ai recu ca.  Sacré Dieu,
    c'était beau. Il fallait voir ca, c'était un déluge de feu!  Vous nous
    avez  taillé  une rude besogne;  vous pouvez vous en vanter,  nom d'un
    petit bonhomme.  Et,  ma parole,  malgré l'atout que j'y ai gagné,  je
    serais prêt à recommencer. Je plains ceux qui n'on pas vu ca" [86. Sì,
    mio  caro  signor  Pierre,  vi devo un'infinita gratitudine per avermi
    salvato... da quel pazzo...  Ne ho abbastanza,  sapete,  di pallottole
    nel corpo. Ecco, una a Wagram e due a Smolènsk... E questa gamba, che,
    come vedete,  non vuole camminare. E' un regalo della grande battaglia
    sulla Moscova. Era bello, però! Bisognava vedere: un diluvio di fuoco!
    Ci avete fatto sudare, potete vantarvene davvero, corpo di un diavolo!
    E,  parola mia d'onore,  nonostante questa briscola che mi  son  presa
    sarei  pronto  a  ricominciare.  Compiango  coloro che non hanno visto
    quello spettacolo!].
    - "J'y ai été" [87. Ci sono stato]  -  disse Pierre.
    - "Bah,  vraiment!  Eh bien,  tant mieux"  -  continuò  il  francese.-
    "Vous  êtes  de fiers ennemis,  tout de même.  La grande redoute a été
    tenace, nom d'une pipe. Et vous nous l'avez fait crânement payer.  J'y
    suis  allé trois fois,  tel que vous me voyez.  Trois fois nous étions
    sur les canons et trois fois on nous a culbuté comme des  capucins  de
    cartes.  Oh, c'était beau, M. Pierre. Vos grenadiers ont été superbes,
    tonnerre de Dieu! Je les ai vus six fois de suite serrer les rangs, et
    marcher comme à une revue. Les beaux hommes! Notre roi de Naples,  qui
    s'y connaît,  a crié: bravo!  Ah,  Ah!  Soldats comme nous autres!"  -
    diss'egli, sorridendo,  dopo un momento di silenzio.   -  "Tant mieux,
    tant mieux,  M.  Pierre.  Terribles en bataille...  galants..."  -  (e
    ammiccò con un sorriso)  -  "avec les belles,  voilà les Francais,  M.
    Pierre,  n'est-ce pas?" [88.  Davvero?  Tanto meglio!  Malgrado tutto,
    siete nemici valorosi.  La grande ridotta,  corpo di mille  bombe,  ha
    resistito  bene.  E  ce  l'avete fatta pagar cara.  Ci sono andato tre
    volte,  tal quale mi vedete.  Tre volte siamo stati sui cannoni e  tre
    volte ci hanno rovesciati come castelli di carte. Ma era bello, signor
    Pierre!  I vostri granatieri sono stati superbi!  Li ho veduti serrare
    le file sei volte di seguito e marciare come a una rivista.  Che begli
    uomini!  Il nostro re di Napoli, che se ne intende, ha gridato: bravi!
    Ah,  soldati come noi!  Tanto meglio,  tanto  meglio,  signor  Pierre!
    Terribili  in  battaglia...  galanti...  con  le  belle donne,  ecco i
    Francesi. Signor Pierre... non è vero?].
    Il capitano era allegro,  di un'allegria così ingenua e  bonaria,  era
    così  schietto e soddisfatto di sé che Pierre,  guardandolo,  per poco
    non ammiccava anche lui.  La parola "galant"  indusse  il  capitano  a
    riflettere sulla situazione di Mosca.
    - "A propos,  dites donc, est-ce vrai que toutes les femmes ont quitté
    Moscou?  Une  drôle  d'idée!  Qu'avaient-elles  à  craindre?"  [89.  A
    proposito, ditemi, è vero che tutte le donne hanno lasciato Mosca? Che
    strana idea! Che cosa avevano da temere?].
    -  "Est-ce  que  les dames francaises ne quitteraient pas Paris si les
    Russes  y  entraient?"  [90.   Forse  che  le  signore  francesi   non
    lascerebbero Parigi se vi entrassero Russi?].
    - Ah,  ah,  ah!   -  L'ufficiale scoppiò in un'allegra risata, da uomo
    sanguigno, battendo con la mano sulla spalla di Pierre.  -  "Ah,  elle
    est forte celle-là"  -  esclamò.   -  "Paris?  Mais Paris...  Paris...
    [91. Buona, questa! Parigi? Ma Parigi... Parigi...].
    - "Paris est la capitale du monde"  [92.  Parigi  è  la  capitale  del
    mondo]  -  disse Pierre, concludendo la frase.
    Il  capitano  lo  guardò.  Aveva  l'abitudine di interrompersi nel bel
    mezzo del discorso  e  di  fissare  l'interlocutore  con  uno  sguardo
    affettuoso e ridente.
    - "Eh bien,  si vous ne m'aviez pas dit que vous êtes Russe,  j'aurais
    parié que vous êtes Parisien.  Vous avez ce je ne  sais  quoi,  ce..."
    [93.  Ebbene,  se non mi aveste detto che siete russo, avrei scommesso
    che siete parigino. Avete quel non so che,  quel...]  -.  Fatto questo
    complimento, lo guardò di nuovo, in silenzio.
    -  "J'ai  été  à  Paris,  j'y  ai passé des années" [94.  Sono stato a
    Parigi, vi ho trascorso molti anni]  -  disse Pierre.
    - "Oh, ca se voit bien. Paris! Un homme qui ne connaît pas Paris,  est
    un sauvage. Un parisien, ca se sent à deux lieues. Paris, c'est Talma,
    la Duchénois, Potier, la Sorbonne, les boulevards"  -  e, resosi conto
    che  la  conclusione  era  più  debole della premessa,  si affrettò ad
    aggiungere:  -  "Il n'y a qu'un Paris au monde.  Vous avez été à Paris
    et vous êtes resté russe.  Eh bien, je ne vous estime pas moins.. [95.
    Oh,  si vede!  Un uomo che non  conosce  Parigi  è  un  selvaggio.  Un
    parigino, lo si riconosce a due miglia di distanza. Parigi è Talma, la
    Duchenois, Potier, la Sorbonne, i grandi viali... Non c'è che una sola
    Parigi  al  mondo!  Voi  siete  stato  a Parigi e siete rimasto russo.
    Ebbene, non vi stimo meno per questo...].
    Sotto  l'effetto  del  vino  bevuto  e  dopo  i  giorni  trascorsi  in
    solitudine,  con  la  sola  compagnia  dei suoi cupi pensieri,  Pierre
    provava un involontario piacere nel conversare con quell'uomo  allegro
    e bonario.
    - "Pour en revenir à vos dames,  on les dit bien belles. Quelle fichue
    idée d'aller s'enterrer dans les steppes,  quand l'armée francaise est
    à Moscou. Quelle chance elles ont manquée celles-là! Vos moujiks c'est
    autre  chose,  mais  vous  autres,  gens civilisés,  vous devriez nous
    connaître mieux que  ca.  Nous  avons  pris  Vienne,  Berlin,  Madrid,
    Naples,  Rome,  Varsovie,  toutes  les  capitales du monde...  On nous
    craint,  mais on nous aime.  Nous sommes bons  à  connaître.  Et  puis
    l'empereur..." [96. Per tornare alle vostre signore, si dice che siano
    molto belle. Ma che assurda idea di andare a seppellirsi nelle steppe,
    mentre l'esercito francese è a Mosca! Che occasione hanno perduta! Per
    i  vostri  contadini  è  diverso,   ma  voi,  gente  civile,  dovreste
    conoscerci meglio.  Abbiamo preso  Vienna,  Berlino,  Madrid,  Napoli,
    Roma, Varsavia, tutte le capitali del mondo... Siamo temuti, ma amati.
    E  bisogna  conoscerci,  ne  vale la spesa.  E poi l'imperatore...]  -
    cominciò, ma Pierre lo interruppe.
    - "L'empereur"  -  ripeté Pierre,  e il  suo  viso  assunse  di  colpo
    un'espressione  triste e turbata.   -  "Est-ce que l'empereur..." [97.
    L'imperatore... Forse che l'imperatore...].
    - "L'empereur? C'est la générosité, la clémence, la justice,  l'ordre,
    le génie,  voilà l'empereur!  C'est moi Ramballe, qui vous le dis. Tel
    que vous me voyez, j'étais son ennemi il y a encore huit ans. Mon père
    a été comte émigré... Mais il m'a vaincu, cet homme.  Il m'a empoigné.
    Je  n'ai pas pu résister au spectacle de grandeur et de gloire dont il
    couvrait la France. Quand j'ai compris ce qu'il voulait, quand j'ai vu
    qu'il nous faisait une litière de lauriers,  voyez-vous,  je  me  suis
    dit: voilà un souverain, et je me suis donné à lui. Et voilà! Oh, oui,
    mon  cher,  c'est  le  plus grand homme des siècles passés et à venir"
    [98.  L'imperatore?  E'  la  generosità,  la  clemenza,  la  giustizia
    l'ordine,  il genio: questo è l'imperatore.  Sono io, Ramballe, che ve
    lo dico. Così come mi vedete, ancora otto anni fa ero suo nemico.  Mio
    padre era un conte emigrato... Ma egli, quell'uomo, mi ha conquistato.
    Non ho potuto resistere allo spettacolo della grandezza e della gloria
    di cui copriva la Francia.  Quando ho capito ciò che voleva, quando ho
    visto che ci preparava un letto di allori, vedete, mi sono detto: ecco
    un sovrano,  e mi sono dato a lui.  E' così,  mio caro!  Egli è il più
    grand'uomo dei secoli passati e futuri].
    -  "Est-il  à Moscou?" [99.  E' a Mosca?]  -  domandò Pierre esitando,
    timido come un colpevole.
    L'ufficiale guardò il viso colpevole di Pierre e sorrise.
    - "Non, il fera son entrée demain" [100. No, egli farà il suo ingresso
    domani]  -  rispose e proseguì i suoi racconti.
    La loro conversazione fu  interrotta  dalle  grida  che  venivano  dal
    portone  e  dall'arrivo  di Morel,  il quale era venuto ad avvisare il
    capitano  che  erano  giunti   alcuni   ussari   Wurttemberghesi   che
    pretendevano  di  mettere i loro cavalli nel cortile dove si trovavano
    già quelli del capitano.  La difficoltà  nasceva  dal  fatto  che  gli
    ussari non capivano ciò che si diceva loro.
    Il  capitano  ordinò  di far venire alla sua presenza il sottufficiale
    più  anziano  e  in  tono  severo  gli  domandò  a  quale   reggimento
    appartenesse,  chi  fosse  il  suo  comandante  e con quale diritto si
    permettesse di occupare un  alloggio  già  occupato.  Alle  prime  due
    domande  il  sottufficiale  tedesco,  che  capiva  malamente la lingua
    francese, rispose dicendo il nome del reggimento e del comandante;  ma
    all'ultima domanda,  che non comprese,  rispose con un misto di parole
    francesi e tedesche che egli era il furiere del reggimento  e  che  il
    comandante  gli  aveva  ordinato  di  occupare  tutte le case di fila.
    Pierre,  che conosceva il tedesco,  tradusse al capitano le parole del
    sottufficiale  e riferì in tedesco le risposte del capitano all'ussaro
    wuttemburghese.  Una volta compreso  ciò  che  gli  era  stato  detto,
    l'ussaro  cedette  e  portò  via i suoi cavalli.  Il capitano uscì sul
    terrazzino coperto e diede ad alta voce alcuni ordini.
    Quando rientrò nella stanza,  trovò Pierre seduto sempre  allo  stesso
    posto,  con  la  testa  tra  le  mani.  Sul  suo  viso  era dipinta la
    sofferenza.  E,  realmente,  in quel momento  egli  soffriva.  Quando,
    uscito il capitano, era rimasto solo, si era tutto a un tratto ripreso
    e  si era reso conto della situazione in cui si trovava.  Non il fatto
    che Mosca era stata presa e i fortunati vincitori spadroneggiavano  in
    città, accordandogli la loro protezione, tormentava Pierre, per quanto
    gli fosse penoso.  Lo tormentava la coscienza della propria debolezza.
    Alcuni bicchieri di vino,  la  conversazione  con  quell'uomo  bonario
    avevano annientato in lui quell'umore cupo e concentrato nel quale era
    vissuto   negli   ultimi   giorni   e   che  era  indispensabile  alla
    realizzazione del suo progetto. La pistola, il pugnale,  il caffettano
    erano pronti;  Napoleone sarebbe entrato a Mosca il giorno successivo;
    Pierre era sempre della stessa opinione;  che fosse cioè cosa utile  e
    meritoria  uccidere il malfattore,  ma sentiva che ormai non l'avrebbe
    più fatto. Perché? Non lo sapeva, ma prevedeva che il suo progetto non
    si sarebbe realizzato.  Lottava  contro  la  coscienza  della  propria
    debolezza,  ma  avvertiva confusamente che non l'avrebbe vinta,  che i
    tetri  pensieri  di  prima  sulla  vendetta,   sull'assassinio  e  sul
    sacrificio  di  sé  erano  svaniti  come  fumo  al contatto di un uomo
    qualsiasi, incontrato per caso.
    Il capitano,  zoppicando leggermente e  fischiettando,  rientrò  nella
    stanza.
    Le chiacchiere dell'ufficiale, che prima avevano divertito Pierre, ora
    gli parevano insopportabili.  L'aria che stava fischiettando, il gesto
    con cui si arricciava  i  baffi,  l'andatura,  tutto  ora  gli  pareva
    offensivo.
    "Adesso  me  ne andrò e non gli dirò più neppure una parola",  pensava
    Pierre.  Lo pensava sì,  ma intanto continuava a rimanere seduto  allo
    stesso  posto.  Una  strana  sensazione di debolezza lo inchiodava lì:
    voleva alzarsi e andar via, ma non poteva.
    Il capitano, invece, aveva l'aria molto allegra. Andò per due volte da
    un capo all'altro della  stanza,  gli  occhi  gli  scintillavano  e  i
    baffetti erano percorsi da un lieve fremito, come se sorridesse tra sé
    e sé a qualche divertente pensiero.
    -  "Charmant"    -    disse  a  un  tratto    -    le  colonnel de ces
    Wurttembourgeois! C'est un Allemand;  mais brave garcon,  s'il en fut.
    Mais allemand" [101. Simpatico, il colonnello di quei Wurttemberghesi!
    E' un tedesco, ma bravo ragazzo quanto mai! Però tedesco].
    E sedette di fronte a Pierre.
    - "A propos, vous savez donc l'allemand, vous?" [102. A proposito, voi
    conoscete dunque il tedesco?].
    Pierre lo guardò in silenzio.
    - "Comment dites-vous asile en allemand?" [103.  Come si dice asilo in
    tedesco?].
    - "Asile?"  -  ripeté Pierre.   -   "Asile  en  allemand:  Unterkunft"
    [104. Asilo? Asilo, in tedesco, si dice "Unterkunft"].
    - "Comment dites-vous?" [105. Come?]  -  tornò a chiedere il capitano,
    in fretta e con espressione diffidente.
    - "Unterkunft"  -  ripeté Pierre.
    -  "Unterkoff"    -   disse il capitano e,  per alcuni secondi,  fissò
    Pierre con occhi ridenti.   -  "Les Allemands sont  de  fières  bêtes.
    N'est-ce  pas,  monsieur Pierre?  Eh bien,  encore une bouteille de ce
    Bordeaux moscovite, n'est-ce pas?  Morel,  va nous chauffer encore une
    petite bouteille.  Morel!" [106.  "Unterkoff"... I Tedeschi sono molto
    stupidi. Non è vero, signor Pierre? Be' ancora una bottiglia di questo
    Bordeaux moscovita,  non è vero?  Morel  ce  ne  scalderà  ancora  una
    bottiglia. Morel!] - gridò allegramente il capitano.
    Morel  portò  le  candele e una bottiglia di vino.  Il capitano guardò
    alla  luce  il  suo  interlocutore  ed  evidentemente  rimase  colpito
    dall'espressione  di  tristezza  del suo viso.  Ramballe,  con sincero
    rammarico e viva simpatia, gli si avvicinò e si chinò su di lui.
    - "Eh bien, nous sommes tristes"  -  disse, toccandogli un braccio.  -
    "Vous aurais-je fait de la peine? Non,  vrai,  avez-vous quelque chose
    contre  moi?"  -  domandò.   -  "Peut-être en rapport à la situation?"
    [107.  Sicché siamo tristi?  Vi ho forse addolorato?  Non  avete  mica
    qualcosa contro di me? Forse per via della situazione?].
    Pierre  non  rispondeva,   ma  fissava  affettuosamente  il  capitano.
    Quell'espressione di simpatia gli faceva piacere.
    - "Parole d'honneur,  sans parler de ce que  je  vous  dois,  j'ai  de
    l'amitié pour vous. Puis-je faire quelque chose pour vous? Disposez de
    moi.  C'est  la  main  sur  le coeur que je vous le dis" [108.  Parola
    d'onore, senza parlare di quanto vi debbo, provo per voi un sentimento
    di amicizia. Posso fare qualcosa per voi? Disponete di me. Per la vita
    per la morte.  Ve lo dico  con  il  cuore  in  mano]    -    continuò,
    picchiandosi il petto.
    - "Merci" [109. Grazie]  -  rispose Pierre.
    Il  capitano  lo  guardò  fissamente,  come  quando  aveva  saputo  la
    traduzione  della  parola  asilo   in   tedesco,   e   il   suo   viso
    improvvisamente si rischiarò.
    - "Ah,  dans ce cas je bois à notre amitié!" [110.  Ah, in questo caso
    bevo alla nostra amicizia!]  -  esclamò allegramente,  riempiendo  due
    bicchieri  di vino.  Pierre ne prese uno e bevette.  Ramballe vuotò il
    suo,  strinse ancora  una  volta  la  mano  a  Pierre  e  poi,  in  un
    atteggiamento pensoso e malinconico, appoggiò i gomiti sulla tavola.
    - "Oui, mon cher ami, voilà les caprices de la fortune"  -  cominciò a
    dire.    -    "Qui  m'aurait dit que je serais soldat et capitaine des
    dragons au service de Bonaparte,  comme nous  l'appellions  jadis.  Et
    cependant me voilà à Moscou avec lui. Il faut vous dire, mon cher,"  -
    proseguì  con la voce triste e misurata di chi si prepara a raccontare
    una lunga storia  -  "que notre nom est l'un des plus  anciens  de  la
    France!" [111.  Sì,  mio caro amico,  ecco i capricci della sorte. Chi
    avrebbe mai detto che sarei stato soldato e capitano  dei  dragoni  al
    servizio di Bonaparte,  come lo chiamavamo un tempo?  E ora,  eccomi a
    Mosca con lui. Devo dirvi, mio caro,  che il nostro nome è uno dei più
    antichi di Francia!].
    E con la franchezza e l'ingenuità dei Francesi, il capitano raccontò a
    Pierre la storia dei suoi antenati, gli descrisse la sua infanzia e la
    sua  adolescenza,  la  sua virilità,  le sue relazioni,  i suoi affari
    finanziari e di famiglia.  "Ma pauvre mère",  si  capisce,  aveva  una
    parte importante in tutto il racconto.
    -  "Mais  tout ca n'est que la mise en scène de la vie,  le fond c'est
    l'amour. L'amour! N'est-ce pas, monsieur Pierre"  -  disse animandosi.
    -  "Encore un verre?" [112.  Ma tutto questo non è che la  messinscena
    della vita. La sostanza è l'amore. L'amore! Non è vero, signor Pierre?
    Ancora un bicchiere?].
    Pierre bevette ancora un bicchiere e se ne riempì un terzo.
    - "Oh,  les femmes,  les femmes!" [113.  Oh, le donne, le donne!] e il
    capitano, guardando Pierre con gli occhi umidi,  si mise a parlare dei
    suoi amori e delle sue avventure galanti.  Ne aveva avute molte, e gli
    si poteva credere guardando il suo bel viso  virile  e  l'entusiastica
    animazione con la quale parlava delle donne.  Benché le storie amorose
    di Ramballe avessero tutte  quel  carattere  licenzioso  nel  quale  i
    Francesi  vedono  l'unico  fascino  e  l'unica  poesia dell'amore,  il
    capitano raccontava le sue avventure così  profondamente  convinto  di
    essere il solo ad aver provato e conosciuto tutto l'incanto dell'amore
    e  parlava  delle  donne  in  modo  così  affascinante,  che Pierre lo
    ascoltava con curiosità.
    Senza dubbio,  "l'amour" che il  giovane  ufficiale  amava  tanto  era
    diverso  da  quello  semplice  e  di genere inferiore che Pierre aveva
    provato un tempo per sua moglie e da quello romantico che provava  ora
    per Natascia, due specie di amore che Ramballe disprezzava allo stesso
    modo:  l'una  era  "l'amour  des  charretiers",  l'altra  "l'amour des
    nigauds" [114.  L'amore dei carrettieri (...)  l'amore  degli  scemi];
    "l'amour"  che  il  capitano  ammirava consisteva essenzialmente nella
    mancanza  di  naturalezza  nei  rapporti  con  le  donne  e   in   una
    combinazione di deformazioni che costituivano il fascino principale di
    quel sentimento.
    Così  il  capitano  narrò  la  toccante  storia  del suo amore per una
    incantevole  marchesa  di  trentacinque   anni;   e   di   un   altro,
    contemporaneo  a  quello,  di  una  ingenua  incantevole  fanciulla di
    diciassette anni, figlia dell'affascinante marchesa.  La generosa gara
    tra madre e figlia, conclusasi con il sacrifizio della madre che offrì
    la  figliuola  in  moglie  all'amante,  sebbene fosse il ricordo di un
    tempo ormai lontano,  commoveva ancora il giovane ufficiale.  Raccontò
    poi  un episodio in cui il marito sosteneva la parte dell'amante e lui
    (l'amante) quella  del  marito,  e  alcuni  episodi  comici  dei  suoi
    "souvenirs  d'Allemagne",  dove asilo si dice "Unterkunft",  dove "les
    maris mangent de la choucroute" e dove "les jeunes  filles  sont  trop
    blondes"  [115.  Ricordi  di Germania (...) i mariti mangiano i crauti
    (...) le fanciulle sono troppo bionde].  Finì con  l'ultimo  episodio,
    avvenuto  in  Polonia,  ancora fresco nel ricordo del capitano,  e che
    egli descriveva con  gesti  rapidi  e  con  il  viso  infiammato,  che
    consisteva  nel  fatto che egli aveva salvato la vita a un polacco (in
    genere,  nei racconti del capitano,  l'avvenimento di una vita salvata
    era  in  primo  piano),  il  quale gli aveva affidato la sua seducente
    moglie  (parigina  nel  cuore)  mentre  lui  entrava   a   far   parte
    dell'esercito.  Il  capitano era felice,  l'incantevole polacca voleva
    fuggire con lui,  ma egli,  spinto da un  sentimento  di  magnanimità,
    aveva restituito la moglie al marito, dicendogli: "Je vous ai sauvé la
    vie et je vous sauve votre honneur!" [116. "Vi ho salvato la vita e vi
    salvo  l'onore"].  Nel ripetere queste parole,  il capitano si asciugò
    gli occhi e si scosse,  come per respingere da sé la debolezza da  cui
    era  stato vinto a quel commovente ricordo.  Ascoltando i racconti del
    capitano,  come spesso accade nelle ore avanzate della  sera  e  sotto
    l'effetto  del  vino,  Pierre  seguiva  e  comprendeva  tutto  ciò che
    l'ufficiale diceva ma, nello stesso tempo,  seguiva il filo dei propri
    ricordi  personali che,  all'improvviso e chissà perché,  gli si erano
    affacciati alla mente. Mentre ascoltava quei ricordi d'amore,  gli era
    di  colpo tornato alla memoria il suo amore per Natascia e,  riandando
    con  il  pensiero  alle  immagini  di   quell'amore,   le   paragonava
    mentalmente a quelle rievocate dall'ufficiale.  Seguendo la narrazione
    della lotta tra il dovere e l'amore,  Pierre  rivedeva  davanti  a  sé
    tutti  i  minimi particolari del suo ultimo incontro con l'oggetto del
    suo amore presso la torre di Sucharëv.  Quell'incontro l'aveva  allora
    lasciato  indifferente  e non ci aveva pensato più,  ma ora gli pareva
    che in esso ci fosse stato qualcosa di molto significativo e poetico.
    "Pëtr Kirillyc',  venite qui,  vi ho  riconosciuto",  riudiva  ora  le
    parole che Natascia gli aveva rivolto, rivedeva dinanzi a sé gli occhi
    di lei,  il suo sorriso,  la cuffietta da viaggio, da cui sfuggiva una
    ciocca di capelli...  e avvertiva in tutto ciò un non so che di tenero
    e di commovente.
    Terminato  il  racconto dell'avventura con l'affascinante polacca,  il
    capitano domandò  a  Pierre  se  non  avesse  mai  provato  un  simile
    sentimento  di  sacrifizio  di se stesso per amore e di invidia per un
    marito.
    Eccitato da quella domanda,  Pierre sollevò il capo e provò il bisogno
    di  manifestare  i  pensieri  che gli occupavano la mente.  Cominciò a
    spiegare che egli comprendeva in modo  completamente  diverso  l'amore
    per  la  donna;  confessò che in tutta la vita aveva amato e amava una
    donna sola e che questa donna non avrebbe mai potuto appartenergli.
    - "Tiens!" [117. Toh!]  -  esclamò il capitano.
    Poi Pierre spiegò  che  amava  quella  donna  sin  dall'infanzia,  che
    dapprima  non aveva osato pensare a lei perché essa era troppo giovane
    e lui era un figlio illegittimo,  senza nome,  e che  poi,  dopo  aver
    ereditato  un  nome  e  un  patrimonio,  non aveva osato pensare a lei
    perché l'amava troppo e l'aveva posta troppo in alto,  al di sopra  di
    tutto  il  resto del mondo,  e perciò tanto più in alto di lui stesso.
    Giunto a questo punto del racconto,  Pierre si volse al capitano e gli
    domandò se capisse una cosa simile.
    Il  capitano  fece  un  gesto che significava che,  se non capiva,  lo
    invitava a proseguire il racconto.
    - "L'amour platonique,  les nuages..."  [118.  L'amore  platonico,  le
    nuvole...]  -  borbottò.
    Forse  per  il vino bevuto,  forse per un bisogno di sincerità o forse
    pensando che il suo interlocutore non  conosceva  e  non  avrebbe  mai
    conosciuto  alcuno dei personaggi della sua storia,  o forse per tutte
    queste cose insieme,  fatto si  è  che  Pierre  sentì  sciogliersi  la
    lingua.  E  un  po'  balbettando,  con gli occhi lustri che guardavano
    chissà dove,  lontano,  narrò tutta  la  sua  storia:  il  matrimonio,
    l'amore di Natascia per il suo migliore amico,  il tradimento di lei e
    tutti i rapporti semplici e puri avuti con la fanciulla. Poi,  cedendo
    alle domande di Ramballe,  disse anche ciò che prima aveva taciuto: la
    sua posizione sociale e, infine, il suo nome.
    Ciò che, in tutto il racconto,  colpì maggiormente il capitano,  fu il
    fatto  che Pierre era molto ricco,  che possedeva due palazzi a Mosca,
    che aveva abbandonato tutto,  ma non era partito dalla città,  celando
    il proprio titolo e il proprio nome.
    A  notte  ormai  tarda,  i due giovani uscirono insieme.  La notte era
    tiepida e chiara.  A sinistra della casa si vedevano  i  bagliori  del
    primo incendio scoppiato a Mosca,  nella via Petrovka;  a destra, alta
    nel cielo,  brillava la giovane falce della luna e dalla parte opposta
    pendeva  la  splendente  cometa che nell'anima di Pierre era legata al
    suo amore.  Gerasim,  la cuoca e i due soldati francesi stavano  ritto
    presso  il portone.  Si udivano le loro risate e le loro conversazioni
    in due lingue reciprocamente  incomprensibili.  Guardavano  l'incendio
    che mandava bagliori sulla città.
    Non  c'era  nulla  di  terribile in quel piccolo e lontano incendio in
    mezzo a una così immensa città.
    Guardando l'alto cielo luminoso di  stelle,  la  giovane  falce  della
    luna,  la  cometa e l'incendio,  Pierre si sentiva commosso e pieno di
    gioia.
    "Ecco...  com'è tutto bello!  Che cosa si  può  desiderare  di  più?",
    pensava. E a un tratto, ricordando il suo progetto, si sentì girare la
    testa,  provò  un  senso  di  malessere  e  dovette  appoggiarsi  alla
    staccionata per non cadere...
    Senza salutare il nuovo  amico,  Pierre,  con  passo  barcollante,  si
    allontanò  dal  portone e,  rientrato nella sua camera,  si coricò sul
    divano e si addormentò di colpo.


    CAPITOLO 30.

    Gli abitanti che si allontanavano dalla  città  e  le  truppe  che  si
    ritiravano vedevano dalle diverse strade i bagliori del primo incendio
    scoppiato il 2 settembre, provandone impressioni diverse.
    Quella  notte  il  convoglio  dei Rostòv era fermo a Mitisci,  a venti
    miglia da Mosca.  Erano partiti il primo settembre,  molto  tardi;  la
    strada  era talmente ingombra di carri e di truppe e tante erano state
    le cose dimenticate,  per cui molti servitori erano  tornati  indietro
    per  prenderle,  che  erano  stati  costretti a decidere di passare la
    notte a cinque  miglia  da  Mosca.  La  mattina  successiva  si  erano
    svegliati tutti tardi, numerosi erano stati i contrattempi e le soste,
    così  che  riuscirono ad arrivare soltanto sino a Bolse Mitisci.  Alle
    dieci di sera i signori Rostòv e i feriti che viaggiavano con loro  si
    erano sistemati nei cortili e nelle "izbe" di quel grosso villaggio. I
    domestici,  i  cocchieri  dei  Rostòv e gli attendenti degli ufficiali
    feriti,  dopo aver servito i padroni cenarono,  diedero da mangiare ai
    cavalli  e li sistemarono,  poi uscirono all'aperto e si sedettero sui
    gradini.
    In una "izbà", vicina alla loro, giaceva ferito l'aiutante di campo di
    Raevskij,  con  un  braccio  spezzato:  il  terribile  dolore  che  lo
    tormentava  lo  costringeva  a lamentarsi e a gemere senza posa e quei
    gemiti risonavano lugubremente nella buia notte autunnale.  L'aiutante
    di  Raevskij  aveva  trascorso  la  prima  notte di sosta nello stesso
    cortile dove si erano sistemati i Rostòv.  La contessa però,  non  era
    riuscita  a chiudere occhio,  a causa di quei lamenti,  e a Mitisci si
    era fermata nell'"izbà"  peggiore,  pur  di  essere  lontana  da  quel
    ferito.
    Uno  dei  domestici,  da  dietro  l'alto  cofano di una carrozza ferma
    all'ingresso,  notò nel buio della  notte  il  bagliore  di  un  altro
    piccolo incendio. Un primo bagliore si vedeva già da un pezzo, e tutti
    sapevano  che  si  trattava del villaggio di Malye Mitisci,  che stava
    andando a fuoco, incendiato dai cosacchi di Mamonov.
    - Ma questo,  fratelli,  è un altro incendio!   -    disse  uno  degli
    attendenti.
    Tutti si volsero ad osservare quel bagliore.
    - Ma sì, hanno detto che sono stati i cosacchi di Mamonov ad appiccare
    il fuoco a Malye Mitisci...
    - Quello non è Malye Mitisci. Malye Mitisci è più lontano.
    - Guarda, guarda, si direbbe che è Mosca...
    Due servitori discesero dai gradini, aggirarono la carrozza e salirono
    sul predellino.
    -  E'  più  a  sinistra!  Come  no?  Mitisci  è di là,  e l'incendio è
    completamente da un'altra parte.
    Altri servi si unirono ai primi.
    - Guarda come brucia!   -  disse uno.   -  Questo,  gente  mia,  è  un
    incendio a Mosca: o in via Sysèvskaja o in via Pogòskaja.
    Nessuno  rispose  a  quell'osservazione.  E  per  un  bel  pezzo tutti
    guardarono in silenzio il lontano divampare del nuovo incendio.
    Un vecchio,  il  cameriere  del  conte  (come  lo  chiamavano)  Danilo
    Terentyc', si avvicinò al gruppo e gridò a Miska:
    - Cos'è che devi vedere qui,  fannullone?... Il conte chiama e non c'è
    nessuno: va' a preparare gli abiti.
    - Sono corso fuori soltanto per prendere acqua  -  rispose Miska.
    - E voi, Danilo Terentyc,  che cosa ne pensate?  Non vi sembra che sia
    proprio a Mosca quell'incendio?  -  domandò uno dei domestici.
    Danilo Terentyc' non rispose e per un pezzo tutti tacquero. L'incendio
    si estendeva e il bagliore andava via via crescendo.
    -  Che  Iddio  ci salvi!  Spira un vento asciutto...   -  disse ancora
    qualcuno.
    - Guarda... guarda come si è esteso! Oh, Signore! Si vedono persino le
    cornacchie. Signore Iddio, abbi misericordia di noi, poveri peccatori!
    - Lo spegneranno, non temere...
    - E chi lo spegnerà?  -  risonò la voce di Danilo Terentyc',  che sino
    a quel momento era rimasto muto.  La sua voce era calma e misurata.  -
    E' proprio Mosca,  fratelli!   -  aggiunse.   -  E' Mosca,  la  nostra
    bianca madre...
    La  voce  gli si spezzò e improvvisamente scoppiò in singhiozzi,  come
    singhiozzano i vecchi.  E parve che tutti i presenti  avessero  atteso
    quel  pianto  per capire che cosa significasse per loro quel divampare
    di incendio.  Si udirono sospiri,  parole di preghiera e i  singhiozzi
    del vecchio cameriere del conte.


    CAPITOLO 31.

    Il cameriere, rientrando, riferì al conte che Mosca bruciava. Il conte
    s'infilò la veste da camera e uscì per vedere. Con lui uscirono Sònja,
    che  non  si  era ancora spogliata,  e "madame" Schoss.  Natascia e la
    contessa erano rimaste in camera.  (Pétja non era più con la famiglia:
    era andato avanti con il suo reggimento, che marciava verso Tròjtza).
    Alla  notizia dell'incendio di Mosca,  la contessa scoppiò in lacrime.
    Natascia, pallidissima, con gli occhi fissi, seduta su una panca sotto
    le icone (nello stesso posto in cui si era  seduta  appena  arrivata),
    non  aveva fatto alcuna attenzione alle parole del padre.  Ascoltava i
    lamenti continui dell'aiutante di campo ferito,  che giungevano da tre
    case di distanza.
    - Ah,  che orrore!  -  esclamò Sònja, rientrando dopo essere stata nel
    cortile.  -  Credo che tutta Mosca brucerà! Il bagliore delle fiamme è
    spaventoso! Natascia, guarda dalla finestra: si vede tutto!   -  disse
    alla cugina,  desiderando evidentemente distrarla in qualche modo.  Ma
    Natascia la guardò come se non capisse,  e di nuovo fissò  lo  sguardo
    verso  l'angolo  della  stufa.  Natascia si trovava in quello stato di
    stupore sin dal mattino,  da quando Sònja,  con meraviglia e  dispetto
    della contessa,  veramente incomprensibili,  aveva ritenuto necessario
    dirle che il principe Andréj era tra i feriti che partivano con  loro.
    La  contessa  era  andata  in  collera  contro Sònja,  come di rado le
    accadeva. La fanciulla aveva pianto e chiesto perdono e ora,  come per
    riparare  alla  sua  colpa,  non  cessava un momento di prendersi cura
    della cugina.  -  Guarda, Natascia, come brucia!-  le diceva.
    - Che cosa brucia?  -  chiese la fanciulla.  -  Ah, sì, Mosca.
    E, sia per non offendere Sònja con un rifiuto,  sia per sbarazzarsi di
    lei, volse la testa verso la finestra e guardò, ma in modo tale da non
    poter  vedere  nulla e di nuovo si mise a sedere nell'atteggiamento di
    prima.
    - Ma hai visto?
    - Sì,  ho visto...  ho visto davvero  -   rispose  Natascia  con  voce
    supplichevole, come pregando di essere lasciata in pace.
    La  contessa e Sònja capivano che né Mosca né il suo incendio potevano
    avere importanza per Natascia.
    Il conte si ritirò di  nuovo  dietro  il  tramezzo  e  si  coricò.  La
    contessa si avvicinò a Natascia,  le toccò la testa con il dorso della
    mano come faceva quando la figliuola non  stava  bene,  le  sfiorò  la
    fronte con le labbra, come per sentire se avesse la febbre e la baciò.
    - Hai freddo? Tremi tutta! Se ti mettessi a letto, eh?  -  le disse.
    - Mettermi a letto? Sì, mi coricherò subito  -  rispose Natascia.
    Quando  quella  mattina  aveva  saputo  che  il  principe  Andréj  era
    gravemente ferito e faceva il viaggio con loro,  Natascia soltanto sul
    primo  momento  aveva  rivolto a tutti una quantità di domande.  Dov'è
    ferito? Come?  E' in pericolo?  E' possibile vederlo?  E quando le era
    stato  detto  che  non  era  possibile  visitarlo,  che era gravemente
    ferito, ma non in pericolo di vita, ella evidentemente senza credere a
    ciò che le dicevano ma convinta che,  per quante domande  facesse,  le
    risposte   sarebbero   sempre  state  le  stesse,   aveva  cessato  di
    interrogare e  di  parlare.  Per  tutto  il  viaggio,  con  gli  occhi
    spalancati,  quegli occhi che la contessa conosceva così bene e la cui
    espressione  tanto  la  sgomentava,   Natascia  era  rimasta  immobile
    nell'angolo  della carrozza e allo stesso modo sedeva ora sulla panca.
    Che pensasse a qualcosa,  che stesse decidendo o avesse già deciso  in
    cuor  suo  qualcosa,  questo  la  contessa lo indovinava,  ma di quale
    decisione si trattasse non lo sapeva, e ciò le procurava un tormentoso
    terrore.
    - Natascia, spogliati, colombella mia, e còricati nel mio letto.
    Soltanto la contessa aveva un letto;  "madame" Schoss e le due ragazze
    dovevano dormire per terra, sopra uno strato di fieno.
    - No,  mamma,  mi stenderò qui in terra  -  rispose Natascia irritata.
    Poi si avvicinò alla finestra e  l'aprì.  I  gemiti  dell'aiutante  di
    campo  giunsero  più distinti attraverso la finestra aperta.  Natascia
    sporse il capo nell'aria umida della notte,  e la contessa vide che il
    sottile  collo  della fanciulla era scosso da singhiozzi frequenti che
    facevano tremare l'intelaiatura della finestra. Natascia sapeva che il
    ferito che si lamentava non era il principe Andréj,  sapeva  che  egli
    giaceva  in quello stesso gruppo di case,  in un'altra "izbà" al di là
    del  cortile;   ma  quel  gemito  straziante  e  continuo  la   faceva
    singhiozzare. La contessa scambiò un'occhiata con Sònja.
    - Còricati,  cara, còricati, anima mia  -  disse la contessa, toccando
    leggermente con una mano la  spalla  della  fanciulla.    -    Suvvia,
    còricati...
    - Ah,  sì...  mi corico subito...  -  rispose Natascia spogliandosi in
    fretta e strappando i lacci della gonna.
    Toltosi il vestito e indossato un giubbetto da notte,  essa,  piegando
    le  gambe,  si  sedette  sul  giaciglio  che  le  era  stato preparato
    sull'impiantito e,  fattasi passare attraverso le spalle la sua  corta
    treccia  sottile,  si  accinse  a rifarla.  Le lunghe dita,  sottili e
    agilissime,  disfacevano,  pettinavano e rifacevano  la  treccia,  con
    mosse abilissime. La testa di Natascia, con gesto abituale, si piegava
    ora  da  una  parte  ora dall'altra,  ma gli occhi febbrilmente aperti
    guardavano immobili nel vuoto.  Quando  i  preparativi  per  la  notte
    furono  finiti,  Natascia si stese lentamente sul lenzuolo che copriva
    il fieno, dal lato della porta.
    - Natascia, còricati in mezzo  -  le disse Sònja.
    - No, sto qui  -  rispose.   -  Coricatevi anche voi  -   aggiunse con
    stizza. E affondò il viso nel guanciale.
    La  contessa,  "madame"  Schoss  e Sònja si spogliarono in fretta e si
    coricarono.  Una piccola lampada rischiarava la stanza.  Ma il cortile
    era  illuminato  dai bagliori dell'incendio che divampava a due miglia
    di distanza e risonava del vociare dei  contadini  riuniti  all'angolo
    della   via,   nelle   bettole  che  i  cosacchi  di  Mamonov  avevano
    saccheggiato. E si udivano sempre i gemiti incessanti dell'aiutante di
    campo ferito.
    Natascia rimase a lungo ad ascoltare i suoni interni  ed  esterni  che
    giungevano sino a lei,  senza muoversi.  Udì dapprima la preghiera e i
    sospiri della madre,  poi lo scricchiolìo del letto,  il noto  russare
    sibilante  di  "madame"  Schoss,  il  tranquillo respiro di Sònja.  La
    contessa chiamò Natascia. La fanciulla non le rispose.
    - Pare che dorma, mamma  -  disse Sònja, sottovoce. La contessa,  dopo
    breve  silenzio,  chiamò un'altra volta Natascia,  ma ancora una volta
    non ottenne risposta.
    Poco dopo Natascia sentì che la madre  respirava  con  ritmo  calmo  e
    regolare...  La fanciulla non si moveva,  sebbene il suo piccolo piede
    nudo,  uscito di sotto la  coperta,  si  gelasse  a  contatto  con  il
    pavimento.
    Come  un  grido  di  vittoria  salì  da una fessura dell'impiantito lo
    stridìo di un grillo. Un gallo cantò in lontananza, un altro,  vicino,
    gli  rispose.  Nella bettola il vocio era cessato e non si udivano più
    che i lamenti dell'aiutante di campo. Natascia si sollevò.
    - Sònja, dormi? Mamma?  -  mormorò.
    Nessuna risposta. Lentamente e con cautela, Natascia si alzò,  si fece
    il  segno della croce e posò con precauzione il piede nudo,  piccolo e
    agile,  sul sudicio freddo impiantito.  Le assi scricchiolarono.  Fece
    alcuni passi di corsa,  come una gattina, e toccò il freddo saliscendi
    della porta.
    Le pareva che qualcosa di pesante battesse a colpi regolari contro  le
    pareti  dell'"izbà":  era  il  suo  cuore  che  batteva forte,  sino a
    spezzarsi, di paura, di sgomento, di amore.
    Aprì la porta,  varcò la soglia e posò i piedi sulla terra  umida  del
    cortile. L'ondata di freddo che l'avvolse la calmò un poco.
    Urtò  con  un  piede  nudo un uomo che dormiva,  lo scavalcò e aprì la
    porta dell'"izbà" dove giaceva il principe Andréj.  Tutto era  avvolto
    nel  buio.  Nell'angolo  in  fondo ardeva una candela posata sopra una
    panca accanto al letto sul quale era disteso un  corpo.  La  cera  del
    sego, ardendo e consumandosi lentamente, pareva un grosso fungo.
    Sin  dal  mattino,  sin da quando cioè aveva saputo della presenza del
    principe Andréj ferito, Natascia aveva deciso che doveva vederlo.  Non
    sapeva  perché ciò dovesse avvenire,  ma sapeva che l'incontro sarebbe
    stato  assai  penoso  e  tanto  più  si  persuadeva  che  esso   fosse
    necessario.
    Per  tutta  la  giornata  era  vissuta  della sola speranza di poterlo
    rivedere durante la notte.  Ma ora,  che era giunto il  momento  tanto
    atteso,  era  assalita dal terrore di ciò che avrebbe visto.  Come era
    sfigurato?  Cosa rimaneva di  lui?  Era  nelle  stesse  condizioni  di
    quell'aiutante  di  campo che non si chetava mai?  Sì,  egli era così,
    certamente.   Nella  fantasia  di  lei  il  principe  Andréj  era   la
    personificazione di quel terribile, continuo lamento. Quando ella vide
    nell'angolo  quella massa indistinta e scambiò per le spalle di lui le
    ginocchia sollevate sotto la coperta,  immaginò un corpo  orrendamente
    mutilato e si fermò in preda all'orrore. Ma una forza irresistibile la
    spinse avanti.  Mosse cautamente un passo, poi un altro, e si trovò in
    mezzo a una piccola stanza ingombra.  Nell'"izbà",  su una panca posta
    sotto le sante immagini, giaceva un'altra persona (era Timochin) e sul
    pavimento erano distesi altri due uomini, il medico e il cameriere.
    Il  cameriere  si sollevò un poco e mormorò qualche parola.  Timochin,
    che soffriva per il dolore di una ferita alla  gamba,  non  dormiva  e
    guardava  a occhi spalancati la strana apparizione di quella fanciulla
    in camicia bianca, giubbetto e cuffia da notte.  Le parole assonnate e
    sgomente  del  cameriere: "Che volete?  Perché siete qui?",  indussero
    Natascia  ad  avvicinarsi  più  rapidamente  a   colui   che   giaceva
    nell'angolo.  Per  quanto  orribile  potesse  essere  la vista di quel
    corpo,  che forse non aveva più nulla di umano,  ella doveva  vederlo.
    Passò  davanti  al  cameriere;  il sego fuso della candela,  che aveva
    formato una specie di fungo, era caduto, ed ella vide distintamente il
    principe Andréj che giaceva con le braccia distese sulla coperta, tale
    e quale l'aveva sempre veduto.
    Egli era come sempre;  ma il rossore  febbrile  del  viso,  gli  occhi
    lucidi,  fissi  estaticamente  su  di  lei  e,  soprattutto,  il collo
    delicato,   infantile  che  emergeva  dal  colletto  rovesciato  della
    camicia,    gli   conferivano   un   aspetto   particolare,   ingenuo,
    fanciullesco,  che ella non gli aveva  mai  veduto.  Natascia  gli  si
    avvicinò  e con un movimento improvviso,  agile,  giovanile,  cadde in
    ginocchio davanti a lui.
    Egli sorrise e le tese la mano.


    CAPITOLO 32.

    Erano trascorsi sette  giorni  da  quando  il  principe  Andréj  aveva
    ripreso  conoscenza  al posto di medicazione del campo di battaglia di
    Borodinò.  Egli aveva passato  quei  giorni  in  uno  stato  di  quasi
    completa incoscienza. La febbre e un'infiammazione agli intestini, che
    erano  stati  lesi,  dovevano,  secondo  l'opinione  del medico che lo
    accompagnava,  condurlo alla morte.  Ma al settimo giorno  egli  aveva
    mangiato  con gusto una fettina di pane con il tè,  e il dottore aveva
    notato che la febbre era  scesa.  Il  principe  Andréj  aveva  ripreso
    completamente i sensi sul far del mattino.
    La  prima notte dopo la partenza da Mosca era stata piuttosto tiepida,
    e il ferito era rimasto nella carrozza; ma a Mitisci aveva egli stesso
    chiesto di essere portato fuori e aveva espresso il desiderio  di  una
    tazza  di  tè.  Il  dolore,  cagionatogli dal trasporto dalla carrozza
    nell'"izbà", lo aveva fatto gemere penosamente e l'aveva fatto svenire
    di nuovo.  Adagiato poi su un letto da  campo,  era  rimasto  a  lungo
    immobile, con gli occhi chiusi; poi li riaprì e mormorò sommessamente:
    "E  il  tè,  dunque?".  Questo  riaffacciarsi  alla memoria dei minuti
    particolari della vita colpì il dottore;  tastò il polso al ferito  e,
    con  stupore  e  disappunto,  dovette  persuadersi  che il battito era
    migliore. Lo notò con disappunto giacché era convinto, per esperienza,
    che il principe Andréj non sarebbe vissuto e che,  se non fosse  morto
    adesso,  la  morte  l'avrebbe  colto qualche tempo dopo con sofferenze
    molto maggiori.  Insieme con il  principe  Andréj  veniva  trasportato
    anche  Timochin,  il  maggiore dal naso rosso,  appartenente anch'egli
    allo stesso reggimento,  ferito a una gamba durante  la  battaglia  di
    Borodinò.  Con loro viaggiavano un medico,  il cameriere del principe,
    il suo cocchiere e due attendenti.
    Al principe Andréj fu portato il tè. Lo bevve avidamente guardando con
    gli occhi febbricitanti la porta che stava di fronte, come se cercasse
    di capire e di ricordare qualche cosa.
    - Non ne voglio più. E' qui Timochin?
    Timochin, scivolando sulla panca, gli si avvicinò.
    - Sono qui, eccellenza.
    - Come va la ferita?
    - La mia? Non c'è male. Ma voi?
    Il principe Andréj si  fece  di  nuovo  pensieroso,  come  se  volesse
    richiamare qualche cosa alla sua mente.
    - Non sarebbe possibile procurarmi un libro?
    - Quale libro?
    - Il Vangelo. Non l'ho.
    Il dottore promise di trovarglielo, e cominciò a interrogare il ferito
    su  ciò  che  sentiva.  Il principe Andréj,  di malavoglia ma con buon
    senso,  rispose a tutte le domande del dottore;  poi disse che sarebbe
    stato necessario mettergli un piccolo cuscino sotto la schiena giacché
    così si sentiva a disagio e soffriva molto.  Il dottore e il cameriere
    sollevarono il cappotto che lo copriva e,  storcendo il  viso  per  il
    fetore  di  carne  putrefatta  che  emanava  dalla  ferita,  presero a
    esaminare l'orribile piaga.  Il dottore si dimostrò molto scontento di
    qualche cosa,  qualche altra rifece in modo diverso, girò il ferito in
    altro modo, così che questi riprese a gemere, per il dolore perdette i
    sensi e fu preso dal delirio. Ripeteva senza posa che gli procurassero
    quel libro al più presto e glielo ponessero accanto.
    - Che vi costa?  -  diceva.  -  Io non l'ho; procuratemelo,  vi prego,
    mettetemelo lì per un momento solo  -  ripeteva con voce lamentosa.
    Il dottore uscì nel cortile per lavarsi le mani.
    -  Ah,  gente senza coscienza!   -  disse al cameriere che gli versava
    l'acqua sulle mani.  -  Per un minuto che l'ho lasciato...  E' un male
    così terribile, quello, che proprio non so come lo possa sopportare.
    -  Mi  pareva  che  gli  avessero  messo sotto qualcosa,  Signore Gesù
    Cristo!  -  rispose il cameriere.
    Soltanto quando la carrozza si fermò a  Mitisci,  il  principe  Andréj
    aveva capito dove fosse e che cosa gli fosse accaduto, e aveva chiesto
    di  essere  trasportato  nell'"izbà".  Dopo  essere di nuovo caduto in
    deliquio a causa del dolore,  aveva ripreso i sensi nell'"izbà" mentre
    beveva  il  tè  e là,  rivivendo con il pensiero tutto ciò che gli era
    accaduto,  ricordò  chiaramente  il  momento  in  cui,   al  posto  di
    medicazione,  alla  vista  delle  sofferenze di quell'uomo che odiava,
    aveva avuto dei pensieri nuovi,  che gli facevano sperare la felicità.
    E  quei  pensieri,  per  quanto vaghi e confusi,  si erano impadroniti
    nuovamente della sua anima.  Aveva creduto di possedere  quella  nuova
    felicità,  felicità  che aveva qualcosa in comune con il Vangelo.  Per
    questo aveva chiesto che gli portassero un Vangelo...  Ma  la  cattiva
    posizione,  data  alla  sua  ferita nel rigirarlo,  gli aveva di nuovo
    turbato i pensieri,  e per la terza volta egli si  ridestò  alla  vita
    quando  già era avvolto dall'assoluto silenzio della notte.  Un grillo
    strideva di là dell'entrata; nella via qualcuno gridava e cantava; gli
    scarafaggi correvano sulla tavola,  sulle icone e  sulle  pareti;  una
    grossa mosca si dibatteva sul suo capezzale e attorno alla candela che
    si scioglieva pian piano, assumendo la forma di un grosso fungo.
    La  sua anima non era in uno stato normale.  Un uomo sano,  di solito,
    pensa,  percepisce e ricorda un infinito numero di oggetti,  ma ha  il
    potere  e  la  forza,  dopo  aver  fatto  una  scelta di pensieri e di
    fenomeni,  di fermare la propria attenzione sulla serie dei pensieri o
    dei  fenomeni  scelti.   L'uomo  sano,   in  un  momento  di  profonda
    meditazione,  si può distrarre per  dire  una  parola  gentile  a  una
    persona che entra,  e riprendere di nuovo il filo dei propri pensieri.
    Ma l'anima del principe Andréj,  sotto questo punto di vista,  non era
    in  condizioni  normali.  Tutte  le  facoltà del suo spirito erano più
    attive,  più precise che mai,  ma agivano indipendentemente dalla  sua
    volontà.     Idee    e    immagini    diversissime    lo    dominavano
    contemporaneamente.  Di tanto in tanto il suo  pensiero  cominciava  a
    lavorare  con  una  forza,  una  precisione  e un'intensità di cui era
    incapace nello stato normale;  ma a  un  tratto,  nel  mezzo  di  quel
    lavorio mentale,  il filo del pensiero si spezzava,  veniva sostituito
    da una qualsiasi immagine  inattesa,  ed  egli  non  riusciva  più  ad
    afferrarlo.
    "Sì,   una   nuova   felicità   mi   si   è  rivelata,   una  felicità
    imprescrittibile", pensava,  coricato nella silenziosa "izbà" semibuia
    e  guardando  davanti  a sé con gli occhi spalancati,  febbrili.  "Una
    felicità che non dipende dalle forze materiali,  che  è  al  di  fuori
    delle influenze esterne,  una felicità che è soltanto dell'anima... la
    felicità dell'amore!  Ogni uomo è in grado di comprenderla,  ma  Iddio
    solo può percepirla e prescriverla! Ma come dunque Iddio ha prescritto
    questa legge?  E perché il Figlio?...". A un tratto lo svolgersi delle
    sue idee si spezzava,  e il principe Andréj udiva (senza sapere se nel
    delirio  o  nella  realtà)  una  voce dolce e sommessa che ripeteva di
    continuo, ritmicamente: "piti-piti-piti" e poi "iti-itiiti" e di nuovo
    i "piti-piti-piti" e ancora "ti-ti".  E insieme con il suono di questa
    musica sussurrante,  sentiva sorgere sul suo viso,  proprio nel mezzo,
    una strana costruzione aerea  fatta  di  aghi  sottili  o  di  schegge
    minutissime.  Sentiva (per quanto la cosa gli fosse penosa) che doveva
    sforzarsi di mantenere l'equilibrio affinché  quella  costruzione  che
    stava  sorgendo  non crollasse;  tuttavia crollava,  ma per riprendere
    lentamente  a  risorgere  al  suono   cadenzato   di   quella   musica
    sussurrante.  "Si  allunga!  Si  allunga!  Si  distende  e continua ad
    allungarsi",  diceva a  se  stesso  il  principe  Andréj.  E  insieme,
    tendendo l'orecchio a quel mormorio e provando la sensazione di quella
    costruzione  di  aghi che sorgeva e si distendeva,  il principe Andréj
    vedeva a tratti anche la luce rossastra della  candela  e  sentiva  il
    fruscio  degli scarafaggi e il ronzio della mosca che sbatteva sul suo
    guanciale e sul suo viso.  Ogni qualvolta la  mosca  gli  sfiorava  le
    guance  gli  produceva  una sensazione di bruciore;  e intanto egli si
    stupiva che,  dibattendosi in mezzo all'edificio di aghi che gli stava
    sorgendo sul viso,  la mosca non lo facesse crollare.  C'era, inoltre,
    una cosa importante...  un non so che di bianco presso la porta...  la
    statua di una sfinge che gli toglieva, essa pure, il respiro.
    "Ma  forse è la mia camicia posata sulla tavola",  pensava il principe
    Andréj, "e queste sono le mie gambe... e quella è la porta;  ma perché
    tutto  si  innalza  e si distende?" e piti-piti-piti...  e ti-ti...  e
    piti... piti-piti... "Basta,  smettila per favore,  basta!" supplicava
    il  principe  rivolgendosi a qualcuno.  E,  ad un tratto,  le idee e i
    sentimenti sorsero in lui con una chiarezza e una forza straordinarie.
    "Sì,  l'amore!",  pensava di nuovo con una lucidità perfetta;  "ma non
    quell'amore che ama per qualcosa, a proposito o a cagione di qualcosa,
    ma  quell'amore  che ho provato per la prima volta quando,  sentendomi
    morire,  ho veduto il mio nemico,  e tuttavia l'ho amato.  Ho  provato
    quel  sentimento  d'amore  che  è l'essenza stessa dell'anima e non ha
    bisogno di oggetto.  Anche ora provo il sentimento di beatitudine  che
    deriva dall'amare il prossimo,  dall'amare i nemici, dall'amare tutti,
    dall'amare Dio in ogni sua manifestazione. Si può amare di amore umano
    una persona cara;  ma soltanto un nemico si  può  amare  di  un  amore
    divino. Per questo appunto ho provato tanta gioia quando ho sentito di
    amare quell'uomo.  Che ne sarà di lui?  Sarà vivo, oppure... Amando di
    amore umano, si può passare dall'amore all'odio, mentre l'amore divino
    non può mutare. Nulla,  neppure la morte,  lo può distruggere.  Esso è
    l'essenza dell'anima.  Quante persone ho odiato nella mia vita!  E fra
    tutte nessuna ne ho amata e  nessuna  ne  ho  odiata  quanto  lei".  E
    ricordò  vivamente Natascia,  ma non come la ricordava prima,  non con
    quel solo fascino che dava a lui tanta gioia; ma per la prima volta si
    raffigurò  l'anima  della  fanciulla.   Comprese  il  sentimento,   le
    sofferenze,  la  vergogna,  il  pentimento di lei.  Per la prima volta
    capiva tutta la crudeltà della sua rottura con Natascia,  la  crudeltà
    del  suo  rifiuto.  "Se  almeno  mi fosse possibile vederla ancora una
    volta! Guardarla ancora una volta negli occhi e dire...".
    E piti-piti-piti e ti-ti, e piti-piti-bum... La mosca urtò...
    L'attenzione del principe Andréj passò subitamente  in  un  mondo  tra
    realtà e delirio, in cui stava avvenendo qualcosa di straordinario. In
    quel mondo,  come già prima, continuava ad innalzarsi, senza crollare,
    l'edificio e sempre continuava  ad  allungarsi...  La  candela  ardeva
    ancora  di  luce rossastra e la medesima camicia-sfinge giaceva presso
    la porta. Ma,  oltre a tutto questo,  qualcosa scricchiolò,  entrò una
    fresca ventata e una nuova sfinge bianca apparve presso la porta. E la
    sua testa aveva il viso pallido e gli occhi lucenti di quella Natascia
    alla quale egli pensava poco prima.
    "Oh, com'è penoso questo delirio che non cessa mai", pensò il principe
    Andréj,  cercando  di scacciare quel viso dalla sua immaginazione.  Ma
    quel viso  era  davanti  a  lui  con  la  forza  della  realtà,  e  si
    avvicinava... Il principe Andréj sarebbe voluto ritornare al mondo del
    pensiero  puro  di  prima,  ma non poteva: il delirio lo teneva in suo
    potere.  La sommessa voce continuava il suo dolce,  ritmico  mormorio.
    Qualcosa  premeva,  si  stendeva,  e un volto strano stava di fronte a
    lui. Il principe Andréj raccolse tutte le proprie forze per riprendere
    coscienza;  fece un movimento e tutto a un tratto un tintinnio  risonò
    alle sue orecchie.  Gli occhi gli si oscurarono ed egli,  come un uomo
    che affonda nell'acqua,  perse i  sensi.  Quando  rinvenne,  Natascia,
    quella stessa Natascia viva che egli, tra tutte le creature del mondo,
    avrebbe  voluto  amare  di  quell'amore  nuovo,   puro,   divino,   di
    quell'amore che gli si era ora rivelato,  stava in ginocchio davanti a
    lui.  Comprese  che  quella  era  la  vera,  viva Natascia;  non ne fu
    stupito, ma ne provò una dolce gioia. Natascia,  in ginocchio,  con lo
    sguardo  sgomento inchiodato su di lui (ella non poteva muoversi),  lo
    guardava trattenendo i singhiozzi.  Il suo viso pallido era  immobile;
    solo la parte inferiore di esso era pervaso da un leggero tremito.
    Il principe Andréj sospirò di sollievo, sorrise e le tese la mano.
    - Voi!  -  disse.  -  Che felicità!
    Natascia, con un movimento rapido ma prudente, gli si avvicinò di più,
    rimanendo sempre in ginocchio e,  presagli con dolcezza la mano, chinò
    il capo e gliela sfiorò con le labbra.
    -  Perdono!    -    mormorò,  alzando  la  testa  e  guardandolo.    -
    Perdonatemi!
    - Vi amo!  -  disse il principe Andréj.
    - Perdonatemi...
    - Perdonarvi che cosa?
    -  Perdonatemi  ciò che ho fatto  -  disse Natascia con voce spezzata,
    appena percettibile e,  sfiorandola con le labbra,  prese a  baciargli
    ripetutamente la mano.
    -  Ti  amo  più  e  meglio  di  prima    -   disse il principe Andréj,
    sollevandole con la mano il viso per poterla guardare negli occhi.
    Quegli occhi,  inondati di lacrime  di  felicità,  lo  guardavano  con
    timida compassione e con una gioia piena di amore.  Il pallido, scarno
    viso di Natascia,  dalle  labbra  gonfie,  era  più  che  brutto,  era
    spaventoso.  Ma  il  principe  Andréj  non  vedeva  quel viso,  vedeva
    soltanto gli occhi pieni di luce che  erano  meravigliosi.  Alle  loro
    spalle si udirono alcune voci.
    Il  cameriere  Pëtr,  ora  completamente  sveglio,  chiamò il dottore.
    Timochin, che non aveva chiuso occhio per il dolore alla gamba,  aveva
    già  veduto  da  un  pezzo  tutto  quello  che accadeva e,  coprendosi
    accuratamente con il lenzuolo il suo corpo  svestito,  stava  immobile
    sulla panca.
    - Che c'è?   -  chiese il dottore,  sollevandosi dal suo giaciglio.  -
    Signorina, favorite uscire.
    In quel momento una cameriera,  mandata dalla contessa  a  cercare  la
    figlia, bussò alla porta.
    Come  una  sonnambula,  destata  a  un tratto nel mezzo del suo sonno.
    Natascia uscì dalla stanza e,  rientrata nella sua "izbà",  si  lasciò
    cadere singhiozzando sul suo giaciglio.
    Da quel giorno,  per tutta la durata del viaggio dei Rostòv,  in tutte
    le soste di riposo e in tutte le tappe di pernottamento,  Natascia non
    si  allontanò  più da Bolkonskij,  e il dottore dovette confessare che
    non si sarebbe mai aspettato da una fanciulla tanta fermezza né  tanta
    abilità nel curare un ferito.
    Per  quanto  inorridisse  al  pensiero  che il principe Andréj potesse
    morire durante il viaggio (secondo la convinzione del dottore) tra  le
    braccia di Natascia, la contessa non aveva potuto opporsi alla volontà
    della figlia. Benché in seguito ai rapporti che si erano stabiliti tra
    il  principe Andréj ferito e Natascia fosse logico pensare che in caso
    di guarigione i progetti di matrimonio si sarebbero ripresi,  nessuno,
    e  tanto meno Natascia e il principe Andréj,  toccava quell'argomento.
    La questione di vita o di morte sospesa non solo su Bolkonskij,  ma su
    tutta la Russia, faceva lasciar da parte qualsiasi altra possibilità.


    CAPITOLO 33.

    Il 3 settembre,  Pierre si svegliò molto tardi. Aveva male al capo; il
    vestito,  che non si era  tolto  per  andare  a  dormire,  gli  pesava
    addosso, e nell'anima provava un confuso sentimento di vergogna per la
    consapevolezza di quanto aveva commesso il giorno innanzi.  La cosa di
    cui si vergognava era la sua conversazione con il capitano Ramballe.
    L'orologio a pendolo segnava le  undici,  ma  fuori  il  tempo  pareva
    insolitamente fosco.  Pierre si alzò, si stropicciò gli occhi e, vista
    la pistola con il calcio cesellato che  Gerasim  aveva  rimesso  sulla
    scrivania,  si ricordò dove si trovava e che cosa lo attendeva proprio
    quel giorno.
    "Sono forse già in ritardo?" pensò. "Credo di no: egli non farà il suo
    ingresso in Mosca prima di mezzogiorno...".
    Pierre non si permetteva di riflettere a ciò che stava per fare, ma si
    affrettava ad agire al più presto.
    Riassestatosi il vestito e presa la pistola,  si preparava ad  uscire.
    Ma  ecco  che,  per  la  prima volta,  si domandò come avrebbe portato
    quell'arma per la via: non in mano,  certamente.  Anche sotto  l'ampio
    caffettano  sarebbe  stato difficile nascondere quella grossa pistola.
    Né era possibile nasconderla nella cintura o sotto l'ascella. Inoltre,
    l'arma era scarica, e Pierre non aveva avuto il tempo di ricaricarla.
    "Non importa,  userò il pugnale",  si disse,  sebbene parecchie volte,
    riflettendo al modo di realizzare il suo progetto, avesse concluso che
    l'errore principale commesso dallo studente nel 1809 era proprio stato
    quello di aver voluto uccidere Napoleone con un pugnale.  Ma,  come se
    lo scopo principale a cui Pierre tendeva consistesse,  più  che  nella
    realizzazione  del  progetto,  nel  dimostrare  a  se  stesso  che non
    intendeva rinunciarvi e che  avrebbe  fatto  tutto  il  possibile  per
    mandarlo  a affetto,  afferrò risolutamente il pugnale smussato con il
    fodero verde e che aveva comperato insieme con la pistola non  lontano
    dalla torre di Sucharëv, e lo nascose sotto il panciotto.
    Strettasi  la  cintura  del  caffettano  e  calatosi  sugli  occhi  il
    berretto, Pierre attraversò il corridoio, cercando di non far rumore e
    di non incontrare il capitano, ed uscì in strada.
    L'incendio che aveva guardato con indifferenza la sera innanzi, si era
    notevolmente  esteso.   Mosca  bruciava  già  in  parecchi  punti,   e
    contemporaneamente  bruciavano  il Karetnij Rjàd,  la Zamoskorec',  il
    Gostinnij-Dvor,  la via Povàrskaja,  i barconi sul fiume e il  mercato
    dei legnami, presso il ponte di Dogoromìlovo.
    La  strada  che Pierre doveva percorrere,  attraverso numerosi vicoli,
    sboccava in via Povàrskaja  e  di  là  sull'Arbàt,  presso  la  chiesa
    dell'Apparizione  di  San  Nicola,  accanto alla quale aveva deciso da
    tempo di compiere la sua impresa.  Le porte di ingresso e  le  imposte
    delle  case  erano  per la maggior parte chiuse,  le strade e i vicoli
    deserti.  Un odore di fumo e di bruciaticcio  stagnava  nell'aria.  Di
    tanto in tanto gli venivano incontro cittadini russi dal viso timido e
    inquieto,  e soldati francesi che vagavano per le strade con l'aria di
    gente avvezza alla vita del campo.  Gli uni  e  gli  altri  guardavano
    Pierre con stupore.  E non solo per la sua alta statura e per il corpo
    massiccio,  non solo per l'espressione  strana,  cupa,  concentrata  e
    dolente del suo volto e di tutta la sua figura;  i Russi lo guardavano
    perché  non  riuscivano  a  capire  a  quale  ceto   sociale   potesse
    appartenere  quell'uomo,  e  i  Francesi  lo  seguivano  con gli occhi
    meravigliati soprattutto perché Pierre,  contrariamente  a  tutti  gli
    altri  Russi  che  li guardavano con curiosità e sgomento,  non badava
    assolutamente a loro. Presso il portone di una casa,  tre Francesi,  i
    quali stavano raccontando qualcosa a un gruppetto di Russi,  fermarono
    Pierre e gli domandarono se sapesse parlare francese.
    Pierre scosse il capo in segno  negativo,  e  proseguì.  In  un  altro
    vicolo  una  sentinella,  ritta  presso  un  cassone verde,  gli gridò
    contro,  ma Pierre,  soltanto quando udì ripetere  il  grido  in  tono
    minaccioso  e  udì  il  rumore  del fucile imbracciato,  capì di dover
    passare sul lato opposto della strada.  Non vedeva e non  udiva  nulla
    attorno a sé. Con fretta e con orrore, come qualcosa di terribile e di
    estraneo  portava  entro  di  sé  il suo proponimento,  con il timore,
    ammaestrato  com'era  dalla  esperienza  della  notte  precedente,  di
    poterlo  in  qualche  modo  smarrire.  Ma  non  era destino che Pierre
    potesse portare intatti i  suoi  sentimenti  sino  al  luogo  cui  era
    diretto. Inoltre, anche se nulla lo avesse trattenuto lungo la strada,
    il  suo  intento non si sarebbe potuto realizzare perché Napoleone era
    entrato già da quattro ore nel  Cremlino,  passando  dal  sobborgo  di
    Dorogomìlovo e attraverso l'Arbàt e ora,  di pessimo umore, seduto nel
    gabinetto imperiale del palazzo del Cremlino,  era intento a impartire
    ordini  precisi sulle misure da prendere immediatamente per estinguere
    gli incendi,  prevenire i saccheggi e  rassicurare  gli  abitanti.  Ma
    Pierre  non lo sapeva: tutto assorto nell'azione futura,  si torturava
    come si torturano coloro che si accingono a un'impresa che si presenta
    impossibile,  non già per le difficoltà che  può  presentare,  ma  per
    l'incompatibilità  del  fatto con la loro natura;  si torturava per la
    paura che gli venisse meno il coraggio nel momento decisivo, e che ciò
    gli facesse perdere totalmente la stima di se stesso.
    Per quanto non vedesse e non sentisse  nulla  attorno  a  sé,  trovava
    d'istinto  la  strada e non si sperdeva tra i vicoli e i vicoletti che
    dovevano condurlo in via Povàrskaja.
    A mano a mano che vi si avvicinava, il fumo si faceva sempre più denso
    e cominciava persino a sentirsi il calore dell'incendio.  Di tanto  in
    tanto  si vedevano levarsi guizzanti lingue di fiamme da sotto i tetti
    delle case.  In  quel  quartiere  i  passanti  erano  più  numerosi  e
    apparivano  più inquieti e più agitati.  Ma Pierre,  sebbene avesse la
    sensazione che qualcosa di straordinario avveniva attorno a  lui,  non
    si  rendeva  conto  che  stava  per  giungere nel cuore dell'incendio.
    Percorrendo una viuzza che attraversava una vasta zona senza  edifici,
    confinante  da  un  lato  con  la  via  Povàrskaja  e dall'altro con i
    giardini del principe Gruzinskij,  Pierre udì  a  un  tratto,  proprio
    accanto a sé, il pianto disperato di una donna. Si fermò, come destato
    da un sonno profondo, e alzò il capo.
    Al margine del sentiero, sopra l'erba secca e polverosa, era ammassato
    un  mucchio  di masserizie: guanciali di piuma,  un somovàr,  immagini
    sacre e bauli.  Presso i bauli era  accovacciata  una  donna  non  più
    giovane,  magra,  dai  lunghi denti sporgenti,  avvolta in un mantello
    nero e con il capo coperto da una cuffia.  La  donna,  dondolandosi  e
    pronunziando parole indistinte,  singhiozzava.  Due bimbe,  di dieci o
    dodici anni,  dalle vesti corte e  sudice,  guardavano  la  madre  con
    un'espressione di stupore sui visetti pallidi e spaventati. Un bambino
    di  circa  sette  anni,  l'ultimo  nato,  in  camiciotto e con il capo
    coperto da un enorme berretto certo non suo,  piangeva tra le  braccia
    di una vecchia bambinaia. Una sudicia servetta scalza, seduta sopra un
    baule,  sciogliendosi  la  treccia  biondiccia,  ne  strappava ciocche
    bruciacchiate e le annusava. Il marito, un uomo non alto, dalle spalle
    curve,  in uniforme da impiegato,  con due piccole basette  rotonde  e
    ciuffi  di  capelli  lisci  sulle  tempie,  che spuntavano di sotto il
    berretto,  smuoveva con aria impassibile  i  bauli  accatastati  l'uno
    sopra l'altro e ne estraeva a fatica alcuni indumenti.
    La  donna,  non  appena  vide  Pierre,  si lasciò quasi cadere ai suoi
    piedi.
    - Santi benedetti, cristiani ortodossi, salvateci, aiutateci! Qualcuno
    mi aiuti!   -  gridava tra i singhiozzi.    -    Mia  figlia,  la  mia
    figliuoletta!  Abbiamo lasciato là la nostra bimba! E' bruciata tra le
    fiamme! Per questo l'ho allevata... Oh... oh... oh!
    - Taci,  Màrija Nikolàevna  -  disse il marito  alla  moglie,  a  voce
    bassa,  evidentemente  soltanto  per  giustificarsi  di  fronte  a  un
    estraneo.   -  Certamente l'ha portata via mia sorella,  se  no,  dove
    potrebbe essere!  -  soggiunse.
    -  Mostro!  Brigante!    -   prese a gridare la donna,  smettendo a un
    tratto di piangere.   -  Tu non hai cuore,  non hai  pietà  della  tua
    creatura.  Un  altro  l'avrebbe  strappata alle fiamme...  Ma lui è un
    mostro,  lui non è un uomo,  lui non è un padre!  Voi  che  siete  una
    persona  nobile    -    continuò  la  donna  rivolgendosi  a Pierre  -
    ascoltatemi...  L'incendio è scoppiato nella casa accanto,  e il fuoco
    si  è appiccato alla nostra.  La domestica ha cominciato a gridare: al
    fuoco! Ci siamo precipitati per mettere in salvo un po' di roba. Siamo
    scappati fuori con quello che avevamo addosso...  Ecco ciò che abbiamo
    potuto  prendere: le immagini sante e la biancheria da letto della mia
    dote...  tutto il resto è andato perduto.  Quando  abbiamo  cercato  i
    bambini, Kàtenka non c'era. Oh, oh, oh Signore!  -  e la donna riprese
    a singhiozzare.   -  La mia piccina, la mia bimba cara è bruciata... è
    bruciata!
    - Ma dov'è rimasta?  -  domandò Pierre.
    Dall'espressione del viso di Pierre,  la donna comprese che quell'uomo
    l'avrebbe aiutata.
    -  Caro...  caro  padre!   -  gridò,  aggrappandosi alle sue gambe.  -
    Benefattore mio, da' un po' di pace al mio cuore... Aniska,  canaglia,
    va' con lui,  accompagnalo  -  gridò alla servetta, aprendo irosamente
    la bocca e mettendo in mostra i lunghi denti.
    - Accompagnami, accompagnami... io...  io farò...   -  balbettò Pierre
    con voce affannata.
    La  sudicia  servetta uscì da dietro un baule,  si avvolse sul capo la
    treccia e,  sospirando,  si incamminò con i tozzi piedi nudi lungo  il
    sentiero.
    Pierre  pareva  ridestarsi  di colpo alla vita dopo un lungo deliquio.
    Alzò il capo,  gli brillò negli occhi una luce nuova,  seguì  a  passo
    rapido  la  servetta,  la  raggiunse  e  sboccò  poco  dopo  nella via
    Povàrskaja. L'intera strada era avvolta da un denso fumo nero,  lingue
    di fiamma guizzavano a tratti da quella nube scura.  Una gran folla si
    pigiava davanti  all'incendio.  In  mezzo  alla  strada,  un  generale
    francese  diceva  qualcosa  alle persone che lo attorniavano.  Pierre,
    accompagnato dalla ragazza,  stava avvicinandosi al punto  in  cui  si
    trovava il generale, ma alcuni soldati lo fermarono.
    - "On ne passe pas!" [119. Non si passa!]  -  gli gridò uno di essi.
    - Da questa parte, zietto  -  lo chiamò la servetta.  -  Passeremo dal
    vicolo...
    Pierre  ritornò  indietro e seguì la ragazza,  saltellando di tanto in
    tanto per raggiungerla.  La  servetta  attraversò  la  via,  svoltò  a
    sinistra nel vicolo e,  oltrepassando tre case, girò a destra ed entrò
    in un portone.
    - Ecco,  è subito qui  -  disse e,  attraversato il cortile,  aprì  il
    cancelletto  in una palizzata di legno e si fermò,  indicando a Pierre
    una piccola costruzione che ardeva tra le fiamme guizzanti e luminose.
    Una parte era crollata,  l'altra bruciava,  e lingue di fuoco uscivano
    dalle fessure delle finestre e dal tetto.
    Quando  Pierre  si  avvicinò  al cancello,  fu assalito da una vampata
    calda e istintivamente si fermò.
    - Qual è, qual è la vostra casa?  -  domandò.
    -  Oh,  oh,  oh!    -    gemette  la  ragazza,  indicando  la  piccola
    costruzione.    -  Lì,  proprio lì era il nostro alloggio...  E tu sei
    bruciata, Kàtenka, tesoruccio, padroncina mia adorata!   -  cominciò a
    strillare alla vista dell'incendio, sentendo il bisogno di manifestare
    clamorosamente i propri sentimenti.
    Pierre  si  avvicinò al padiglione,  ma il calore era tale che egli vi
    descrisse involontariamente attorno un semicerchio e si trovò vicino a
    una grande casa che stava bruciando,  per il momento,  soltanto da  un
    lato,  dal tetto, e attorno alla quale si agitava una folla di soldati
    francesi.  Pierre sulle prime non capì  che  cosa  costoro  facessero,
    intenti  a  trascinare via qualche cosa;  ma,  vedendo davanti a sé un
    soldato che  dava  piattonate  a  un  contadino  per  strappargli  una
    pelliccia  di  volpe,  intuì  vagamente  che  si  stava  compiendo  un
    saccheggio, ma non ebbe tempo a indugiarsi su quel pensiero.
    Lo  scricchiolio  e  il  fragore  delle  pareti  e  dei  soffitti  che
    crollavano, il sibilo e il crepitio delle fiamme, le grida acute della
    folla,   la  vista  delle  nuvole  di  fumo  ondeggianti  che  ora  si
    addensavano fitte e nere, ora si alzavano più chiare tra uno sfavillar
    di scintille; la vista delle fiamme che lambivano i muri ora rossastre
    e compatte, ora a scaglie dorate,  la sensazione del calore del fumo e
    della  rapidità del movimento avevano prodotto su Pierre l'eccitazione
    che producono di solito gli incendi.  Si  trattava  di  un'eccitazione
    particolarmente  intensa  perché all'improvviso,  alla vista di quelle
    fiamme,  Pierre si sentì liberato dai  suoi  opprimenti  pensieri.  Si
    sentì giovane, vivace, abile e risoluto. Aggirò di corsa il padiglione
    dalla parte della casa e già stava per avvicinarsi al lato di essa che
    ancora  resisteva  quando  sulla  sua  testa  udì risonare il grido di
    alcune voci,  seguito da uno schianto e dal pesante tonfo  di  qualche
    cosa caduta non lontano da lui.
    Pierre  si  volse  e  vide  affacciati  alle  finestre  alcuni soldati
    francesi che avevano buttato giù il cassetto di un canterano pieno  di
    oggetti   metallici.   Altri  soldati,   che  stavano  di  sotto,   si
    avvicinarono di corsa.
    - "Eh bien,  qu'est-ce qu'il veut celui-là?" [120.  Ebbene,  che  cosa
    vuole quello?]  -  gridò uno di essi a Pierre che si era fermato.
    -  "Un enfant dans cette maison.  N'avez-vous pas vu un enfant?" [121.
    Un bambino in questa casa...  Non avete veduto un bambino?]-   domandò
    Pierre.
    - "Tiens,  qu'est-ce qu'il chante celui-là?  Va te promener" [122.  Ma
    che sta blaterando quello lì? Va', va' a spasso]  -  disse qualcuno, e
    uno dei soldati,  evidentemente nel  timore  che  Pierre  pensasse  di
    portar via loro l'argenteria e i bronzi che si trovavano nel cassetto,
    si mosse minaccioso verso di lui.
    -  "Un  enfant?"    -   gridò dall'alto un soldato.   -  "J'ai entendu
    pialler quelque chose  au  jardin.  Peut-être  c'est  son  moutard  au
    bonhomme.  Faut être humain, voyez-vous..." [123. Un bambino. Ho udito
    pigolare qualcosa  in  giardino.  Forse  è  il  marmocchio  di  questo
    brav'uomo. Bisogna essere umani, via...].
    - "Où est-il? Où est-il?" [124. Dove? Dove?]  -  domandò Pierre.
    -  "Par  ici!  Par  ici."    -    gli gridò il soldato dalla finestra,
    indicando il giardino che si stendeva dietro la casa.  -  "Attendez je
    vais descendre" [125. Qui! Qui! Aspettate, ora scendo].
    E infatti,  un minuto dopo,  il soldato,  un  giovane  in  maniche  di
    camicia,  dagli occhi neri e una strana macchia su una guancia,  balzò
    fuori da una finestra del pianterreno e,  battendo su  una  spalla  di
    Pierre, corse con lui in giardino.  -  "Dépêchez-vous, vous autres"  -
    gridò  ai  compagni.   -  "Commence à faire chaud" [126.  Spicciatevi,
    voi. Comincia a far caldo].
    Correndo dietro la casa,  lungo un sentiero  cosparso  di  sabbia,  il
    soldato tirò per un braccio Pierre e gli indicò uno spiazzo circolare.
    Sotto una panchina era distesa una bimbetta di tre anni con un abitino
    rosa.
    -  "Voilà  votre  moutard.  Ah,  une petite,  tant mieux"  -  disse il
    soldato.  -  "Au revoir, mon gros. Faut être humain.  Nous sommes tous
    mortels,  voyez-vous..." [127. Eccolo, il vostro marmocchio. Ah, è una
    bambina,  tanto meglio!  Arrivederci,  amico!  Bisogna essere umani...
    Siamo tutti mortali, vedete...]  -  e il giovane soldato dalla macchia
    sul viso tornò di corsa dai suoi compagni.
    Pierre,  ansimando per la gioia,  si precipitò verso la bambina e fece
    l'atto di  prenderla.  Ma  alla  vista  di  un  estraneo  la  piccola,
    evidentemente   malata   di   scrofola,   somigliante   alla  madre  e
    dall'aspetto poco simpatico,  scappò  via  strillando.  Pierre  riuscì
    tuttavia ad afferrarla,  e la sollevò tra le braccia; la bimba si mise
    a gridare con voce rabbiosa e disperata e,  cercando di allontanare da
    sé,  con  le  sue  piccole  mani,  quelle  di  Pierre che la tenevano,
    cominciò a morderlo con la bocca mocciosa.  Pierre fu assalito da  una
    sensazione  di  orrore  e di ribrezzo,  simile a quella che provava al
    contatto di qualsiasi piccolo animale. Ma fece uno sforzo su se stesso
    per non lasciare la bimba e corse con lei verso la casa grande. Ma non
    era più possibile passare per la strada che aveva percorso  prima;  la
    servetta Aniska non c'era più,  e Pierre, con un sentimento di pietà e
    di disgusto,  stringendo a sé con la maggior delicatezza possibile  la
    bimbetta tutta bagnata, che singhiozzava disperatamente, attraversò di
    corsa il giardino per cercare un'altra uscita.


    CAPITOLO 34.

    Quando  Pierre,  correndo  per  cortili  e vicoli,  ritornò con il suo
    fardello nel giardino del principe Gruzinskij  dall'angolo  della  via
    Povàrskaja,  non  riconobbe subito il luogo dal quale si era mosso per
    andare in cerca della bambina,  tanto era gremito di gente e  ingombro
    di  masserizie salvate dalle fiamme.  Oltre a parecchie famiglie russe
    con le loro robe,  che  erano  scampate  all'incendio,  c'erano  anche
    numerosi soldati francesi, in uniformi diverse. Pierre non prestò loro
    alcuna  attenzione.  Gli premeva di trovare la famiglia dell'impiegato
    per rendere la figlia alla madre e ritornare a salvare qualcun  altro.
    Gli  pareva  che  ci fosse ancora molto da fare e che fosse necessario
    farlo al più presto.  Accaldato dalle  fiamme  dell'incendio  e  dalla
    corsa,  Pierre, in quel momento, provava più che mai quella sensazione
    di giovinezza,  di slancio,  di decisione che lo aveva  invaso  mentre
    correva a salvare la bimba.  Questa si era ora calmata; aggrappata con
    le manine al caffettano di Pierre,  gli stava seduta  sul  braccio  e,
    come una bestiola selvatica,  si guardava attorno.  Pierre di tanto in
    tanto la osservava e le sorrideva lievemente.  Gli pareva di  scoprire
    qualcosa  di  commovente,  di  innocente  in quel visetto spaventato e
    malaticcio.
    Nel posto dove Pierre li aveva lasciati,  non trovò più né l'impiegato
    né la moglie.  Egli camminava rapidamente tra la folla,  osservando in
    viso uomini e donne.  Notò,  senza volerlo,  una famiglia georgiana  o
    armena,  composta  da  un  uomo  molto vecchio di tipo orientale,  che
    indossava un pellicciotto di montone e stivali nuovi,  da una  vecchia
    dell'identico  tipo  e da una giovane donna.  La donna,  giovanissima,
    parve a Pierre il perfetto tipo della bellezza orientale,  per le  sue
    sopracciglia  nerissime  e  fini,  per  il  viso  ovale di un colorito
    dolcemente rosato,  assolutamente privo di espressione.  In mezzo alle
    masserizie  ammucchiate da ogni parte,  tra la folla che ingombrava la
    piazza,  quella  donna,  nel  suo  sontuoso  mantello  di  raso  e  il
    fazzoletto viola chiaro che le copriva la testa,  faceva pensare a una
    delicata pianta di serra  gettata  sulla  neve.  Stava  seduta  su  un
    mucchio di fagotti, alle spalle della vecchia, e guardava in terra con
    i  grandi  occhi  neri,  tagliati a mandorla,  immobili,  frangiati da
    lunghe ciglia scure.  Evidentemente conscia  della  propria  bellezza,
    temeva per essa.  Quel viso colpì Pierre che, passando frettolosamente
    lungo lo steccato,  si  volse  parecchie  volte  a  guardarlo.  Giunto
    all'estremità dello steccato e non avendo trovato chi cercava,  Pierre
    si fermò, guardandosi attorno.
    La grossa persona di Pierre,  con la  bimba  in  braccio,  veniva  ora
    notata più di prima, e uomini e donne russi gli si raccolsero attorno.
    - Hai perduto qualcuno,  buon uomo? Siete un nobile, vero? Di chi è la
    bambina?  -  gli domandavano, incuriositi.
    Pierre rispose che la bimba apparteneva a una donna che  indossava  un
    mantello  nero  e  che  poco prima si trovava in quel posto con i suoi
    figliuoli e domandò se qualcuno sapesse chi fosse quella donna e  dove
    fosse  andata.   -  Forse si tratta degli Anferov  -  disse un vecchio
    diacono,  rivolgendosi a una donna dal viso butterato.   -    Signore,
    proteggici,  Signore, proteggici!  -  aggiunse, con l'abituale voce di
    basso.
    - Dove sono gli Anferov?   -  rispose la popolana.   -  Gli Anferov se
    ne  sono  andati  sin  da  stamattina.  La  bimba dev'essere di Màrija
    Nikolàevna o di Màrija Ivànovna.
    - Egli dice che è di una donna, mentre Màrija Nikolàevna è una signora
    -  obiettò un popolano.
    - Ma voi dovete conoscerla...  è magra,  ha i denti lunghi  -   spiegò
    Pierre.
    - Sì,  sì,  è Màrija Nikolàevna.  Tutta la famiglia si è rifugiata nel
    giardino quando sono giunti quei lupi  -  disse la donna,  indicando i
    soldati francesi.
    - O Signore, proteggici!  -  interruppe di nuovo il diacono.
    -  Andate  laggiù,  li  troverete.  E'  lei,  senza  dubbio;  piangeva
    disperatamente  -  riprese la donna.  -  E' lei, ne sono certa.  Ecco,
    per di qua...
    Ma  Pierre  non  ascoltava  la  donna.  Già da qualche momento,  senza
    distogliere gli occhi,  stava osservando ciò che  accadeva  ad  alcuni
    passi  da lui.  Guardava la famiglia armena e due soldati francesi che
    le si erano avvicinati.  Uno dei  due,  un  piccolo  e  agile  ometto,
    indossava un cappotto turchino, stretto alla cintura da una corda. Sul
    capo  aveva il colbacco,  e i piedi erano scalzi.  L'altro,  che aveva
    colpito Pierre in modo particolare, era un tipo magro,  lungo,  con le
    spalle  curve,  lento  nel  muoversi;  l'espressione  del suo viso era
    quella di un idiota. Indossava un cappotto di lana crespa,  un paio di
    pantaloni  azzurri  e grossi stivali sgangherati.  Il piccolo francese
    scalzo dal cappotto azzurro si era avvicinato agli  armeni  e  subito,
    borbottando qualcosa,  aveva afferrato le gambe del vecchio,  il quale
    in fretta e furia, si stava levando gli stivali. L'altro,  in mantello
    di  lana,  si  era  fermato  davanti alla bella armena e immobile,  in
    silenzio, con le mani sprofondate nelle tasche, la guardava.
    - Prendi, prendi la bambina  -  disse Pierre, rivolgendosi in fretta e
    con  tono  autoritario  alla  donna.     -    Restituiscila  ai  suoi,
    restituiscila  tu!    -    gridò,  posando  in  terra  la  piccola che
    strillava,  e di nuovo si voltò a guardare i  soldati  e  la  famiglia
    armena. Il vecchio seduto per terra era già scalzo: il piccolo soldato
    gli  aveva sfilato anche il secondo stivale e li stava sbattendo l'uno
    contro l'altro. Il vecchio, singhiozzando, stava dicendo qualche cosa,
    ma Pierre lo guardava soltanto di sfuggita;  tutta la  sua  attenzione
    era  rivolta  al  soldato  in  cappotto  di  lana crespa che,  in quel
    frattempo, si era avvicinato lentamente alla giovane donna e,  toltesi
    le mani dalle tasche, le afferrava il collo.
    La  bella armena continuava a restare seduta nella medesima posizione,
    con le lunghe ciglia abbassate,  come se non vedesse  e  non  sentisse
    quello che le faceva il soldato.
    Mentre  Pierre  copriva  di  corsa i pochi passi che lo separavano dai
    soldati,  il predone alto e  biondo  aveva  già  strappato  dal  collo
    dell'armena  una  collana,  e la giovane donna,  portandosi le mani al
    collo, gridava con voce penetrante.
    - "Laissez cette femme" [128.  Lasciate stare quella donna!]  -   urlò
    Pierre, con voce selvaggia, afferrando per una spalla il lungo soldato
    curvo, e respingendolo con violenza.
    Il  soldato  cadde,  si  rialzò  e  si  allontanò di corsa.  Ma il suo
    compagno,  lasciando cadere gli  stivali,  sfoderò  la  daga  e  mosse
    minaccioso verso Pierre.
    -  "Voyons,  pas  de bêtises" [129.  Ehi,  non facciamo sciocchezze!]-
    gridò.
    Pierre si trovava in uno di quegli accessi di furore durante  i  quali
    non ricordava più nulla,  e le sue forze si decuplicavano.  Si slanciò
    sul soldato scalzo e,  prima che quello avesse il  tempo  di  servirsi
    della  daga,  lo  aveva  fatto cadere e lo tempestava di pugni.  Dalla
    folla proruppe un grido di ammirazione,  ma proprio in quel momento un
    drappello  di  ulani  francesi  a  cavallo sbucò dietro l'angolo della
    strada.   Gli  ulani  accorsero  verso  Pierre  e  il  soldato  e   li
    circondarono.  Di  ciò che avvenne in seguito,  Pierre non ricordò più
    nulla. Ricordò soltanto di aver percosso qualcuno, di essere stato,  a
    sua  volta,  percosso  e  di essersi trovato,  alla fine,  con le mani
    legate,  mentre un gruppo di soldati francesi gli stava attorno  e  lo
    perquisiva.
    -  "Il  a un poignard,  lieutenant!" [130.  Ha un pugnale,  tenente!]-
    furono le prime parole che Pierre comprese.
    - "Ah, une arme!"  -  disse l'ufficiale, e si volse al soldato che era
    stato preso insieme con Pierre.   -  "C'est bon,  vous direz tout celà
    au  conseil  de  guerre"  -  aggiunse l'ufficiale.  Poi si voltò verso
    Pierre e gli  domandò:  -  "Parlez-vous  francais,  vous?"  [131.  Ah,
    un'arma!  Bene,  bene,  direte  tutto al consiglio di guerra.  Parlate
    francese, voi?].
    Pierre si guardava attorno con gli occhi iniettati  di  sangue  e  non
    rispondeva. L'espressione del suo viso doveva essere terribile, perché
    l'ufficiale francese disse qualche cosa a bassa voce,  e altri quattro
    ulani, staccandosi dal drappello, vennero a porsi a fianco di Pierre.
    - "Parlez-vous francais?"  -   ripeté  l'ufficiale,  tenendosi  a  una
    certa  distanza  da  lui.   -  "Faites venir l'interprète" [132.  Fate
    venire l'interprete].   -  Dal drappello si staccò un ometto in  abito
    civile,  di  foggia  russa.  Pierre,  dal  vestito  e dalla pronunzia,
    riconobbe subito in lui un francese che stava in un negozio di Mosca.
    - "Il n'a pas l'air d'un homme du peuple" [133. Non ha l'aspetto di un
    popolano]  -  disse l'interprete, osservando Pierre.
    - "Oh,  oh!  ca m'a bien l'air  d'un  des  incendiaires"    -    disse
    l'ufficiale.   -  "Demandez-lui ce qu'il est" [134.  Oh, oh! costui ha
    proprio l'aria di un incendiario. Chiedetegli chi è] - aggiunse.
    - Chi sei?  -  chiese l'interprete.  -  Devi rispondere ai superiori.
    - "Je ne vous dirai  pas  qui  je  suis.  Je  suis  votre  prisonnier.
    Emmenez-moi"  [135.  Non  vi  dirò chi sono.  Sono vostro prigioniero:
    portatemi via]  -  disse a un tratto Pierre in francese.
    -  Ah!  Ah!    -    esclamò  l'ufficiale,  aggrottando  il  viso.    -
    "Marchons!" [136. In marcia!].
    La folla si pigiava attorno agli ulani.  Vicinissima a Pierre stava la
    donna dal viso  butterato  con  la  bimbetta  in  braccio,  Quando  il
    drappello si mosse, si mosse anche la donna, dicendo:
    - Dove ti portano,  caro?  E la bambina? Dove la metto, la bambina, se
    non è la loro?
    - "Qu'est-ce qu'elle dit cette femme?"  [137.  Che  cosa  dice  quella
    donna?]  -  domandò l'ufficiale.
    Pierre era come ubriaco.  Il suo stato di esaltazione alla vista della
    bambina che aveva salvato, crebbe ancora.
    - "Ce qu'elle dit?"  -  esclamò.   -  "Elle m'apporte ma fille que  je
    viens  de sauver des flammes"  -  disse.   -  "Adieu!" [138.  Che cosa
    dice?  Mi porta mia figlia,  che ho salvato ora dal fuoco.  Addio!]  -
    e,  senza  sapere  come  gli  fosse sfuggita quella menzogna,  a passo
    deciso e solenne si mosse in mezzo agli ulani.
    Il drappello francese era una delle pattuglie mandate  per  ordine  di
    Duronel  (139)  nelle varie strade di Mosca per arrestare i predoni e,
    in particolare,  gli incendiari  che,  secondo  un'opinione  generale,
    manifestatasi  in  quei  giorni  presso le autorità francesi,  avevano
    appiccato il fuoco alla città.  Dopo aver percorso diverse strade,  la
    pattuglia  arrestò  altre  cinque persone sospette: un bottegaio,  due
    seminaristi,  un contadino,  un domestico e alcuni predoni.  Ma il più
    sospetto,  tra tutti,  era Pierre.  Quando furono condotti a passar la
    notte in una grande  casa  sul  bastione  di  Zubov,  dove  era  stato
    sistemato  un  corpo  di guardia,  Pierre venne isolato e sottoposto a
    severa sorveglianza.


    NOTE.

    N.  3.  Fëdor Petrovic' Kljuciarëv  (1751-1822),  scrittore,  massone,
    amico  di  Nòvikov,  direttore  delle  poste  di Mosca.  Avendo difeso
    Michaìl  Nikolaevic'  Veresciagin  (1790-1812)   dalla   calunnia   di
    tradimento,  venne esautorato da Rastopcìn.  Alessandro Primo nel 1815
    lo nominò senatore.
    N.  4.  Tolstòj ne cita l'esempio seguente: "Je suis né tartare  -  je
    voulus  être romain.   -  Les Francais m'appellèrent barbare.   -  Les
    Russes,  George Dandin",  ossia: "Sono nato tartaro  -   volli  essere
    romano.   -  I Francesi m'han chiamato barbaro.   -  I Russi,  Giorgio
    Dandin".
    N. 31.  Ilariòn Vassilevic' Vassìlcikov (1777-1847) iniziò la carriera
    militare  come sottufficiale di cavalleria.  Prese parte alle campagne
    del 1807,  1812,  1814.  Fu poi generale aiutante di campo,  membro  e
    presidente del Consiglio di stato. Nel 1839 fu creato principe.
    N.   32.   Appartenente  alla  setta  massonica  dei  martinisti,   fu
    sacrificato da Rastopcìn alla furia della  folla,  di  cui  temeva  la
    rivolta.  Ma  pare  che  egli fosse assolutamente innocente (confronta
    nota  3  ).  Per  questo  suo  eccesso  di  zelo,   Rastopcìn  fu  poi
    rimproverato dallo zar.
    N. 40. Arazzi francesi tessuti a mano.
    N. 46. Ampio mantello di lana usato dalle popolazioni arabe.
    N.  53.  Pëtr Alekséevic' Meskòv (1780-?), funzionario russo, dal 1793
    segretario di governatorato.  Implicato  nell'affare  Veresciagin  nel
    1812,  venne imprigionato. Alessandro Primo gli concesse la grazia nel
    1816.
    N.  65.  Si tratta di Friedrich Staps  (1792-1809),  uno  studente  di
    Amburgo,  che  attentò  alla  vita di Napoleone a Vienna il 12 ottobre
    1809.
    N. 139.  Antoine Jean Duronel (1771-1849) fu nominato generale dopo la
    battaglia di Austerlitz.  Prese parte a tutte le campagne napoleoniche
    dal 1806 al 1814.  Aiutante di campo di Luigi  Filippo,  nel  1832  fu
    creato pari di Francia.